I temibili tamburi della vespa metallica sudamericana

Nei paesi del Nuovo Mondo in cui si parla portoghese, ma anche, talvolta, nell’Argentina dalla lingua nazionale spagnola, il termine tatu viene usato normalmente per riferirsi alle appartenenti maggiormente fastidiose dell’ordine degli insetti sociali noti come imenotteri: le pungenti, aggressive e fin troppo spesso invadenti vespe. Ma basta aggiungere a questa parola il nome comune marimbondo, che significa armadillo, per scatenare nel cuore della gente un senso atavico ed istintivo di paura, per non giungere persino a un sentimento di vero e proprio terrore. Poiché non c’è un singolo altro insetto, fatta eccezione per la sempre ingiustamente sottovalutata zanzara, che abbia propensione a causare lo stesso numero di vittime o feriti sul territorio della splendida ed azzurra Synoeca cyanea, in forza della rinomata indole aggressiva, la frequenza delle punture e il potere lesionante di quel terribile veleno. Classificata nel sempre rilevante indice del masochista entomologo J. Orvel Schmidt a un abbondante livello 3.0+, caratterizzato con la dicitura descrittiva di “Tortura. Come essere incatenati per lungo tempo nella lava incandescente di un vulcano.” Sostanza, questa, consegnata al destinatario mediante l’impiego di uno speciale pungiglione ricurvo fatto per piantarsi nella pelle e non uscire tanto facilmente, il che inerentemente causa, successivamente all’inoculazione veicolata con perizia senza pari, l’inevitabile morte dell’insetto, anche troppo felice di sacrificarsi per il bene collettivo dei suoi fratelli e sorelle all’interno del favo. Struttura costruita, quest’ultima, secondo modalità ed accorgimenti particolari, tra cui quello di venire posto con le celle direttamente a contatto con la parte superiore di un tronco, con l’unico involucro protettivo di un involucro esterno fatto in polpa di legno dalla superficie vistosamente ruvida e zigrinata un po’ come, per l’appunto, la corazza del piccolo mammifero corazzato capace di chiudersi formando l’approssimazione di una sfera. Proprio per una specifica ricerca aposematica auditiva (“finalizzata ad avvisare i predatori”) che consiste, nel momento in cui ci si trova sotto assedio, nell’iniziare a produrre un suono battente e ripetitivo, mediante la percussione all’unisono di tali increspature con tutta la forza delle proprie piccole ali, moltiplicate per le centinaia, persino migliaia di abitanti. Dal che deriva un altro nome comune di questo piccolo genere composto da sei specie appena con un comportamento ecologico piuttosto uniforme, identificato talvolta come quello delle “vespe guerriere” proprio per la loro personale interpretazione del concetto di un tamburo da battaglia, usato per intimorire il nemico poco prima dell’autodistruttiva carica finale. Alternative queste, tuttavia, che non paiono possedere lo stesso fascino innato della marimbondo, con la sua riconoscibile colorazione nera a macchie blu metallizzate ed il clipeo (scudo facciale) di un rosso intenso, benché nel momento in cui si riesce finalmente a vederlo, risulti essere nella maggior parte dei casi già troppo tardi per salvarsi. Un’esperienza, purtroppo, fin troppo nota agli abitanti delle sopracitate regioni all’altro capo del mondo…

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Il complicato canto dell’insetto più spinoso d’Ecuador

In bilico sopra la foglia, sin dall’epoca Giurassica, giaceva l’invitante pasto verde ed arancione. Ma il pipistrello saggiamente, prima di calare sulla sagoma evidente, fece un giro e quindi un altro, premurandosi di ponderare la questione. Poiché l’esperienza di chirottero, dolorosamente guadagnata, gli insegnava che quella particolare “cosa” aveva un’arma di difesa in grado di renderla indigesta: il fatto di essere, praticamente, un rovo con le zampe arcuate, assai difficile da masticare. Diavolo di una cavalletta spinosa, o in un’altra lingua, spiny devil katydid. Trinomio che in effetti può adattarsi a tutti gli esponenti di un genere fatto recentemente oggetto di studio da parte degli umani, composto dalle 7 varietà diverse che si accompagnano al termine latino Panacanthus: gibbosus, intensus, lacrimans, spinosus, varius, pallicornis ed ovviamente il sopra mostrato cuspidatus, grazie alla puntuale ripresa in HD del canale di Andreas Kay. Che forse non arriverei a definire specie maggiormente rappresentativa, ancorché grazie al suo insolito aspetto risulti essere, di certo, una delle più stupefacenti. Con le spine sulle zampe, sulla testa ed il pronoto (primo segmento del torace) tanto preminenti da arrivare a biforcarsi in vari luoghi e particolarmente in cima alla sua fronte, in quella che parrebbe costituire, in ottima sostanza, la più piccola ma nondimeno affascinante delle corone. Struttura, quest’ultima, ritenuta lungamente funzionale al tipico confronto tra maschi, nella continua lotta per la sopravvivenza dei propri geni. Questo almeno finché nella seconda metà degli anni 2000, attraverso una serie di studi accademici condotti nell’area geografica sudamericana, non si arrivò a riconfermare quanto già lungamente sospettato: che il principale metodo impiegato da queste cavallette per affascinare il gentil sesso è in realtà di tutt’altro tipo, appartenendo in pieno alla sfera sonora e conseguentemente, uditiva. Grazie all’impiego della particolare duplice struttura integrata nella forma delle ali, che prevede alla metà esatta di esse una striscia lievemente increspata chiamata lima contrapposta al plettro, o raschiatore, situato invece nella parte posteriore. Al che strofinando la destra con la sinistra, l’insetto produce un sibilo altamente caratteristico e riconoscibile, che può al tempo stesso essere un fattore indicativo di ottima forma fisica (garantendo in questo modo l’accoppiamento) presentando tuttavia di contro un risultato altamente problematico per la sua sopravvivenza: il fatto di offrire, potenzialmente, l’opportunità al pipistrello d’intercettarlo. A meno che specifiche risorse evolutive collaterali, come sopra menzionato, non risultino bastanti a compensare una simile vulnerabilità…

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L’esistenza ultra-competitiva delle mosche dagli occhi a martello

“…Che fanfarone! Nessuno è in grado di rispondergli per le rime?” Le foglie pennate di Phoenix dactylifera, comunemente chiamata palma da datteri, oscillavano nel forte vento egiziano, mentre i due si fronteggiavano a distanza di sicurezza. “Nessuno? D’accordo: ci penso io. Voi avete degli occhi… molto, uhm, distanti!” Ogni ronzio tacque in attesa della sua risposta. “Questo è tutto?” Rispose lui: “È assai poca cosa. Se ne potevano dire, ce n’erano a josa!” Enunciò, danzando agilmente sulle sottili zampe anteriori, mentre i peli sembrarono sollevarsi al pari delle due antenne. “Potevate essere… Aggressivo: se avessi peduncoli oculari tanto lunghi, me li farei subito tagliare; Amichevole: quando mettete gli occhiali, mi raccomando di tener d’occhio lo stipite delle porte; Arrogante: ragazzo, chi vi ha omaggiato di tal carrello? Vi si potrebbe appoggiare l’ombrello! […] E così via a seguire.” Come una sorta di brivido, in quel momento, sembrò percorrere il tronco della pianta, ove si trovava la folla indistinta delle femmine della loro specie: “Ma di spirito, voi, miserrimo artropode, mai non ne aveste un micron, e di lettere tante quante occorrono a far la parola: IDIOTA!” Un altro duello, per fortuna di natura soltanto verbale, si consumò in questo modo nel caldo pomeriggio dell’estate nordafricana. E fu così che il maschio dominante dovette spiccare il volo, lasciando il posto a chi possedeva la “qualità” che ogni dama desidera, anche quando non ne è cosciente: una distanza tra le pupille considerevolmente superiore alla media. Anche di creature MOLTO più grandi di loro…
Diopsidae o come siamo soliti definirle in maniera comune: (piccole) mosche dagli occhi peduncolati. Un’intera famiglia di ditteri ragionevolmente cosmopoliti, diffusi soprattutto nelle aree tropicali ma anche nella parte mediana dell’Asia, in Nord America e in un particolare caso ungherese, persino nel nostro beneamato Vecchio Continente, profondamente distinti dai loro simili per una serie di caratteristiche, sia comportamentali che relative alla particolare conformazione fisica del loro corpo. A cominciare dal metaforico elefante nel barattolo di miele: l’eccezionale costrutto somatico che poggia sulla loro testa triangolare, costituito da due peduncoli direzionati ad Y, ciascuno ospitante i principali orpelli dell’apparato sensoriale dell’insetto. Sarebbe a dire, il paio di antenne e gli altrettanti occhi di un color rosso acceso, così tanto simili a ciliege infilzate sulla punta di uno spillo. Caratteristica, questa, presente soprattutto nei maschi delle rilevanti specie, in cui l’estensione di tali organi supera spesso l’estensione longitudinale del loro stesso corpo, laddove nelle femmine, piuttosto, succede sempre il contrario. Questo perché al momento dell’emersione adulta dallo stato di ninfa (altresì detto metamorfosi o sfarfallamento) nessuna mosca diopsida presenta alcuna estrusione peduncolare, bensì occhi perfettamente ravvicinati e posizionati ai lati della testa. Almeno questo finché, secondo un preciso copione iscritto nel loro codice genetico, non iniziano a risucchiare aria con la bocca, gonfiando i peduncoli come fossero i lunghi palloncini di un clown. E tutto questo, con un preciso, non-poi-tanto segreto senso d’aspettativa…

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La straordinaria sinergia riproduttiva dell’orchidea con secchio incorporato

Amore, anelito, il profondo desiderio. Amore, il lampo che riecheggia in un distante temporale. Amore, il rombo dell’acqua che scorre, mentre il fiume straripa e pervade la radura. Amore, il suono. Amore, il tuono. Amore, il complicato marchingegno evolutivo di quest’orchidea, che una volta messa in trappola l’alata innamorata, ne fa un ingranaggio del sistema. Dapprima trattenendola, quindi attaccandogli un Qualcosa sulla schiena: “SCEMO chi legge!” Dove SCEMO vuole dire, stranamente, UTILE, per quanto inconsapevole del proprio ruolo. Soprattutto quando quel qualcuno è un tipico rappresentante della tribù degli Euglossini, particolari api solitarie dal color metallizato che abitano il Centro e Sud America, prive della complessa struttura sociale delle loro cugine a noi più familiari. Ma dotate di un’invidiabile propensione all’impiego di risorse biologiche di provenienza floreale, con lo scopo di rincorrere ed affascinare le potenziali partner per l’accoppiamento. Il primo a notarlo, probabilmente, già lo conoscete: niente meno che Charles Darwin, il quale tuttavia, anche in forza dei limitati strumenti di registrazione e ingrandimento disponibili verso la seconda metà del XIX secolo, sembrò temporaneamente mancare il punto, causa aver pensato, per errore, che le “operaie” color gazzilloro fossero di sesso femminile, il che non spiegava la ragione dei loro strani comportamenti. Finché grazie all’uso della logica, il grande studioso della natura non acquisì la chiave di volta e il nesso fondamentale di una simile questione: che i ronzanti spasimanti inclini a posarsi sul labellum (grande petalo frontale modificato) di alcune particolari specie d’orchidea, erano soliti farlo soprattutto per catturarne coi peli sulle proprie zampe la potente essenza profumata. In un olio prodotto dalla pianta con la doppia finalità di offrirgli soddisfazione, nonché trarre, in un saliente modo, l’ultimo e più positivo dei vantaggi a propria disposizione: un utile passaggio per il polline, in cerca della pianta femmina da inseminare. Ora, le orchidee studiate da Darwin rientravano in larga parte nel genus epifita (“che cresce sul tronco di altre piante”) delle Mormodes, benché esista all’interno della stessa tribù delle Cymbidieae, un’altro insieme di particolari specie, la cui metodologia a tal scopo risulta connotata da un sistema così complesso, da sembrare frutto della fervida fantasia di un autore di fantascienza…

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