Ingegno e Perseveranza, i due pilastri del primo volo a motore marziano

Alle 11:00 AM orario della costa del Pacifico della giornata di ieri, una fila di computer a Cape Canaveral ha riportato sugli schermi una coppia di problematiche, la prima delle quali ragionevolmente attesa, la seconda, un po’ meno. Era successo, infatti, che non solo il sistema di antenne facente parte del programma per la ricerca elettromagnetica nello spazio profondo Deep Space Network, situate a Barstow, in California, aveva generato la ben nota e non priva di precedenti interferenza con le comunicazioni da terra. Ma cosa ben più grave, allo stesso tempo, i sensori a bordo del razzo avevano riportato un gradiente di temperatura superiore alle aspettative nel circuito a gas freon di raffreddamento dei motori, nel preciso momento del passaggio verso il lato in ombra del nostro pianeta, causando l’attivazione automatica della modalità sicura. Episodio che ha subito fatto scattare l’allarme nel centro di controllo missione, dato l’investimento approssimativo di 2,1 miliardi di dollari da parte del governo degli Stati Uniti allo scopo di lanciare, ancora una volta, il grosso razzo Atlas V 541 verso il Pianeta Rosso che tanto ci assomiglia, per massa, composizione e possibile storia della geologia e del clima; con il carico prezioso, niente meno, di Perseverance, quinto rover americano e secondo dalle dimensioni simili a quelle di grosso autoveicolo dopo Curiosity, capace di trasportare assieme al solito armamentario di strumenti scientifici, anche un piccolo ed innovativo amico di nome Ingenuity, capace di compiere l’eccezionale impresa…
In origine, se guardiamo indietro, erano stati sempre due: i moduli dell’Apollo, la coppia di astronauti scesi sulla Luna, i compartimenti della Stazione Spaziale Internazionale. Nonché i partecipanti ai pregressi videogiochi sparatutto, l’uno incaricato di guidare un elicottero, l’altro, il carro armato. Permane, a seguito di tutto questo, un importante senso di realizzazione per l’intero mondo degli appassionati di spazio e tecnologia al pensiero che il 18 febbraio 2021, data dell’arrivo previsto da parte della missione presso il suo distante obiettivo, qualcosa di costruito dagli operosi umani verrà fatto ruotare mediante bulloni esplosivi sotto il rover, sganciato sulle lunghe zampe ammortizzate e chiamato a sollevarsi artificialmente dal terreno dopo l’allontanamento del veicolo a distanza di sicurezza, conducendo il primo volo della lunga serie (si spera) che lo porterà gradualmente fino all’altezza stimata di 10-20 metri, ottenendo fotografie accurate dell’intera zona del cratere Jezero, l’area in cui la sua “nave madre” veicolare è stata inviata al fine di trovare possibili segni residui, o persino fossili, di antiche forme di vita. Concedendo quindi per la prima volta l’opportunità di progettare dall’alto il tragitto maggiormente valido a massimizzare il ritorno scientifico della missione, incaricata tra le altre cose di raccogliere, preparando ad un recupero futuro, letterali campioni rocciosi del suolo marziano. Detto ciò resta palese come il concetto di Ingenuity, nella maniera in cui è stato progettato dalla direttrice del progetto ed ingegnere MiMi Aung presso il Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, non abbia tanto una finalità diretta di ricerca scientifica, quanto l’obiettivo finalizzato a dimostrare che non soltanto il volo atmosferico marziano è possibile bensì perfettamente a portata del livello tecnologico da noi raggiunto. Mediante l’implementazione, sufficientemente attenta, di una serie di avveniristici accorgimenti…

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Dramma in otto punti: l’astuto morso dell’aracnide floreale

La vispa Tessitrice avea poveretta / a riposo sorpresa / gentil farfalletta / E tutta felice, stingendola viva / (ancora per poco) gridava: “L’ho presa! L’ho presa!” Ma il grido dei ragni non ha una voce. Piuttosto ricorda, nella lingua dei gesti, l’attuazione di un piano maligno, finalizzato ad assorbire la forza vitale degli altri esseri per trarne una vita più lunga, a proprio esclusivo consumo e beneficio. Creature come lepidotteri, imenotteri, e tutti gli altri -otteri (esclusi i chirotteri) che seguendo il preciso programma ecologico del proprio cursus evolutivo, ricercano il pasto pregiato posando le proprie zampette su quel ristorante creato appositamente dalla natura, il fiore. Parlando, s’intende, di un ben preciso genere di quella classe che sono gli aracnidi, chiamato per somiglianza di profilo e movenze il ragno-granchio, benché possegga attitudini ben più diaboliche ed ottimi presupposti di nuocere alle sue prede. Ma prima d’inoltrarci nella descrizione di cosa sia esattamente un tomiside, risulterebbe difficile soprassedere sul magnifico aspetto di questa specie in particolare, che la scienza definisce Platythomisus Octomaculatus ma il senso comune potrebbe facilmente identificare come un giocattolo di plastica per bambini, tanto variopinto, lucido e sgargiante risulta essere nel suo complessivo aspetto. Un ragno, da cui partire per questa trattazione, il cui areale risulta centrato nella parte meridionale d’Asia, partendo dall’India fino alla Cina e giù nel Sud Est asiatico, con la tipica propensione a disperdersi che caratterizza la sua velenosa genìa. Frutto probabile del tentativo di apparire non-commestibile ai suoi potenziali nemici, benché piuttosto che ricordare un animale velenoso, allo sguardo umano, finisca per sembrare una sorta di coccinella in attesa tra i petali, che attende la sua compagna. Impressione soltanto in parte o in specifici periodi dell’anno definibile come corretta, data la strategia tipica della sua intera famiglia che ricorda l’approccio di caccia della signora mantide, mietitrice di cose volanti grazie agli artigli raptatori. Armi in assenza delle quali, il piccolo ragno (difficilmente un tomiside raggiunge i due centimetri zampe incluse) non può che fare affidamento nell’immobilità nascondendosi sotto il fiore, per attendere, attendere ed infine balzare in avanti, come la mano stritolatrice di un gigante. Questo perché tali esseri, a quanto ha scoperto la scienza ormai da parecchio tempo, non hanno l’abitudine di tessere alcun tipo di ragnatela, usando la propria seta unicamente per calarsi o attraversare dei vasti baratri, come funamboli alla ricerca di un pubblico degno di praticarne l’ammirazione. Mentre poco conosciuta risulta essere, di contro, tale sgargiante varietà nella maniera esemplificata dalla recente scoperta (giugno dell’anno scorso) di una nuova specie chiamata Platythomisus xiandao ad opera dello scienziato Lin Yejie, dalla forma più allungata ed in cui il maschio, generalmente molto più piccolo della sua signora, presenta un dorso decorato da macchie rosse, rosa ed arancioni. Sarà perciò opportuno, nel nostro tentativo di definire esattamente ciò di cui stiamo parlando, usare come termine di riferimento l’alternativa nord-americana, come spesso capita pienamente descritta nei variegati recessi del web chiarificatore…

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La tartaruga sputafuoco incaricata di custodire il cuore segreto della Provenza

E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…

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Cercando il grande muro di Alessandro al confine della Russia meridionale

Presso la Kunstkamera di San Pietroburgo, primo museo nella storia del paese più vasto al mondo, è custodito un piatto d’argento proveniente dalla Repubblica del Daghestan, con sopra incise le celebri parole: “Derbent è stata fondata da Alessandro Magno, quindi non c’è niente di più giusto che a governarla sia un altro monarca, non meno grande.” Una dedica concessa dagli amministratori cittadini niente meno che a Pietro I, lo zar che nel 1722, durante la campagna della guerra russo-persiana, soggiornò qui una notte, all’interno della vasta casa che oggi è stata trasformata in un museo. Ma a far da sfondo significativo a quel momento possiamo facilmente individuare, con un occhio di riguardo nei confronti della storia architettonica di un tale luogo, lo svettante complesso fortificato sopra la collina rocciosa che domina il centro abitato di oltre 100.000 abitanti: Naryn-Kala o per i persiani Dagh Bary, due termini significanti, grosso modo, “Fortezza Solare”. Dalle cui mura alte 20 metri e spesse 3 si diramano due barriere, l’una costruito per andare a perdersi nel Mar Caspio, perfettamente visibile dall’alto dei bastioni e l’altra lungo ben 40 Km, fino alle propaggini più inaccessibili dei monti del Caucaso, fortezza naturale in grado di arrestare qualsiasi armata. Poiché si è soliti affermare che i migliori governanti costruiscano dei ponti e non muri, ma è proprio per questo che occorre possedere una personalità estremamente carismatica, e un tenore quasi leggendario, per restare onorato attraverso i secoli dopo aver lasciato in eredità un’invalicabile barriera.
Siamo abituati a considerare il Medio Oriente come il campo di battaglia tra diverse religioni, ma la realtà è che c’è stato un tempo in cui erano gli stili di vita contrapposti delle origini dell’uomo, a costituire l’oggetto della contesa, spesso armata, per il controllo dei territori. L’epoca probabilmente databile attorno al III-IV secolo a.C e di cui parla anche il Corano, riferendosi alla figura prototipica del Bicorne, il misterioso e fortissimo condottiero che in a quei tempi aveva sigillato il territorio dei popoli nomadi Gog e Magog, dietro quella che nel testo viene definita un’invalicabile muraglia di rame. Ragion per cui secondo alcune interpretazioni dei sacri testi, costui altro non potrebbe essere che il gran conquistatore macedone che in Asia aveva il nome Iskandar, il quale secondo fonti coéve ed immediatamente successive aveva costruito, tra le molte altre cose, delle invalicabili Porte presso la regione del Caucaso, bloccando l’accesso dei barbari presso le terre civilizzate a meridione di un’oceano d’erba destinato a rimanere, ancora per molti anni, largamente inesplorato. E non a caso il nome della città in questione, Derbent, significa proprio la Porta (“sbarrata”) un ruolo che essa avrebbe rivestito attraverso i secoli, attraverso una serie di conflitti lunga quasi quanto la storia stessa della sua nazione. Lo stesso luogo in cui ancora lo storico dell’Albania Armena Mkhitar Gosh, vissuto nel XII secolo scriveva di come i re persiani avessero chiamato e reclutato a forza tutti gli architetti e costruttori del regno, affinché le fortificazioni fossero ispessite, migliorate ed allungate per impedire qualsivoglia facile passaggio ai percepiti nemici della nazione. Benché la fortezza di Naryn-Kala propriamente detto, secondo la datazione offerta dagli studiosi locali, risulti assai probabilmente collocato tra i due estremi cronologici fin qui citati, essendo stato costruito durante il regno dell’imperatore sasanide Cosroe I, tra il 531 e il 579 d.C…

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