L’antichissima città sommersa intenzionalmente dalle acque di un vasto lago in Cina

Imponenti, immortali eppure non eterne appaiono le montagne, che per antichi eventi geologici si ergono dal fondo pianeggiante dei vasti territori, variabilmente abitati dalle pregresse generazioni umane. La cui esistenza continuativa nel tempo è apprezzabile dall’utilizzo, per i suddetti picchi, di un nome particolarmente evocativo: vedi il Picco dei Cinque Leoni nella contea di Chun’an, regione di Zhejiang, capace di ergersi per qualche centinaio di metri sopra un importante zona per il transito e l’interscambio dei beni commerciali, almeno dall’epoca della dinastia degli Han Occidentali (206 – 24 a.C.). Ma taluni rilievi orografici, in determinate circostanze, spariscono ancor prima che che gli effetti millenari dell’erosione ed il riassorbimento paesaggistico possano produrre i propri effetti, mutando piuttosto in qualcosa di ragionevolmente differente. Come una ridotta terra emersa, proprio nel bel mezzo di un lago che ad oggi ne possiede una quantità decisamente superiore alla media. Sto parlando del bacino artificiale del Qiandao Hu (千岛湖 letteralmente “Lago delle Mille Isole”) con un’estensione di 573 Km quadrati conseguenza inevitabile della costruzione, non troppo attentamente pianificata, della diga e stazione idroelettrica del fiume Xin’an. Il 1959 era in effetti un’epoca non troppo equilibrata, tra i bisogni alla base della piramide di Maslow (fisiologia/sicurezza) rispetto a quelli posti nei ripiani superiori (appartenenza e stima) soprattutto in Cina, paese che dopo una rivoluzione comunista, ed la conseguente sconfitta ed esilio del generale Chiang Kai-shek, aveva appena intrapreso il complesso piano di riforme economiche e amministrative che sarebbe stato chiamato dai politici il Grande balzo in avanti. Senza entrare troppo nel merito della pressoché contemporanea carestia e conseguente morte di una quantità calcolata secondo alcuni attorno ai 45 milioni di persone, questione che sfugge alla portata di questo articolo, sarà opportuno a questo punto definire i termini operativi delle molte opere pubbliche di natura idrica, che il governo di Mao volle fortemente far costruire direttamente alla manodopera locale, sotto la guida di molti inesperti quadri del partito. Senza l’assistenza, molto spesso, di veri e propri ingegneri, che potessero ad esempio far notare come, nonostante la necessità di alimentare elettricamente le vicine città di Jinhua, Quzhou e Huangshan, inondare un’intera area densamente abitata da un periodo di oltre 1500 anni non fosse esattamente la strada migliore per riuscire a farlo. Così quello fu uno di quei casi in cui la costante ricerca di un percepito “progresso” riuscì a spuntarla sui bisogni della minoranza, collettività rappresentata nello specifico dalle “appena” 290.000 persone, suddivise in 6 villaggi, che dovettero trasferirsi prima di finire inabissati con le loro 290.000 abitazioni e 50.000 ettari di terreni, spesso riccamente coltivati sotto la guida amministrativa e politica dell’allora commissario regionale Tan Zhenlin. Possibilità che molto prevedibilmente non fu d’altra parte offerta, causa insuperabili ragioni di contesto, alle antiche pietre e monumenti di almeno cinque città storiche: He Cheng, Weipi, Gangkou, Chayuan e la grande e magnifica Shi Cheng (狮城 – Città del Leone) un tempo centro nevralgico e reale capitale de facto dell’intera regione. A partire dalla sua fondazione semi-leggendaria verso la fine del periodo dei Tre Regni, ad opera del generale al servizio dello stato di Wu, He Qi. Che per tanti anni aveva combattuto, senza esclusione di colpi, contro il selvaggio e fiero popolo delle tribù Shanyue, finché nel 205 d.C, conseguita la sua difficile vittoria, non tirò fuori due pezzi degli scacchi per metterli sopra una mappa militare. Proprio tali oggetti sarebbero quindi diventati, a distanza di pochi anni, rispettivamente le sedi governative di Chun’an e Sui’an, all’ombra dello svettante picco dei Cinque Leoni.
Ma il tempo transita e non sempre la memoria degli eventi trascorsi viene mantenuta in alta considerazione. Così ciò che un tempo riceveva l’abbagliante luce del sole, può trovarsi un giorno ricoperto dalle acque oscure di un profondo lago…

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Nascosto in Africa, il rischio di morire per la vipera dal piede di lumaca

La più determinante caratteristica del serpente noto come vipera del Gabon o Bitis Gabonica è la sua particolare calma e presunta mancanza di aggressività, almeno fino al momento in cui dovesse essere eccessivamente provocata. Emblematico, a tal proposito, può essere considerato il caso del sedicenne di Washington D.C. Louis Morton, che nel 1983 rubò una coppia di esemplari dallo Zoo Nazionale, rompendo la teca di vetro e infilando i serpenti dentro un sacco della spazzatura. Procedura tranquillamente accettata da questi ultimi almeno fino alla salita sopra un autobus cittadino, quando le possenti vibrazioni risvegliarono in uno di loro istinti atavici di autodifesa, portandolo a mordere il ragazzo sulla spalla destra. Ciò che sarebbe seguito a un simile evento, a quanto possiamo desumere dagli effetti noti di una simile esperienza, dev’essere risultato terrificante. Le conseguenze di ritrovarsi in circolo il veleno citotossico di queste creature, capace di attaccare al tempo stesso la coagulazione del sangue ed il funzionamento del sistema nervoso, includono gonfiore, shock, convulsioni, ematemesi (rigetto di sangue) ipotensione, dispnea e l’immediata perdita di controllo delle proprie funzioni corporali. Il tutto accompagnato da un dolore descritto in genere come terrificante, cui fa seguito in breve tempo la paralisi e possibile necrosi dell’arto colpito. Per sua fortuna trasportato immediatamente al Children’s Hospital, dove potendo identificare subito l’origine del morso i dottori contattarono diversi esperti su questa specie presso istituzioni africani, fu possibile ritardare gli eventi fino all’arrivo per trasporto aereo del siero da Baltimora, riuscendo per un pelo a salvargli la vita. Il folle gesto dell’incauto ladro soprannominato in seguito Snakeboy, d’altra parte, non risulta totalmente impossibile da comprendere quando si considera lo straordinario aspetto di queste creature, tra i maggiori serpenti africani ed i più pesanti velenosi al mondo, rivaleggiati in tale record solamente dal cobra reale (Ophiophagus hannah) e giudicati tanto affascinanti in patria da aver ricevuto il soprannome, usato anche in lingua inglese, di “Morte vestita a festa”. Dotati di un lunghezza media di 125-155 cm, ma un diametro di fino a 37, l’animale si presenta infatti con una livrea caratteristica di rombi e spazi negativi di colore scuro, che sembra quasi richiamare l’aspetto di uno scheletro vivente, capeggiata da una testa tanto larga e piatta da essere paragonata in certi ambienti a una farfalla. La quale puntualmente, nella maniera analoga a quanto succede con le altre vipere del genus Bitis, inizia a gonfiarsi e cambiare ritmicamente forma nelle situazioni di minaccia, provvedendo ad emettere un fischio assai riconoscibile e minaccioso. Non che capiti spesso, a seguito di tutto questo, di giungere anche all’effettivo attacco, data l’indole come dicevamo notoriamente mansueta di questo letterale devastatore chimico d’organismi complessi. E in effetti non sono rare le routine d’esibizione, presso i rettilari o nei programmi televisivi, in cui persone esperte maneggiano con assoluta tranquillità questi serpenti, passandoseli da una mano all’altra come se fossero dei semplici boa costrittori (attività assolutamente non prudente ed almeno personalmente, direi, tutt’altro che raccomandabile). Ciò detto, nel momento in cui la vipera del Gabon dovesse ritenere che la misura è colma, diventa molto difficile salvarsi dal suo attacco, considerato uno dei più veloci nell’intera genìa dei serpenti: soltanto pochi decimi di secondo, per balzare in avanti snudando le gigantesche zanne simili a pugnali, lunghe fino a 5,5 cm, anch’esse senza pari nell’intero regno animale. Per piantarle dolorosamente nella carne del bersaglio, avendo successivamente cura di continuare a stringere per il più lungo tempo possibile, come nel caso di un pitbull ma con una finalità maggiormente crudele: assicurarsi che la massima quantità possibile dei fino a 1000 mg contenuti nelle proprie sacche d’avvelenamento giungano a destinazione, venendo inoculati nel sistema circolatorio della vittima malcapitata. Sia che si tratti di un topo, che un escursionista che dovesse aver finito per pestare quella quasi “invisibile” coda…

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Il nuovo elicottero Sikorsky che potrebbe rivoluzionare il concetto di rotodina complessa

Giorni di silenzio, osservazione, concentrate considerazioni situazionali. Per realizzare finalmente come, nonostante i presupposti apparentemente all’opposto, la migliore circostanza per favorire il progresso tecnologico in determinati ambiti sia il conflitto tra le contrapposte fazioni umane. Perciò avremmo davvero, oggi, aeroplani come quelli che ogni giorno solcano i cieli, se non fosse stato per lo scoppio della grande guerra pochi anni dopo l’invenzione del volo a motore? E allo stesso modo, chissà cosa sarebbe stato degli elicotteri, apparecchi volanti naturalmente instabili e difficili da pilotare… Se non fosse stato per l’utilità tattica che seppero dimostrare durante i lunghi anni in cui le superpotenze tentarono di dimostrare la propria superiorità in terra straniera. In tale ottica diviene programmatico, in quanto carico di un doppio significato, lo slogan della compagnia pionieristica ed ormai quasi centenaria della Sikorsky Aircraft “Costruire per la prossima guerra, non l’ultima” (che oggettivamente, almeno in lingua inglese, sembrerebbe parlare meno di catastrofismi ipotetici e fuori luogo quanto piuttosto di una cronologia in bilico tra “futuro” e “passato”). Un corollario utile a contestualizzare questa recentissima dimostrazione pratica dell’S-97 Raider, il nuovo concetto di cannoniera in grado di effettuare il volo statico, al fine d’individuare o sopprimere la resistenza nemica. Sostituendo con il suo ipotetico ruolo di servizio attivo, collocato idealmente entro l’anno 2022-23, l’ormai antico Bell OH-58 Kiowa che già partecipò alla guerra in Vietnam, durante quelle lunghe albe e tramonti di tante decadi fa. Così documentato all’interno di questo breve video in cui l’atipico mezzo di trasporto, dalla sagoma vagamente simile a quella di un pesce, piroetta nel cielo sopra l’arsenale di Redstone a Huntsville, Alabama, compiendo strette virate ed ancor più ripide accelerazioni, mentre percorre tragitti arzigogolati con l’agilità di un insetto dotato di quattro ali. O tre rotori, nel caso specifico, di cui due montati in batteria sovrapposta nella posizione del congegno principale, mentre il terzo trova posto sulla coda ma situato in posizione perpendicolare all’asse di marcia del veicolo. Con l’evidente funzione di Spingere, piuttosto che mantenere in Equilibrio.
L’idea alla base dell’intero progetto FVL (Future Vertical Lift) di cui qui stiamo vedendo la più recente ed elaborata conseguenza trae in effetti le sue origini in un’epoca tutt’altro che recente, con il primo tentativo di unire militarmente agilità elicotteristica e la rapidità di un aeroplano intrapreso nel remoto 1965, proprio da quella gigantesca Lockheed Martin che oggi costituisce l’azienda proprietaria di Sikorsy stessa. Mi sto riferendo in effetti all’AH-56 Cheyenne, elicottero d’attacco in cui il sistema di propulsione caudale avrebbe visto la coesistenza in tandem di due rotori disposti ad “L”, con il sistema di spinta in aggiunta alla primaria funzione anticoppia di quello previsto dal progetto convenzionale. Un’idea in apparenza funzionale, almeno finché due anni dopo uno dei prototipi subì un’avaria, causando la morte del pilota ai comandi. Il che avrebbe gradualmente portato all’accantonamento di una simile visione, per un ulteriore mezza decade, quando il problema sarebbe stato approcciato da un’angolazione del tutto diversa. Ecco giungere sul palcoscenico dell’aeronautica, a questo fatidico punto, l’S-69 della Sikorsky. Siamo nel 1973 e l’azienda di Stratford, Connecticut, ha ricevuto un budget considerevole dalle Forze Armate per superare finalmente, nel suo laboratorio di ricerca & sviluppo, uno dei più vecchi problemi del volo elicotteristico: la dissimetria della portanza alias “stallo della pala retrograda”. Principale ostacolo al superamento di determinate velocità di spostamento per questi mezzi di trasporto, a causa della naturale tendenza del loro lato destro (o sinistro) a ricevere una maggiore tendenza a sollevarsi dal suolo causa il naturale sollevarsi delle pale rotanti. Mentre allo stesso tempo, l’altra metà del disco rotante tenderà naturalmente a scendere verso il suolo, portando a pericolose turbolenze o nei casi più estremi, la letale perdita del controllo. Ecco dunque l’idea risolutiva, che qui vediamo perfettamente applicata al prototipo di S-97 nella dimostrazione di Huntsville: posizionare due rotori controrotativi uno sopra l’altro, in posizione perciò coassiale, capaci di mantenere l’elicottero non soltanto sollevato da terra, ma anche in assetto perfettamente stabile senza l’impiego di un rotore di coda. Permettendo non soltanto di eliminare la consueta predisposizione al flappeggio (inclinazione autonoma delle singole pale per contrastare la dissimetria) ma anche di riservare l’intero spazio della coda dell’aeromobile al sopracitato terzo rotore propulsivo, come componente niente meno che essenziale per quello che sarebbe giunto a rivelarsi, già dopo il primo volo di prova, l’elicottero più veloce al mondo.

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Il passero a forma di mestolo giapponese che incorpora nelle sue piume l’accecante candore dell’inverno

La rinomata passione dei giapponesi per le creature insolite o fantasiose costituisce una delle basi maggiormente rilevanti per innumerevoli forme d’intrattenimento, opere d’ingegno e mascotte commerciali moderne. Ciò che non sempre viene discusso, tuttavia, o resta intenzionalmente ai margini della percezione globalizzata, è che molte delle loro invenzioni più accattivanti derivano da un mondo naturale che continua ancora oggi a sorprendere, catturare ed affascinare l’attenzione umana. Soprattutto in quel remoto arcipelago dal clima estremamente vario, dove insetti dalle dimensioni quasi tropicali vivono a pochissimi chilometri da un’ecologia simile a quella della zona paleartica, dove la sopravvivenza negli ambienti selvatici è la diretta risultanza di un accumulo pregresso di grasso e massa corporea, prima dell’ingresso in un solenne stato di letargo continuativo nel tempo. Il che porta in certi casi a strane convergenze di fattori, tali da portare innanzi all’attenzione dei presenti piccole creature sorprendenti, non così dissimili dal regno fantasioso delle fate, degli spiriti e degli yōkai. In un giorno di gelo può accadere dunque, nel giardino di una villa ricoperta dalla neve in Hokkaido, che alcuni fiocchi si mettano improvvisamente a sobbalzare autonomamente. Per poi riunirsi, emettendo un costante triplo pigolìo eez-eez-eez, seguito da un potente schnuur! Il richiamo assai riconoscibile di quello che chiamiamo dalle nostre parti codibùgnolo aka cincia, o in maniera più scientifica, Aegithalos caudatus. Tutti termini facenti riferimento alla notevole lunga coda triangolare, corrispondente ad oltre due terzi di lunghezza dell’intero uccello dai piccoli occhi neri, che caratterizza questo genere tassonomico, distinguendolo in maniera chiara dai più familiari tra i passeriformi del bioma continentale asiatico ed europeo. Così come la candida sottospecie di quell’isola settentrionale, incidentalmente uno dei luoghi più nevosi della Terra a causa dell’effetto lago sviluppato dal Mar della Cina antistante, sono stati storicamente identificati con il binomio di shima enaga (シマエナガ o 島柄長) significante in modo letterale: “uccello del mestolo lungo”, da una contrazione del nome tradizionale di tale attrezzo da cucina, le cui proporzioni e forma circolare furono ritenute nettamente corrispondenti a quelle del volatile dal pigolìo insistente. Una creatura che ricorre altrettanto spesso nella storia dell’arte e nella cultura di massa moderna, come letterale mascotte vivente di questa intera regione geografica, adorabile e riconoscibile almeno quanto il fantasioso topo elettrico Pikachu. In realtà dotato di un simile aspetto tanto distintivo, in cui le sopracciglia e il capo nero tipiche di questa tipologia d’uccelli deviano verso l’assoluto candore al rapido raggiungimento della maturità, con precise finalità mimetiche, per difendersi dai suoi principali predatori, che includono il corvo, il falco ed il gufo. I quali d’altronde, nonostante l’ottima vista, finiscono principalmente per attaccare il nido del codibùgnolo, ragion per cui quest’ultimo è finito per diventare, attraverso il responsabile percorso dell’evoluzione, una letterale opera d’architettura naturale capace d’integrarsi in maniera poco appariscente con la vegetazione della foresta. Con la forma sostanziale di una sfera complessa, simile a una borsa intrecciata, costruita con muschi, licheni e fino a 1500 piume, laboriosamente raccolte negli immediati dintorni del luogo scelto per la riproduzione. Oltre ad una certa quantità di ragnatele, capaci di garantire un’effetto d’adesione simile al velcro con il resto dei materiali utilizzati, garantendo un certo grado di solidità ulteriore all’intero insieme della residenza. Costruito generalmente nel corso di tutto l’inverno, a partire da febbraio-marzo, all’arrivo della primavera ciascun nido riceverà quindi tra le 6 e le 15 uova prive di elementi di riconoscimento, favorendo quella riproduzione prolifica che è alla base dell’ampia diffusione ed il successo ecologico di questi graziosi uccelli, per il resto privi di particolari doti utili a garantirne l’autodifesa in territori naturalmente ostili. Tanto che la predazione risulta responsabile, in percentuale, del 97% delle morti prima del raggiungimento dell’età riproduttiva, definendo i termini di una selezione darwiniana particolarmente intensa. Sebbene resti difficile comprendere quale sia il tratto ereditario, accentuato attraverso i secoli, che si è dimostrato in grado di creare una creatura così graziosa…

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