Quattro passi nel giardino più letale d’Inghilterra

Qualcosa di terribile alberga nel territorio annesso al castello di Alnwick, posto originariamente a guardia di una strada che attraversa il fiume Aln dall’omonimo barone, attorno all’anno 1096 d.C. Lo spettro ed il residuo karmico degli eventi: da quando circa due secoli dopo, per la sconveniente ed imprevista estinzione della famiglia costruttrifce a seguito di un’accusa di alto tradimento, la residenza fortificata passò ai Percy della Northumbria, che si erano distinti durante la guerra contro gli scozzesi. Molte furono, a seguire da quel giorno, le spietate battaglie combattute in questo luogo. Soprattutto durante la lunga e sanguinosa guerra delle due rose (1455-1485) conflitto dinastico tra i Plantageneti dei Lancaster e degli York, quando il castello diventò un bastione per gli oppositori di Edoardo IV, colui che aveva iniziato, ed avrebbe concluso, il conflitto come re d’Inghilterra. Ma non prima di aver fatto annegare, secondo la leggenda, il suo stesso fratello in una tinozza per fare il vino. Occasione a seguito della quale anche il sostenitore di quest’ultimo Thomas Percy, VII earl di Northumberland, venne imprigionato e messo a morte dal re. Più volte assediato e messo a ferro e fuoco, il castello perse una parte significativa del suo antico splendore e finì abbandonato, almeno fino al XIX secolo, quando Algernon, IV duca di Northumberland, spese 250.000 sterline per restaurarlo, cambiando lo stile degli interni goticheggianti in un più contemporaneo Italianizzante di epoca Vittoriana. Ma i suoi giardini, per quanto ne sappiamo, continuarono a rimanere del tutto privi di fascino, almeno per tutto il secolo del ‘900, durante il quale trovarono l’impiego dapprima come campi coltivati per sostenere lo sforzo bellico, poi nel ruolo di spazio per la coltivazione sistematica degli abeti di Natale. Finché nel 1995 il duca regnante del castello di Alnwick, Henry Percy non morì improvvisamente per overdose da anfetamine, e suo fratello Ralph, a seguito dell’evento, non ereditò il titolo e tutte le proprietà.
Da quel giorno Ralph vive nel castello con sua moglie, l’attuale duchessa Jane Percy, una donna che definire anticonformista sarebbe alquanto riduttivo, la quale mise immediatamente in pratica un vasto ventaglio di idee. Fermamente intenzionata a trarre il massimo dal suo nuovo status nobiliare, ella si dichiarò fermamente intenzionata a trasformare il castello nella più importante attrazione turistica del nord d’Inghilterra. E i passi intrapresi, a tal proposito, risultarono subito in grado di cambiare sensibilmente le cose. Nel giro di qualche anno, il castello ebbe l’occasione di comparire nel primo e secondo film di Harry Potter, prestando le sue alte mura ad Hogwarts, la scuola dei maghi. Contemporaneamente ed anche prima di questo, la Percy aveva iniziato un lungo percorso di restauro e rinnovamento dei giardini, procurandosi l’aiuto di Jacques Wirtz, un architetto famoso per aver lavorato con i Tuileries di Parigi e l’aver contribuito al rinnovamento della residenza del presidente francese. Furono disposte le alte siepi formali, furono portati in sede i rari alberi e le altre piante di pregio, benché nulla, sostanzialmente, corrispondesse alle aspettative del gotha tecnico dei giardini all’inglese. Fu costruita una “casa sull’albero” con centro visitatori e ristorante. Venne poi disposta, al centro del viale principale, una fontana a gradoni, con l’acqua scrosciante che ricordava quella di una grande cascata. Eppure nessuno di questi luoghi, secondo le molte interviste rilasciate negli anni, avrebbe mai costituito quello preferito dalla duchessa di Alnwick. Che si trova, invece, dietro un’alta cancellata di ferro, decorata col simbolo del teschio e delle ossa incrociate.
Può sembrare strano che un luogo costruito come una sorta di Disneyland della campagna inglese, con lo scopo specifico di risollevare una regione spesso trascurata dal turismo, possa ospitare un angolo portatore di assoluta e profonda dannazione. Ma una delle frasi più celebri della duchessa recita: “Ai bambini non interessa conoscere la natura delle piante in quanto tali, o le loro intrinseche connotazioni utili e medicinali. Ciò che cattura immediatamente la loro attenzione è la pericolosità vegetale, il modo in cui una bacca o una foglia possono ucciderti. Senza tralasciare un’approfondita descrizione di quanto sarai destinato a soffrire, prima di raggiungere l’ora della tua morte.” Proprio così: qui al castello di Alnwick, una delle attrazioni più popolari è un piccolo, ma fornitissimo giardino dei veleni. Con oltre 100 piante, provenienti da ogni regione del mondo, ma un più largo spazio dedicato, alquanto sorprendentemente, a molte delle più tipiche ospiti dei giardini all’inglese. Questo risulta essere, in effetti, uno dei punti che il giardino mira ad esporre dinnanzi all’opinione dei visitatori: le piante potenzialmente letali sono tutto intorno a noi in qualsiasi momento, ed invero costituiscono, molto spesso, persino parte della nostra dieta. Poiché sono soltanto le dosi, e la preparazione, a fare la differenza. Secondo una voce di corridoio ripetuta nella maggior parte degli articoli sull’argomento, probabilmente parte in origine di una press release, l’idea del giardino sarebbe venuta alla duchessa a seguito di una visita a Padova, dove avrebbe avuto modo di conoscere direttamente, e cito: “I giardini in cui la famiglia de’ Medici coltivava i veleni da somministrare ai suoi nemici.” Che a dire la verità, sembra un po’ un’esagerazione romantica. È più probabile che ella avesse in effetti visitato, molto semplicemente, il più antico orto botanico di Europa, fondato nel 1545 e che fin da allora, venne usato dall’ateneo cittadino per approfondire lo studio delle piante medicinali. E quelle velenose, che come potrete forse immaginare, molto spesso sono esattamente la stessa cosa.

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Le strane creature rotolanti del lago di Akan

Ho inserito nell’acquario qualcosa di nuovo e straordinario, che molto chiaramente viene da lontano: una certa quantità di sfere. Della misura variabile tra i 10 e 20 cm, quasi perfettamente simmetriche, pelose (erbose?) di un color verde brillante che potrebbe ricordare da vicino uno smeraldo. Non nuotano con le pinne, non hanno occhi, non producono rumore. Eppure sono a tutti gli effetti e molto chiaramente, per come si comportano e l’effetto della loro presenza, assolutamente vive. Qualcuno potrebbe chiamarle pecorelle di mare, oppure minuscoli globi terrestri, per una visione idealizzata in cui questo pianeta fosse totalmente, meravigliosamente rigoglioso e ricoperto di vegetazione. Il loro nome scientifico Aegagropila linnaei, mentre i giapponesi, fin dall’epoca della loro scoperta, li hanno semplicemente definiti marimo (毬藻) dalla parola che vuol dire “palla rimbalzante” mari (iga 毬) ed il suffisso mo (藻) riferito alle più svariate creature vegetali delle profondità lacustri, fluviali o marine. Proprio così, sebbene non lo sembri, siamo al cospetto di un’alga. Una delle più particolari ed amate al mondo, per la sua capacità di assumere, in determinate condizioni ambientali, questa forma geometrica pressoché perfetta, in grado di renderla un elemento decorativo. E molto più di questo… Persino una sorta di animale domestico, per lo meno nel suo paese di provenienza, dove gli sono state dedicate leggende, racconti ed almeno due mascotte antropomorfe. E questo non è un caso accidentale, vista la regione in cui si trova la loro maggiore concentrazione al mondo: un lago di origine vulcanica sito tra le montagne O-Akan e Me-Akan, sull’isola settentrionale di Hokkaido, parte dell’arcipelago in cui tutto, ma proprio tutto, tende ad acquisire un paio d’occhi e deambulare in giro sulla base di un modo di essere in qualche maniera buffo o grazioso. Eppure, persino in questo, le sfere marimo presentano delle significative particolarità. Poiché risultano legate, per lo meno nella loro interpretazione contemporanea, al particolare mondo delle tradizioni degli Ainu, l’antico popolo che un tempo abitava questi luoghi in solitudine, prima che le genti del Sole, provenienti dalla terra meridionale di Yamato, li assimilassero completamente nella loro società. Il che, da un certo punto di vista, non è sbagliato: ogni essere naturale, in effetti, può costituire per la religione di tale popolo il ricettacolo di un Kamuy, o spirito della Natura, in grado di giudicare e ricompensare il comportamento meritevole dell’uomo. Una visione che del resto si ritrova, in qualche misura, anche nella più diffusa religione dello Shinto, la Via degli Dei. L’effettiva valenza folkloristica di questa graziosa pianta, tuttavia, è stata ripetutamente messa in dubbio, vista la natura non confermata dell’unica u’uepekere (storia a trasmissione orale) sull’origine dei marimo, costituita da una stereotipata storia d’amore tra un cacciatore e la figlia del capo villaggio, proibita nel più universale dei drammi dalle solite norme della società. I cui spiriti si sarebbero trasformati, dopo l’ora della loro morte, nelle magnifiche sfere verdeggianti, in qualche modo rappresentative della perfezione dei sentimenti umani. Mentre una visione più realistica dell’intera faccenda è che le Aegagropila fossero in effetti addirittura sgradite agli Ainu, che le chiamavano torasampe (folletto dell’acqua) per la loro tendenza ad impigliarsi tra le maglie delle reti da pesca.
La pianta in questione giacque dunque dimenticata, nelle profondità di un tale remoto lago, fino all’epoca del 1898, quando il botanico Tatsuhiko Kawakami, la riscoprì e classificò dal punto di vista scientifico, accomunandola alla colonia di simili creature scoperte esattamente 55 anni prima da Anton E. Sauter presso il lago Zell, in Austria, e che ben presto avrebbero rivelato la loro presenza anche in Islanda, Scozia ed Estonia. Benché in effetti, in nessuno di questi luoghi il “muschio acquatico” avrebbe mai raggiunto le dimensioni e la bellezza della sua versione giapponese, rendendo facile comprendere perché soltanto lì, fra tutti i luoghi citati, la pianta fosse destinata a diventare ben presto un Tesoro Nazionale formalmente designato. Stato di grazia mirato a preservare un tale bene naturale ma che invece ottenne l’effetto diametralmente opposto, quando negli anni ’20 dello scorso secolo un’ampia fascia di popolazione decise all’improvviso che doveva possedere una simile curiosità, ed il lago iniziò ad essere oggetto di una caccia feroce, con migliaia di piantine sottratte ogni settimana e rivendute a caro prezzo sul mercato delle grandi città. Quello fu l’inizio dell’epoca più oscura per i marimo, in un capitolo di una storia che, tuttavia, avrebbe avuto una sorta di risoluzione verso l’inizio degli anni ’50.

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Viaggiatore assapora il gusto del mango supremo

Qual’è il cibo più pregiato di questa Terra? Le uova del caviale pescato nel mare della Norvegia, affermerebbe qualcuno con enfasi, piuttosto che un grosso tartufo, scovato dal nostro amico cane tra i verdeggianti monti della Toscana. Il pistillo dello zafferano, manualmente raccolto in spropositate piantagioni, con estremo dispendio di tempo ed energia. Tutto questo e molto altro, come esemplificato dal grande libro degli ingredienti naturali, considerati e stimati sulla base della loro effettiva rarità. Dopo tutto, quale miglior modo di stimare le cose? Se non si trova, eppure tutti lo cercano, dev’essere per forza un qualche cosa di speciale. Totalmente all’opposto, come spesso capita del resto, si trova una particolare tradizione giapponese, relativa al perfezionamento estremo di una pietanza assolutamente mondana. Come avviene per lo strabiliante aspetto del bonsai, o allo stesso modo delle scaglie iridescenti della carpa Koi, si tratta di una cultura, questa volta gastronomica, che trae massima soddisfazione da ciò che è perfetto, letteralmente immacolato. Il frutto e il gusto di anni, secoli di tradizione coltivata da qualcuno che, nella vita, pone sopra un piedistallo l’ideale del miglioramento estremo in ciò che costituisce, senza ombra di dubbio, il “suo” campo. L’ambiente in cui non necessita di primeggiare, solamente, ma di eccellere al massimo le aspettative del mondo intero. Questo orgoglioso, capacissimo, sapiente agricoltore della prefettura di Miyazaki, sulle assolate coste dell’isola del Kyushu… Forse non conosceremo mai il suo nome. Probabilmente, non avremo mai l’opportunità di vederlo in faccia, né gustare DIRETTAMENTE la sua opera maestra. Ma possiamo farlo, almeno nella nostra immaginazione, grazie al video e alla testimonianza di Jared Rydelek alias Weird Explorer, colui che viaggia per il mondo, come contorsionista e mangiafuoco (mestieri veramente d’altri tempi!) cogliendo di continuo l’occasione di assaggiare il gusto della frutta più insolita e disparata. Finché lo scorso marzo a quanto ci racconta, benché i video siano stati appena rilasciati, non si è trovato presso la città giapponese di Nagoya, ed ha deciso molto giustamente, di allentare significativamente i cordoni della borsa, e spendere qualche decina di migliaia di yen presso Amane, un celebre negozio di frutta appartenente a quelle leggendarie qualità nipponiche, il cui prezzo è limitato letteralmente dalla sola immaginazione dei compratori. Il che ha pur sempre una sua logica, visto che siamo nel reame possibile del lusso, dove la legge della richiesta e dell’offerta è subordinata all’opera di dar la caccia alle balene e non intendo, in questo caso, cetacei spropositati dell’azzurro mare, bensì uomini d’affari, politici, rappresentanti con dinnanzi a se un incontro di prestigio. Che come previsto rigorosamente dall’etichetta locale, giungono in questo luogo alla ricerca di un omiyage, il regalo concepito per indurre una reazione di spontanea sorpresa e affabilità nei confronti di chi sia ha di fronte.
E proprio a questo doveva servire, l’ottimo esemplare di Taiyo no Tamago (Uovo del Sole) acquistato da Rydelek alla modica cifra di 8.640 yen (circa 70 dollari) per girare questo video, un frutto che definire sopraffino sarebbe senza ombra di dubbio un’affermazione molto riduttiva. Perché tutto, nella sua esperienza di acquisto, sembra essere stato curato fin nei minimi dettagli: la scatola inclusiva di pamphlet descrittivo, all’interno della quale il frutto è stato protetto con una retina bianca che assomiglia alla cuffia di un neonato. La confezione esterna creata al momento dell’acquisto… Di cartone lucido, recante la frase leggermente fuori contesto di à la carte (qualcuno di voi ha visto un menu?) ma si sa che il francese è una lingua che piace, e soprattutto, che contribuisce nell’indurre un’atmosfera di eleganza profonda e duratura. E ciò soprattutto lì, nel paese dove le cameriere in abito formale lavorano in qualità di hostess nei bar. E poi, il colore e l’aspetto del frutto stesso, che è perfettamente simmetrico ed uniforme, la più estrema ed assoluta rappresentazione di come un mango dovrebbe essere, tutto qui. Niente irregolarità, nessuna macchia antiestetica, sia pure questa un’espressione naturale dell’aspetto di simili produzioni vegetali. Qui l’evoluzione naturale di un albero non viene neppure preso in considerazione. Perciò al momento dell’apertura, la domanda diventa lecita: ma il sapore di cotanta perla sovradimensionata, sarà davvero all’altezza delle (elevatissime) aspettative?

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Le cuffie con una tecnologia di 4.000 anni fa

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Normalmente, moderno vuol dire costoso e le soluzioni tecniche più avanzate sono inevitabilmente quelle maggiormente desiderabili all’interno di un prodotto di ultima generazione. Un esempio? Molti ricordano con entusiasmo e nostalgia l’epoca trascorsa dei “bei vecchi Nokia 3310” che telefonavano soltanto, ma “lo facevano dannatamente bene!” Eppure ben pochi, persino tra coloro che declamano un simile motto come verità divina, sarebbero pronti a barattare il proprio modernissimo smartphone per l’indistruttibile (o così si dice) mattone blu-cobalto norvegese. Basta, del resto, inoltrarsi per qualche minuto nel favoloso mondo patinato del lusso, per trovare un andamento delle cose essenzialmente all’incontrario. Meno una cosa appare pratica da utilizzare e/o produrre, tanto più è desiderabile, nonché costosa, mentre di pari passo c’è un legame indissolubile con un principio che sussiste da epoche remote: la visione universale del bello. Ed è un momento assai particolare ed importante, nella vita di un’azienda tecnologica, quello in cui si scopre di aver raggiunto una base sufficientemente solida, dal punto di vista della reputazione e della sicurezza finanziaria, da potersi avventurare nella produzione di un qualcosa che non ha sostanzialmente nessun tipo di predecessore. Ciò che ne deriva, in via collaterale, è sempre un video che procede per sommi casi, così.
In una delle proposte ad Internet più popolari nella storia del canale ufficiale su YouTube della compagnia dell’audio giapponese Fostex, diventata famosa oltre 30 anni fa grazie alla produzione di componenti per altoparlanti professionali, veniamo invitati a prendere visione del processo di rifinitura esteriore di uno dei suoi prodotti più eclettici ed originali: le cuffie TH900, ricoperte grazie alla metodologia antichissima della laccatura urushi, una forma d’arte originaria unicamente di questo paese, e praticata fin da tempo immemore all’interno di questo stabilimento del villaggio di Sakamoto (prefettura di Suruga) da cui scaturisce anche un’ampia varietà di penne, orologi, utensili di vario tipo e ciotole tradizionali. A tal punto, ancora oggi, è straordinariamente popolare ed apprezzata in tutto l’arcipelago una simile soluzione per proteggere ed al tempo stesso abbellire gli oggetti, le cui prime attestazioni archeologiche risalgono addirittura all’era preistorica del periodo Jōmon (10.000 – 300 a.C.) Sarà dunque opportuno specificare cosa, in effetti, distingua questo metodo di laccatura estremo-orientale da quello in uso qui da noi fino al tardo Rinascimento europeo e che traeva origine dall’India, consistente nel creare l’eponima vernice trasparente grazie a copiose quantità della secrezione dell’insetto lākshā, un tipo di cocciniglia degli alberi. Mentre la lacca giapponese, dal canto suo, ha un’origine esclusivamente vegetale come esemplificato anche dal video della Fostex, e si produce a partire dall’alberodel Toxicodendron vernicifluum, uno stretto parente dell’edera velenosa, in grado di indurre reazioni allergiche piuttosto gravi nell’uomo.
Si nota subito in effetti nelle prime battute del video la tenuta estremamente coprente dell’uomo incaricato di praticare le incisioni negli arbusti designati a un tale compito ingrato, ed ancor maggiormente nel suo collega impastatore, che all’interno dello stabilimento indossa guanti e camice protettivo degni di un’istituzione di tipo nucleare. Basterebbe infatti una singola goccia della resina sul corpo, ancora pressoché grezza in questa fase e contenente il principio attivo dell’urushiol, per infliggerli vesciche simili ad ustioni, comprensibilmente molto dolorose. Il semplice fatto che un simile processo di lavorazione, in effetti, sia stato integrato in una logica industriale con alti volumi di produzione è già di per se affascinante. Ma aspettate di vedere ciò che succede di lì a poco…

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