Avanti, moai! Un altro tentativo di spiegare il problema logistico dell’Isola di Pasqua

Non è difficile guardando un iceberg, chiamarlo “montagna” dei mari, senza prendere in considerazione la grande parte sommersa, in grado di farlo assomigliare più che altro a un asteroide. Come una serie di statue dalle forme primitive, sul pendio di un’isola distante, possono sembrarci la riproduzione ragionevolmente fedele di una serie di teste. Finché a qualcuno non viene in mente di scavare attorno, scoprendo che possiedono anche un corpo! Quanti dei nostri tesori tecnologici, i traguardi sociali, le ardue mete ingegneristiche raggiunte, potrebbero sopravvivere nelal loro interezza all’inevitabile catastrofe che si profila nel futuro incombente, oppure quanto mai remoto dell’umanità? E con ciò non voglio tanto riferirmi allo scheletro di tutto questo, residuo insensibile di quello che abbiamo tanto duramente costruito; bensì l’effettiva cognoscentia che deriva dal suo impiego quotidiano, e il conseguente studio continuativo degli eventuali margini ulteriori di miglioramento. Il corso dell’evoluzione, in altri termini, che oltre il succedersi dei secoli ha portato a tali e tanti passi verso l’obiettivo mai offuscato dalle nubi dell’incertezza. Così un’isola, nel mezzo del Pacifico meridionale, può essere considerata la metafora del primo, e forse ultimo dei grandi ostacoli verso l’ultima realizzazione di quel destino: Rapa Nui, la grande roccia. Che noi tutti conosciamo con il nome relativamente semplice che allude al momento della sua scoperta per così dire “ufficiale”, esattamente il giorno di Pasqua del 1722. Quando il navigatore ed esploratore olandese Jakob Roggeven, mettendo piede sulla bianca sabbia di quell’ultimo recesso, ebbe per primo l’occasione d’incrociar lo sguardo coi più insoliti nativi di una tale landa: le oltre 900 imponenti statue di pietra, alte dai 5 ai 10 metri, che una civiltà da tempo disgregata fu solita intagliare presso le cave vulcaniche dell’entroterra, per poi portarle faticosamente fino all’ultima destinazione con la fronte orgogliosamente rivolta verso il vasto mare. Mo’ai: ovvero spiriti degli antenati, numi tutelari, manifestazioni fisiche del volere del misterioso dio Makemake, collegamento profetico col regno dei defunti… Molte sono le teorie sull’effettiva funzione religiosa e sociale di questi monumenti allo stesso modo in cui si affollano, tra le pagine dei libri di storia, i faticosi tentativi di spiegare in quale modo fu possibile trasportare il loro peso in grado di raggiungere le 80 tonnellate cadauna. Perché vedere un qualcosa, anche attraverso l’efficace lente del senno di poi, non significa acquisire istantaneamente i suoi più occulti segreti, come per l’appunto la maniera in cui, attorno a un’epoca oggi ritenuta essere tra il 1250 e il 1500, popoli polinesiani con tecnologie dell’Era della Pietra, completamente isolati dal resto del mondo, riuscirono a fare quanto fu impossibile per tali e tanti regni nella storia pregressa dei poderosi continenti settentrionali.
Così giunse nel corso dell’ultimo decennio di tentativi, in quel contesto drammaticamente incerto, l’ennesimo azzardo di spiegazione ad opera degli archeologi Carl Philipp Lipo e Terry L Hunt, consistente nel proporre una possibile soluzione operativa, efficiente adesso quanto allora, nel compiere attraverso i secoli una così notevole e duratura impresa. Niente di nuovo sotto il sole, potremmo essere indotti a pensare, se non fosse per il già percorso, ma in questo caso particolarmente accattivante, approccio dimostrativo a margine della questione. Così realizzato con l’effettivo spostamento, per un tratto significativo di prato sull’isola rilevante, di una reale riproduzione in scala del “tipico” moai costruito col cemento, ricavandosi un meritato spazio nella serie di documentari NOVA della Pbs statunitense. Quanto spesso capita di vedere, d’altra parte, un titano privo di braccia e gambe legato per la testa e in corrispondenza del punto in cui si sarebbero trovati i suoi occhi, che venendo fatto dondolare a ritmo da due squadre di persone riceve l’attenzione di un terzo gruppo, incaricato di trattenerlo affinché la tracontanza da cui sembra caratterizzato non finisca per portarlo verso l’auto-annientamento…

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Riscoperto all’improvviso in Africa il più piccolo parente dell’elefante

Soddisfazione professionale, gioia, giubilo, catarsi: questi ed altri sentimenti devono essersi affollati nella mente di Houssein Rayaleh, naturalista ed ecologo della nazione del Djibouti al confine con la Somalia, nel momento in cui aprendo una delle 1.259 trappole incruente attentamente disposte ad intervalli regolari tra i recessi più occultati dell’arido paesaggio paesaggio scorse, oltre ai soliti gerbilli e topi catturati in grande quantità, la caratteristica coda con il ciuffo e la sottile proboscide di quello che i suoi connazionali delle regioni più rurali non avevano mai spesso di attribuire all’immediatamente riconoscibile animale noto come il sengi. Immediatamente riconducibile grazie alle sue caratteristiche esteriori, nello specifico, ad una specie ritenuta estinta dagli ormai remoti anni ’70, quando la comunità scientifica venne in possesso degli ultimi rappresentanti vivi di questa particolare, minuscola varietà di toporagno elefante non più lunga di 15 cm. Il Galegeeska revoilii di suo conto, con un nome che significa in lingua Maay “donnola del Corno (d’Africa)” è un valido rappresentante ecologico del sistema naturale di una simile regione, dove talvolta muoversi rapidamente, e poter fare affidamento su un metabolismo rapido e funzionale, rappresentano vantaggi maggiormente significativi che possenti muscoli e una stazza in grado d’incutere timore; tutto questo nonostante la sua intera genìa risulti essere nei fatti piuttosto rara nell’intero territorio che occupa in Africa Orientale, un assunto ancor più vero nel caso specifico del sengi della Somalia, ormai ritenuto estinto da generazioni. Altri sette membri della specie, quindi, avrebbero seguito il destino del primo appartenente all’agognata famigliola, confermando al di là di ogni possibile dubbio la lieta novella: che non solo il G. revoilii era nei fatti ancora presente allo stato brado, ma che almeno statisticamente parlando, la sua popolazione relativamente rada risultava complessivamente comparabile a quella dei suoi simili nelle nazioni limitrofe e confinanti. Il toporagno elefante d’altra parte, in realtà per nulla imparentato coi comuni portatori della prima parte del suo nome, è una creatura piuttosto solitaria e territoriale che aborrisce la vicinanza degli intrusi ed i membri della stessa specie fatta eccezione per i familiari, preferendo battere un intera micro-regione di sua sola pertinenza, andando in cerca col suo lungo naso d’insetti, ragni e vermi mentre corre avanti e indietro nel sottobosco in appositi passaggi da lui ripuliti dei detriti con impressionante velocità di fino a 28 Km/h, prima di procedere abilmente alla cattura delle suddette prede. Abitudini per nulla riconducibili, nei fatti, ai suoi più prossimi parenti su questa Terra, che risultano sorprendentemente essere i più grandi pachidermi dalla lunga proboscide, assieme all’oritteropo, il tenrec, l’hyrax ed il lamantino. Una selezione certamente eterogenea, che in questo modo si arricchisce di un membro ulteriore la cui posizione tassonomica, in un modo o nell’altro, potrà nuovamente contribuire a dare chiarimenti su uno dei percorsi evolutivi più singolari di questo pianeta. Non che simili preziose considerazioni, per quanto ci è dato comprendere, costituiscano una parte significativa dei pensieri osservabili tra le appuntite orecchie, e dietro i grandi occhi neri, di un così compatto e in apparenza inoffensivo, eppure nondimeno agguerrito predatore…

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Il volo al rallentatore degli insetti come non l’avete mai visto prima d’ora

L’espressione pratica di un cardine sommerso tra i molti aspetti del senso comune: “Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.” Affermò Leonardo da Vinci, come corollario dei disegni nei suoi codici dedicati alla tecnologia futura dei trasporti. Svariati secoli sarebbero dovuti passare, tuttavia, affinché il sogno avesse modo di essere portato a compimento, con diversi fallimenti significativi e molto spesso, causa di terrena sofferenza. Questo perché l’ingegnere tipo, con il naso rivolto verso l’alto, tentava d’imprimere nella sua mente la potenza, leggerezza e splendida leggiadrìa degli uccelli, tentanto di riprodurne le caratteristiche a una scala superiore. Ma il delicato rapporto tra peso, potenza e aerodinamica non può essere adattato in scala, così come 10 lupi non riescono a cacciare un bufalo che raggiunge circa un quarto della loro massa complessiva. Altrimenti, come potremmo spiegare gli effettivi risultati raggiunti dagli insetti, i più piccoli tra gli esseri capaci di sfidare (e vincere!) la forza gravitazionale della Terra, attraverso movimenti scattosi e sconclusionati, spesso imprecisi e qualche volta, addirittura, surreali…
Una visione forse non conforme allo stereotipo della questione, che riesce tuttavia ad essere particolarmente chiara una volta che ci si approccia all’ultima creazione di Adrian Smith, ricercatore presso l’Università della North Carolina che ha così scelto di puntare l’obiettivo di una telecamera con alta velocità di aggiornamento contro “I primi 10 esseri” che gli è capitato di trovare. Perché è chiaro, dall’osservazione del presente video, che se dalle nostre parti mettere circondare col retino una luce notturna a ultravioletti ci regala mosche, falene o zanzare, all’altro capo dell’Atlantico può regalarti l’occasione di conoscere qualcosa d’inusitato. A cominciare dal fuori programma, usato per rompere il ghiaccio e dare inizio alla sequenza, in cui un’ostinata e non meglio definita pteroforida (appartenente al gruppo informale delle “falene piuma”) si solleva in volo solamente con lo sprona della testa di un pennello, mostrando qualche problema a controllare l’assetto delle sue quattro ali ricoperte di una fitta peluria. La situazione inizia quindi a farsi più controllata con l’ingresso nella scena di una lucciola Photinus pyralis, tipica del Nuovo Mondo, che con piglio quasi marziali alza le sue elitre, elementi del carapace che proteggono le ali, scoprendo quest’ultime poco prima d’iniziare delicatamente a fluttuare. Ed è qui che iniziano le sorprese, di una carrellata estremamente interessante di creature scelte proprio perché mai documentate prima per immagini finalizzate a questo particolare ambito d’approfondimento: il coleottero infatti, dopo aver alzato le zampe anteriori con un gesto che ricorda quello di Superman, inizia a battere in maniera ritmica non solo gli arti aerodinamici finalizzati al volo, ma anche le loro stesse coperture, contribuendo in qualche modo alla perturbazione che produce la sua portanza, in maniera matematicamente difficile da prevedere. Le sorprese continuano, quindi, con la falena dipinta dei licheni (Hypoprepia fucosa) un’erebide descritta per la prima volta nel 1831, benché nessuno si fosse mai preoccupato di notare l’intrigante maniera in cui le ali si flettono durante il volo, piegandosi e invertendo totalmente l’angolo di attacco, mentre l’insetto calibra attentamente l’inclinazione e l’obiettivo finale del suo tragitto. “Sembra quasi di stare guardando un effetto speciale fatto al computer o un modellino animato di cera” afferma a questo punto ammirato il Dr. Smith, quasi rendendosi conto all’improvviso delle vette artistiche raggiunte quasi accidentalmente, mentre tentava, assai candidamente, di proporre al pubblico un qualcosa che nessuno aveva mai tentato prima di allora…

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Solitario è il viaggio del canoista che sa entrare in comunione con la natura

L’orlo frastagliato di un enorme tavoliere, circondato dalle fredde acque dei mari settentrionali, anche questa è la Norvegia. L’aria rarefatta, la superficie dell’Oceano simile a uno specchio, il movimento ripetuto e ritmico delle sue mani, tra le alte pareti di quel fiordo poeticamente silenzioso: Tomasz Furmanek, informatico e videoamatore, ma soprattutto amante di quel tipo d’esperienza, simile al più puro misticismo, che può regalare solamente un’escursione in luoghi sospesi tra la terra e il cielo. E non è facile, nei fatti, riuscire a superare largamente gli 80.000 seguaci su Instagram e vari altri social network, quasi casualmente dopo aver creato pagine pensate per mostrare le proprie foto a parenti ed amici. In scenografie tali, e con una qualità tanto elevata, da far impallidire sostanzialmente molti produttori di contenuti dall’impronta professionale o pubblicitaria. Per lui che essendo partito dalla Polonia, si è trasferito in questa terra ormai da molti anni per lavoro, raggiungendo l’implicita decisione di mettersi a mostrare al mondo l’eccezionale livello dei suoi panorami. Creando in buona sostanza la proposta videografica di un nuovo tipo di selfie per certi versi affine a quello che mostra le gambe sulla spiaggia, in cui però quest’ultime appaiono coperte dallo scafo affusolato del kayak, perfetto strumento per seguire l’avventura della mente lungo l’antico percorso dei ghiacciai, così coperto dallo specchio magico delle irripetibili circostanze. O almeno uniche, soltanto in apparenza, visto come riesca a trattarsi di un’esperienza mostrata da ogni disponibile angolazione, così efficientemente riassunta nel video in hyperlapse postato originariamente anche su YouTube nell’inverno del 2018 e che in questi ultimi tempi, sta iniziando a circolare nuovamente nella blogosfera e sui gruppi di discussione di Internet, superando finalmente di gran lunga il numero di spettatori medi da lui posseduti normalmente sulle pagine di questa piattaforma. Forse per il desiderio deluso di tornare a viaggiare, che tutti ci accomuna in questi tempi difficili, oppure per la semplice tendenza del Web ad appiattire la progressione di mesi ed anni, permettendo talvolta alle proposte precedenti di tornare attuali, persino più di quelle pubblicate in un preciso attimo e contesto situazionale.
Così tutti, ci accompagna, con sapiente impiego di action-camera montata sopra il casco in quest’avventura condensata che trasporta l’affamata collettività in un tour-de-force della durata di pochi minuti (dopotutto, Furmanek è soprattutto un fotografo e la brevità resta fondamentale per aver successo su Instagram) che costituisce una cronistoria delle sue escursioni in questi ultimi anni, attraverso alcuni dei più affascinanti fiordi nel paese che ne possiede il maggior numero al mondo, mostrati mentre si succedono in maniera quasi accidentale in una serie di pagaiate perfettamente sincronizzate: “A un certo punto, è capitato per caso.” Rispondeva qualche tempo fa ad un commento al video, l’autore: “Ma quando ho visto che effetto faceva, sono tornato indietro ed ho rifatto tutte le transizioni” Riuscendo a creare, con questo ed altri semplici espedienti, uno dei più brevi e memorabili approcci all’assorbimento dello spettatore. La sensazione, in altri termini, di essere effettivamente in grado di sentire quello che lui sentiva, immaginare i suoi stessi momenti transitori di straniamento. Quando la mente sembra scollegarsi dalle presunzioni del corpo, assumendo uno stato che è al tempo stesso massima concentrazione nonché l’assenza totale di preconcetti. Verso un’assunzione di suprema consapevolezza che riesce ad essere, sostanzialmente, puro Zen.

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