L’assalto delle Chevy rimbalzanti

Low Rider

Questa particolare tipologia di gara automobilistica non ha bisogno di piloti a bordo. Né di accendere il motore. È un po’ come i mondiali di calcio; o almeno, lo sarebbe se al posto dei giocatori umani, si usassero delle vetture a quattro ruote. Con sospensioni idrauliche invece che scarpini. E per quanto concerne quel pallone, beh… Avremmo l’ideale sfera o globo che preannuncia l’ultima battaglia. “Chevrolet Impala, scelgo te” potrebbe allora fare il giovane proprietario/allenatore con i mezzi guanti, mentre gira di 180 gradi il suo cappello da cowboy. Che non avendo una visiera, bensì una tesa che gli gira tutto attorno, continuava a fargli ombra esattamente nello stesso modo. Meglio sarebbe stato, salire su un cavallo, per guardare la scena dall’alto & con il lasso! Il che non fa che riconfermare l’origine di questa usanza, diretta evoluzione del concetto di rodeo: tra le sabbie della Terra dei Liberi e dei Coraggiosi (Oh say, can you see…) Il rapporto con i mezzi di trasporto è sempre stato conflittuale. Già gli antichi coloni, appena sopravvissuti alla furia dell’Atlantico dalle onde burrascose, s’imbarcavano in un altro tipo di pericolosa traversata. Verso ovest, a bordo dell’enorme carro Conestoga. Ruote altissime, rinforzate con il ferro, scatola di legno ed un candido tendone soprastante, con la forma parabolica di un arco a tutto sesto. Era come un castello semovente, tale arnese, l’ultimo bastione della civiltà europea. Oltre i fiumi, sopra le montagne. In fila indiana verso il nulla e dopo in cerchio, per proteggersi da quegli stessi indiani, per l’appunto – i pellerossa, precedenti abitatori delle valli; era questa, una vettura adatta solamente ai viaggiatori senza pavido sgomento. Per poi giungere nell’epico Far West: terra di cavalli mustang imbizzarriti e di giovani torelli scatenati, qualche volta cavalcati, così, tanto per far scena. La potenziale pericolosità delle creature non del tutto addomesticate, in un certo senso, risuona a più livelli nelle molteplici sfaccettature della mente umana. Nell’orgoglio di chi possiede un cane muscoloso, tutto denti e borchie sul collare. Nell’immagine del Pokémon guerrafondaio – rattone giallo-elettrico, tartarugone coi tentacoli, lucertola di fuoco. E nei presupposti che hanno portato questa folla del profondo Texas, in un giorno memorabile, a far scontrare tra di loro un paio di magnifici esemplari di lowriders. Quelle automobili estremamente ribassate, con la carrozzeria tagliata e qualche volta, persino, sospensioni idrauliche che si estendono a comando. Quasi dei bonsai del campo motoristico, se non pesassero due tonnellate.
Un’attività davvero affascinante, questa specifica applicazione, prima di tutto per le metodologie. Perché pare, chi l’avrebbe mai detto, che scatenando al massimo la furia del profondo passaruota, quella quadruplice molla con stantuffo di cui sopra, l’auto possa addirittura SOLLEVARSI dalla sabbia dell’arena. E che a quel punto basti una leggera spintarella, per costringerla a “combattere” la sua cugina.

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Il drone rotolante si avventura fuori strada

Outrunner Offroad

Corre freneticamente a 30 Km/h, verso tutto quello che non ha. Il profilo aerodinamico delle penne di un rapace, la pinna caudale dell’agile delfino, il collo articolato di una serpe e la visione d’insieme del camaleonte. Quanto spesso, nel progettare meccanismi semoventi, l’uomo dichiara di essersi ispirato alla natura? Alcuni dei robot migliori di questi ultimi anni, sicuramente i maggiormente scenografici, provengono dalla Boston Dynamics, l’azienda statunitense acquistata in toto dal colosso multinazionale Google. Diversificare il portafoglio, questa la ragione dichiarata. Conquistare il mondo? E chi non ricorda l’incedere gracchiante del bizzarro Big Dog o il galoppo assassino del compatto, terribile Wild Cat… Creature quadrupedi, vagamente riconoscibili, tanto accattivanti proprio perché simili, almeno nelle movenze, agli animali domestici che arricchiscono le nostre vite, cani, topi, pesci e gatti. Poco importava che i loro emuli non avessero nemmeno l’ombra di un ferroso grugno, soltanto solidi rollbar e imbottiture color verde militare. Ci aiutava, certamente, l’empatia.
Visioni discordanti. Il dispositivo radiocomandato della Robotics Unlimited, l’OutRunner, è l’esempio di quanto il progresso tecnologico possa allontanarsi dalla strada più battuta. Raggiunge velocità senza precedenti, nella sua classe, che lo porteranno molto presto, assai probabilmente, tra le pagine del guinness dei primati. Proviene dalla calda Pensacola, nella piacevole penisola di Florida. Per andare a percuotere, con 4, 6, 8 oppure 12 rigidi paletti, brecciolino, erba e morbido sterrato. Dove passa questo arnese, non soltanto si fermano gli skateboard e le automobiline, ma pure i monopattini e le biciclette. Questo perché non ha ruote. Eppure si basa su un sistema semplice, privo di costosi servomeccanismi e zampe articolate: in un certo senso, si potrebbe dire che costituisca l’unica ruota di se stesso. Eppure neanche quello, a conti fatti, è del tutto vero. La seconda invenzione dei cavernicoli dopo il fuoco, per lo meno nell’iconografia umoristica dei nostri tempi, dovrebbe avere un asse rotante e una circonferenza, come la macina di un piccolo mulino. Si tratta di un sistema per spostarsi, a conti fatti, talmente semplice che viene da chiedersi perché l’evoluzione non lo abbia prodotto molto prima di noi. E nei romanzi di fantascienza non è particolarmente raro incontrare alieni dalla forma pseudo-motoristica, che percorrono le distese pianeggianti di un qualche remoto pianeta, senza mai fare sosta al benzinaio. La termodinamica, tuttavia, è una signora cruda e senza compassione. Per superare un particolare ostacolo, qualunque tipo di declivio, occorre un investimento di forza pari e superiore. Molto meglio è scavalcare, balzellare, arrampicarsi, che affrontare le salite come uno stolido mezzo di trasporto degli umani, perennemente aggrappato alle scabrosità del suolo. E infatti nessuno aveva mai presunto di affermare che tale cosa, l’automobile, fosse stata derivata dalle zampe dei predecessori. Fu cosa totalmente nuova, parte di un sistema che traeva il suo inizio dall’urbanistica e l’asfalto. Per finire… Oggi?

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La beccaccia balla senza cubo

American Woodcock

Non vola tanto spesso, questo uccello, ma quando finalmente si decide… L’american woodcock, o scolopax minor, è un abitante dei boschi dal peso di 230 g al massimo, con il becco a punta e gli occhi tondi e neri, stranamente arretrati sulla testa. Cresce presto. Mangia vermi. Si mimetizza. E quando arriva la tardiva primavera, negli stati nevosi in cui è solito abitare, la saluta per il tramite di uno speciale rituale. La danza e il canto di un amore senza fine, espresso in quel linguaggio universale che si può tradurre in gesti, suoni e sentimenti. Memorabile è il suo modus, degno di entertainer consumati, con le penne ben rodate da milioni d’anni di evoluzione. Verso sera e verso sud, dondolandosi tra i bassi cespugli dove ha costruito la sua casa, l’uccello raggiunge i margini della vegetazione. Emerge dagli alberi natii, da quel tiepido rigoglio, stando bene attento che non sia presente un predatore. Quindi, trovata una radura, un pascolo, uno spiazzo qualunque, subito si mette a gorgheggiare. Con il caratteristico piglio onomatopeico della lingua inglese, esiste un verbo apposito che definisce pienamente il verso di questa beccaccia: (to) peent. Peent, peent, peent (ripetere ad oltranza) Poetando in tale modo il suo entusiasmo, il maschio inizia a passeggiare in circolo, guardando bene intorno, nella speranza di scorgere la sua compagna. Lo fa per una, due, tre serate. Finché, d’un tratto eccola lì. La gallina (hen) splendida della foresta, decisamente più imponente del suo principe marrone. Lui incrocia il suo sguardo per un attimo, stringe il becco e dispiega le potenti, tozze ali. Tempo di far festa.
Lo scolopax può tenersi in aria ad una velocità di soli 8 Km/h, un record all’incontrario, tra i suoi simili pennuti. Fa tutto parte dello show. Il culmine operativo dello spettacolo aereo, ad ogni modo, ricorda un po’ l’attacco dello Stuka, il bombardiere tedesco che fischiava in picchiata per gettare nel panico il nemico. Come quest’ultimo, l’uccello vola in modo erratico e scomposto, benché non abbia il fine di dissuadere la contraerea. Si alza a 100 metri di altitudine, continuando il suo *peentare* finché a tale suono non si aggiunge un nuovo accordo; è un sibilo, il fischio del finale. Lo produce sempre lui, con le penne esterne delle ali.
In una folle discesa, valido contrappunto del suo vagheggiare precedente, si arresta in una parabola elegante, tra l’erba lievemente mossa dal vento. Nel silenzio ritornato della sera, lui ritrova la sua lei.

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Lacrime di pioggia nello stadio abbandonato

Pontiac Silverdome

Le navi naufragano per un attimo di distrazione. Capitani poco coraggiosi, troppo dediti a trastulli socialiti, si schiantano su alte montagne bianche, iceberg persi nell’oceano sciagurato. Oppure incontrano bassi fondali, scogli affioranti e mai segnati sulle mappe. Intere città così spariscono nel nulla, in un attimo, sfrangiate fra le onde turbinanti. Meglio sarebbe stato…Costruire sopra fondamenta solide ed immote. Ma c’è un altro tipo di catastrofe, molto più lenta, altrettanto irrecuperabile. Quella della marcescenza. Non basta la memoria per tenere a galla luoghi di una tale caratura, serve l’utilizzo assiduo. E dopo il collasso, viene la rovina. Di un augusto mausoleo, ma che dico, cupola di argentovivo – piena d’acqua impietosa. Roba da archeologi, come gli avventurieri di Detroiturbex, il portale che fotografa abusivamente le vestigia della grande Crisi.
Pontiac non è solo un marchio di automobili, né il nome di un potente capo indiano, scomunicato dalle pagine statunitensi della storia. C’era e c’è una ridente cittadina, poco fuori Detroit, che si fregia di questo stesso appellativo fin dal remotissimo 1818, l’epoca di tardive colonie d’entroterra. Quindici soci di una grande compagnia, sotto la guida di Solomon Sibley, ne decretarono il successo urbano, creando magazzini, stabilimenti e posti di lavoro. Pionieri! Nacque giustappunto attorno ad una ricca industria, questa fervida comunità: fin da principio, in un tale luogo ricco di risorse naturali, si assemblavano strumenti di lavoro. Carri e carriole, catenacci e carrucole, titanici barili. Per un secolo durò una tale fama dei solerti costruttori, finché negli anni ’20 del XX, con gran sorpresa dell’intero mondo, non si scoprì che si poteva fare a meno del cavallo. Giunsero i motori, in generale, ed in particolare: la General Motors. Che qui fondò la prima fabbrica, nel bel mezzo di una penisola meridionale, tra le due del Michigan, stato di tempeste, nevi e piogge prepotenti.
Fu come un fuoco, un’esplosione. La neonata industria dei trasporti a motore, che qui ebbe da subito il suo polo nazionale, portò a un aumento vertiginoso di popolazione. Il volume degli affari era talmente grande, così preponderante, che si cercavano soluzioni nuove per l’investimento. Vie asfaltate oppure erbose, strade proprio come questa. Nel 1934, una cordata di facoltosi industriali decise che la regione si meritava una squadra di football, per il maggior prestigio dei presenti. Con i soldi della città intera dentro al portafoglio, molto presto la trovarono. Provenivano dall’Ohio, i Portsmouth Spartans, ed avevano una storia d’insuccessi e bancarotte. Con piglio scaramantico, i loro benefattori li ribattezzarono “I Leoni” o per meglio dire Detroit Lions, dando i giusti meriti alla città più forte, vasta e popolosa dei dintorni. Avevano dunque le belve, costoro, ma mancava ancora il giusto Colosseo. Si allenavano in principio, i malcapitati giocatori, nella spaziosa palestra della locale università. Poi ebbero qualche stadiuccio, in centro città, nulla di particolare. Finché non giunse un uomo, con un sogno ed un’idea: il suo nome era C. Don Davidson, atleta, soldato, architetto. Armato di una laurea conseguita presso la North Carolina State University, finanziata grazie ai meriti sportivi.

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