Le armonie vulcaniche di Holton Rower

Tall painting

La vernice che impreziosisce le tele degli autori, oppure le case e i mobili dei costruttori, è uno strumento difficile da controllare, tendenzialmente disinteressato ai nostri molteplici bisogni. Va mescolata, ben disposta col pennello, sfumata e lasciata ad asciugare mediante l’impiego di metodi particolari; guai, a chi dovesse trattarla senza l’adeguato senso di rispetto. Quel fluido ribelle, colando a destra e a manca, farebbe i suoi spietati comodi, a danno dell’ambiente circostante. Lo capiscono la panchina scolorita, il muro screpolato, l’automobile arrugginita…E i loro sfortunati utilizzatori, soggetti ai crismi dell’imprecisa copritura. Chiunque apra quel barattolo, evocatore del genio semi-liquido pigmentato, deve farlo a suo rischio e pericolo, con limiti di tempo e potenzialità. Non si cancellano gli errori. Dieci minuti, oppure 10 ore, non importa: esaurita l’alchimia, tutto torna fisso minerale, sedimento fragile, impossibile da plasmare. Finisce, insieme all’ipotesi dell’arte. E ogni lasciata è persa, senza fune di recupero, nel perenne regno del rimorso e del colore. Perciò, da tradizione, si studia molto a lungo, onde poter stendere un progetto, oppure un disegno, prima di operare. Soprattutto sarebbe questa, secondo molti, la vocazione del pittore. Ovviare con l’ipotesi, correggere prima del tempo, applicar la tempera, l’olio, il pennarello soltanto con l’opera già fatta (nella sua mente). Per creare, nel mondo fisico, un regno della perfezione.
Questa configurazione visuale sarebbe dunque il grande merito dell’Accademia, intesa come scuola classica di matrice antica, pura, dedita nella ricerca del sublime. Nonché, talvolta, uno fra i limiti più stringenti, tra tutti quelli posti alla creatività dell’uomo. Perché l’arte che realmente rappresenti la natura, per sua stessa definizione, dovrebbe prescindere da limitazioni di genere e contesto. Come ogni altro processo generativo, sia o meno lo sfoggio d’intuizione, manualità ed esperienza tecnica applicata, oppure, persino, in assenza volontaria di tali elementi. Come insegnava la dottrina del Taoismo, a volte la saggezza è l’inazione (wu-wei). Lasciando che le cose prendano l’iniziativa, se ne può restare affascinati.

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L’antica arte della macchinina rotante iperveloce

Tethercar

Fu circa 2 milioni e mezzo di anni fa, nel pieno mezzo dell’età del Paleolitico, che il cacciatore primitivo, con sua somma sorpresa, si accorse di possedere una straordinaria capacità: quella di provare un senso d’empatia verso le cose inanimate, purché fossero in cerca di un bersaglio, reale o percepito. Il merito, idealmente, potrebbe darsi all’invenzione di arco e frecce. Di strumenti da scagliare, prima di allora, già ne avevamo conosciuti molti: pietre affusolate, tozzi giavellotti fatti con costole di tigri, rudimentali ma aerodinamiche asce di selce e così via. Però fu soltanto dal fortuito incontro tra flettenti e corda, nonché tramite l’introduzione del concetto d’impennatura, che per la prima volta parve quasi di volare assieme ad una freccia. L’assoluta identificazione fra la persona e il suo strumento, da che abbiamo testimonianze scritte, è un caposaldo di tutte le civiltà, che siano pacifiche o guerriere.
Quello che gli antichi ancora non sapevano, perché mancavano le risorse tecnologiche, è come tale sforzo facilmente comprensibile potesse diventare puramente astratto, ovvero tramutarsi nella ricerca di una cifra, piuttosto che di quel punto fisico da flagellare. Che nello specifico, vedi questo caso, si potesse perseguire, invece della selvaggina, un’immane velocità: 330 Km/h, da raggiungersi con l’ausilio di rombanti quattro rotelline. Così nasce, negli anni ’30, la formidabile tether car, questo giocattolo per coraggiosi. Erano i tempi in cui l’aviazione faceva passi da gigante, con attraversamenti di mari, oceani e continenti, quando i motori diventavano sempre più grandi, le ali più robuste e insieme ad esse, inevitabilmente, cresceva la diffusione dei modellini radiocomandati. Bimotori, biplani e altre meraviglie in scala, da controllarsi a distanza, stavano entrando per la prima volta in tutte le case (di chi poteva permetterseli) con somma gioia di grandi e piccini, soprattutto negli Stati Uniti. Proprio lì nacque, grazie all’operato di due fratelli, questa forma di automobilina iperveloce, che montava, tradizionalmente, il motore a benzina di un aereo. E si trattò fin da subito di un successo, perché questi modellini, molto spesso, erano più veloci di un’auto omologata.

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Scansatevi, passa il gatto robotico guerriero

Wildcat

La voce circola tra gli stanchi soldati dell’accampamento, reso umido dallo scioglimento della calotta artica settentrionale: “Piccolo diavolo quadrupede, che corre velocissimo nel sottobosco…” E nessuno, per sua fortuna, l’ha mai visto bene. Si dice che abbia denti d’acciaio, scaglie impervie e occhi di brace, questa terribile creatura dell’armata antagonista, assemblata in fabbriche sotterranee, per il tramite di altre strane macchine, ancor più distanti da ciò che possa normalmente dirsi umano. E le sentinelle del turno di notte, che puntano la torcia fra gli alberi con mano tremante, cercano di udire quel suono fin troppo conosciuto, araldo di eventi tremebondi. “Che diavolo di guerra è questa?” sussurra una di loro, all’indirizzo del suo commilitone, la sigaretta floscia che pende dalla bocca, bagnata di sudore “Contro mostri rasoterra, che non dormono, non hanno paura, non si ritirano mai…” In un’epoca passata, anzi, in questo nostro tempo (perché stiamo gettando uno sguardo d’ipotesi verso un distopico futuro, non fosse ancora sufficientemente chiaro) si combatteva fra uomini, tutti uguali almeno in una cosa: l’attenzione per la propria preziosa incolumità. Controintuitivo è il processo attraverso cui, quanto più si esaurivano le risorse del pianeta, tanto aumentava la produzione collettiva del cosiddetto drone da combattimento. “Di cielo, di terra e di mare” dapprima telecomandati: aeroplani lanciarazzi, subordinati alla volontà di un pilota dentro una scatola, cautamente rimosso dall’azione, che potesse compiere i suoi pattugliamenti rovinosi, senza il rischio di farsi coinvolgere direttamente. E poi, giorno dopo giorno, figli di ferro sempre più automatici, scaltri e intelligenti.
2050: costruita la fabbrica SkynetOD, sotto i ghiacci gelidi dell’Artico. Un massiccio sforzo internazionale, finanziato dai paesi più forti del nuovissimo ordine mondiale, che avrebbe garantito la sicurezza eterna contro ogni fonte di aggressione armata, chiunque fosse il suo mandante. All’interno della base, 10.000 soldati robotici del tutto senza sentimenti, privi del concetto di confini nazionali.
2060: crollo repentino dell’economia mondiale, con esaurimento quasi contemporaneo del petrolio e dell’uranio. Aumento drastico della temperatura, a causa dell’effetto serra. I droni della Terra vengono decommissionati, per mancanza di fondi. SkynetOD chiude le sue porte, per sempre?
2075: nubi fosche all’orizzonte. Continenti semisommersi, città ventose prive di elettricità, rivolte diffuse nelle strade, voci a dir poco preoccupanti. Un eschimese in fuga irrompe fra i palazzi di ferro e cemento: “C’è un bagliore a nord, di tenaglie dentate, puntatori laser e…” Venne la sanguinosa battaglia dell’isola di Greenland, fatta di fuoco, fiamme e lunghe veglie notturne al cardiopalma. I demoni correvano nella notte.
“J-Jimmie, l’hai sentita l’ultima?” Spegne la sigaretta, la getta a terra. “Pare che questo affare, il gatto robotico da battaglia, sia un progetto piuttosto vecchio, addirittura del 2013. Il primo prototipo fu fatto dagli Stati Uniti. Te la ricordi Boston? Ci vivevano i miei nonni” Silenzio. “Jimmie…?! La mia torcia n-non…Cos’è questo ronzio?”

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Il motoscafo sommergibile con la forma di un delfino

Seabreacher

Non chiamateli pesci! Sono mammiferi marini, ma che dico, motoscafi…In grado di viaggiare sopra, dentro e persino sotto l’acqua. Quest’ultima impresa, sebbene soltanto per brevi tratti, sanno come compierla con stile, ad una velocità davvero sorprendente. I tre mezzi della linea Seabreacher, prodotti dalla piccola compagnia americana Innespace Productions, vengono definiti come The Ultimate Diving Machines (le macchine da immersione definitive). E forse, per una volta, non si tratta di un’esagerazione. Sono dei sommergibili biposto, notevolmente affusolati, spinti da un sistema di propulsione vettoriale che si orienta liberamente in ogni direzione, proprio come la coda di un vero abitante degli abissi. Pinne dorsali, laterali e pettorali si occupano della stabilizzazione, fornendo anche ulteriori superfici di controllo. E infatti questi pesci meccanici si guidano, piuttosto che tramite il solito, noioso timone, attraverso una coppia di vere e proprie cloche, non dissimili da quelle degli aerei. La differenza, dal punto di vista della creatività di pilotaggio, è semplicemente rivoluzionaria. Basta guardare uno qualsiasi dei molti video di presentazione, largamente disponibili su YouTube: l’imbarcazione corre, compie degli avvitamenti e s’immerge per poi saltare fuori, quasi a 90 gradi. Parrebbe di assistere a uno show acquatico delle orche di SeaWorld, se non fosse per la scia d’acqua lanciata in aria e la rapidità di spostamento, davvero innaturale. Quest’ultima può raggiungere, nel caso del modello di punta, gli 80 Km/h in emersione e i 40 sott’acqua, potendo senz’altro far la gioia di tutti coloro che coltivano la proverbiale Need For Speed, ovvero la necessità di andar sempre più veloci. A loro si rivolge Seabreacher X, la versione “squalesca” e più recente del dispositivo, dotata di 260 cavalli di potenza per appena 612 Kg di peso. Il rapporto tra i due valori, tanto vantaggioso, risulta pari o superiore a quello di una roadster sportiva purosangue, come una Porsche, Ferrari o Lamborghini. Pensateci! Per i due fratelli minori, leggermente meno estremi, l’azienda si è invece ispirata a creature meno (ingiustamente) temute e dotate di una coppia di polmoni, piuttosto che delle solite branchie: l’adorabile delfino (Seabreacher J) e la già citata orca (Seabreacher Y) rivivono nelle livree di serie, nella dimensione e nel posizionamento delle pinne per ciascun battello, benché il sito ufficiale ne mostri anche di simili ad aerei e astronavi, più o meno fantascientifiche nell’aspetto. Notevole, nel caso del modello balena-killer, è l’optional irrinunciabile dello spruzzo dorsale, attraverso cui l’animale dovrebbe regolarmente liberarsi dell’acqua entrata nel suo apparato respiratorio. L’effetto di un simile exploit coreografico, condotto di fronte a un incredulo pubblico di bagnanti, potrebbe quasi giustificare di per se l’acquisto. Occorre, tuttavia, dimostrare un certo grado di pazienza: ciascun esemplare viene prodotto su richiesta, dopo il versamento di un congruo anticipo sul prezzo complessivo.

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