Il ponte con due piccoli castelli sul più impressionante dirupo dell’Alta Savoia

Visioni non troppo difficili da contestualizzare, sulla base di altre occorrenze capitate sotto lo scrutinio dei propri attenti occhi indagatori. Cosa c’è di strano, dopo tutto? In una duplice struttura decorativa alle rispettive estremità di un ponte, soluzione del tutto affine a quanto siamo abituati ad ammirare nel caso di tante infrastrutture costruite fin dal tempo antico e fino ai margini del mondo moderno e contemporaneo. Quasi a voler sottolineare l’ingresso in un “luogo” alternativo, il segmento sospeso tra le rispettive propaggini di un vasto spazio vuoto, l’arcata che permette di avanzare oltrepassando quell’ostacolo, topografico, orografico o di altra natura, che nessun’altra specie della Terra si sarebbe mai sognata di dominare, eccetto l’uomo. C’è un aspetto d’altra parte molto singolare in tali aggiunte strutturale del più vecchio dei due ponti costruiti sulla gola profonda 147 metri del torrente di Les Usses, in un punto strategico situato tra i comuni di Allonzier-la-Caille e Cruseilles o se vogliamo guardare più lontano, la grande città di Lione ed i confini di Svizzera ed Italia. Trattandosi, nei fatti, in un esempio antologico di soluzione “sospesa” ed in quanto tale, destinata a trarre vantaggio dai cavi principali con disposizione catenaria svariate dozzine di tiranti, egualmente distribuiti lungo l’estendersi di questi lignei, ambiziosi 192 metri. Da qui l’idea di unire l’utile all’esteticamente gradevole ed il conseguente approccio decorativo che ricorda quello di due stravaganti arredi dei giardini britannici, il tipo di struttura chiamata nei libri di architettura folly o “pazzia”. Il che lascia desumere, in maniera totalmente corretta, un’origine non propriamente recente per il ponte nella sua interezza, che risale effettivamente all’epoca e il mandato di Carlo Alberto duca di Savoia, re di Sardegna, Cipro e Gerusalemme. A partire dalla notizia, giunta nel 1837 presso la sua corte nel Palazzo Reale a Torino, che l’ancestrale attraversamento antico romano di quel corso d’acqua assolutamente strategico era infine crollato nella rapida corrente sottostante. Non lasciando a un attento governante, come lui era da tutti giudicato, altra scelta che costruirne un più grande, funzionale, rapido nell’attraversamento veicolare. Il che avrebbe portato al coinvolgimento di uno degli ingegneri provenienti dalla prestigiosa École nationale des ponts et chaussées parigina, oggi considerata in effetti la più antica istituzione ancora attiva nell’insegnamento dell’ingegneria al mondo. Nella persona di Émile Fulrand Belin (1800-1887)…

Leggi tutto

Casa è dove sorgono un migliaio di pali. E i loro nodi sconfiggono la magia nera

In base ai miti ancestrali dei Masyarakat Arfak, il gruppo di tribù che vivono sulle omonime montagne dell’entroterra papuano, i loro antenati scesero un giorno in guerra per il controllo di un prezioso albero di guava. E fu così che dopo un periodo di aspre battaglie, anche i bambini scesero in campo per i rispettivi schieramenti, armandosi principalmente di arco e frecce in base alle usanze primitive. Ma uno di loro, scoccando all’indirizzo del nemico, sbagliò mira e colpì accidentalmente un sacro uccello del paradiso. Colpiti dal nefasto presagio, i capi delle due famiglie scelsero di fare un giuramento: essi non avrebbero più intrattenuto alcun tipo di comunicazione. Né sarebbero vissuti ancora sotto lo stesso tetto. Molti anni dopo, i discendenti dei gruppi linguisticamente eterogenei delle tribù di Sough, Hattam ed Arfak decisero di tentare una tardiva riappacificazione. Radunandosi in un luogo neutrale, dove si scambiarono il cibo frutto dei propri raccolti e danzarono assieme alla ricerca di un accordo comune. Le loro storie, che scoprirono essere simili, non sembravano tuttavia avere mai fine. E da ciò nacque il complesso sistema di movimenti e canzoni, suddiviso in Tumbu Tanah da praticare all’esterno e quello utilizzato in privato, tra le mura domestiche della propria abitazione che prende il nome di Tambuk Ruma. Ed è anche per questo che le dimore costruite dai Masyarakat Arfak assumono proporzioni notevolmente superiori a quelle di una comune capanna degli indigeni, risultando dotate di un ampio spazio centrale e camere separate per una o più famiglie, anche superiori numericamente al nucleo minimo di genitori e i loro giovani figli. Finendo in questo modo per richiedere, al momento della loro costruzione, il coinvolgimento di una significativa percentuale degli uomini del villaggio, per un periodo pari anche a diverse settimane di lavoro. Ma il risultato… Merita davvero il nome di rumah kaki seribu, ovvero letteralmente: casa tradizionale del millepiedi. Una metafora senz’altro desumibile, nella sua origine, mediante mera osservazione dell’aspetto, caratterizzato dalla più fitta base immaginabile di una serie di sottili palafitte. Fatta continuare, dal punto di vista strutturale, nell’incrocio dei numerosi pali verticali ed orizzontali utilizzati come base delle sovrastanti pareti, legati assieme tramite quello che potrebbe avvicinarsi ad un migliaio di nodi. Questo per una significativa pluralità di ragioni: difendersi per quanto possibile dall’ingresso accidentale di animali selvatici, come serpenti o tarantole, e mantenere i membri più deboli della tribù lontano dagli occasionali conflitti armati condotti innanzi all’uscio della casa. E proteggerli allo stesso tempo, assieme ai loro parenti armati, da un tipo di attacco ben più subdolo e pericoloso nella sua frequenza: quello del suwanggi, lo stregone possessore delle temibili arti della magia nera.

Leggi tutto

Dar Al-Hajar, il palazzo sul pilastro di arenaria degno di un’antica fiaba yemenita

Profili delle case multiple adagiate l’una all’altra, con candidi merletti posti ad identificare i perimetri portati ad intersecarsi. Finestre o feritoie di ogni forma immaginabile, rettangolari, sovrastate da archi, contrafforti onirici a stretto contatto con le nubi. E in cima un’alta balconata da cui dominare l’intero territorio, aspettando la venuta di un’ispirazione proveniente dai flussi inalterati della sapienza.
Luoghi magnifici da epoche distanti, in circostanze inaccessibili di paesi politicamente complessi. Eppure nella mente delle persone, il loro atteggiamento, l’apertura nei confronti della modernizzazione necessaria per poter creare un polo d’attrazione turistica fuori dai confini, può sussistere un latente potenziale degno di essere esplorato, nell’attesa di un mondo maggiormente aperto alle possibilità future. In Yemen, nella verdeggiante valle (wahdi) di Dhahr situata a soli 15 Km dalla capitale di Sana’a, una figura dalla veste variopinta si staglia contro uno degli edifici più caratteristici di questo paese. Lei è Somaya Gamal, giovane viaggiatrice reclutata in questo caso dall’UNESCO, al fine di mostrarci la svettante meraviglia architettonica di questo luogo letteralmente sconosciuto all’Occidente, per i molti complicati risvolti burrascosi e conflitti regionali intercorsi al volgere delle trascorse Ere. Eppure stranamente familiare al senso comune dei cinefili italiani, per la sua comparsa in qualità di residenza della principessa Dunya nel film del 1947 di Pier Paolo Pasolini, Il fiore delle Mille e una notte. Struttura degnamente iconica, assolutamente imperitura in potenza, così come compare con l’appellativo odierno di Dar al-Hajar: il “Palazzo sulla roccia”. Nomen, omen, verità evidente. Tangibile, pesante, con le fondamenta inesplicabilmente incapsulate in un enorme macigno d’arenaria costruito presso il sito di un’ancestrale fortezza dei Sabei. In multiple contingenze e con tutte le caratteristiche di un’imprendibile palazzo, così come voluto dal suo principale committente agli albori dell’epoca moderna, l’Imam di tutto lo Yemen al-Mansur Ali ibn al-Abbas che regnò come dinasta dei Qasimidi tra il 1755 e il 1809, in un paese libero dal dominio degli Ottomani da ormai più di due secoli, ma ancora disunito dai conflitti e dalle guerre tribali purtroppo implicite nella sua eredità storica e culturale. Tuttavia sufficientemente stabile, e prosperoso, da permettere la costituzione di un polo delle arti e della cultura alla corte del suo più influente sovrano, con figure di elevato calibro in tal senso ma forse nessuna all’altezza dell’astronomo, ingegnere e costruttore di castelli Ali ibn Salih al-Ammari (1736-1798) che qui pensò quello destinato a rimanere negli annali come uno dei suoi capolavori. Una residenza estiva quale mai nessuno, prima di quel momento, avrebbe mai potuto tentare d’immaginare…

Leggi tutto

Il chiodo indistruttibile che regge il quadro storico della città di Delhi

“Altissimo Sovrano, Shah di tutto l’Iran, guardiano della Fede, Punitore degli Infedeli, Servitore di Tahmasp, supremo Qurchi-bashi dell’invincibile armata di Persia, ascoltate la mia petizione. Il vostro indegno capo dell’artiglieria che avete onorevolmente incaricato di distruggere il pilastro sacrilego nella moschea di Allah non intendeva offendere la tua magnificenza. Ed ogni danno accidentale riportato al lato prospicente della Quwwat-ul-Islam nella Qutb, invero, è il risultato di un drammatico incidente. Come potevamo sapere, Luce dei miei occhi, che puntando la bocca del nostro cannone all’indirizzo dell’alto pilastro stavamo commettendo un grave errore? Giacché nel corso della vittoriosa campagna contro le diaboliche forze dei Mughal, molte colonne simili sono state avvistate dalle nostre truppe. Insegne appartenute un tempo, ci hanno detto, all’autorità suprema di un impero vecchio più 1.000 anni. Che l’imperatore di Maurya era simile impiegare per esporre il proprio nome e i conseguenti editti, incisi laboriosamente sulla loro superficie convessa. Ciascuna egualmente sgretolata, con la stessa rapidità ed efficienza, dalla forza inarrestabile delle nostre potenti armi. Così al Vostro glorioso ingresso nella piazza costruita dal grande taṣawwuf Muḥammad Bakhtiyār, la spada ingioiellata ancora sfoderata all’indirizzo dell’offensivo oggetto, abbiamo interpretato tale gesto come segno che fosse venuto il momento di far fuoco. Potrete dunque constatare, se vorrete ritenermi meritevole di un sopralluogo, la crepa orizzontale da noi causata a mezza altezza nel pesante orpello. Prova di una mira assolutamente perfetta, nonostante il risultante effetto sul pilastro di ferro sia risultato comparativamente trascurabile al confronto delle aspettative. Ma nessuno poteva, in tutta sincerità, immaginare che il proiettile sarebbe RIMBALZATO finendo contro il muro della moschea, causando i danni che purtroppo tutti ben conosciamo. Per questo, Supremo Signore, chiedo a voi ed ai vostri giudici clemenza. In fede, il vostro soldato e matematico Dehkordi, nell’anno della conquista (n.d.T.) 1739.”
Fortuna? Sfortuna. Prestigio? Problemi. Alterne furono le molte vicissitudini, e i trasporti pregressi, di uno degli oggetti maggiormente misteriosi dell’intera parte nord dell’India. Sotto ogni aspetto degno di essere annotato, un monumento. Ma anche un simbolo, importante e imprescindibile, di quello che un sovrano fosse in grado di commissionare la fine di rendere omaggio alla divinità che giudicava il proprio nume tutelare. Il potente, saggio e attento Vishnu, a grandi lettere indentificato, assieme al committente, sull’immancabile iscrizione principale a mezza altezza, di un qualcosa che potremmo paragonare dal punto di vista funzionale a un obelisco del Mondo Antico dell’Occidente. Firmato in modo “anonimo” da colui che stato ormai da lungo tempo identificato, grazie a ragionamenti di contesto, come Chandragupta II (r.c. 375-415) alias Vikramaditya, terzo dinasta e supremo condottiero della dinastia di Gupta, durata tra il quarto e il sesto secolo dopo Cristo. La cui stessa capitale, ancora oggi centro amministrativo dell’intero subcontinente, sarebbe stata destinata a polarizzare l’attenzione dei molti nemici e oppositori del potere centrale. Ragion per cui, probabilmente, all’epoca decise di far erigere il più grande omaggio nei confronti della fede, un pilastro commemorativo di metallo dell’altezza di 7,21 metri e un peso (stimato) di oltre 6 tonnellate, non qui ma presso il complesso di caverne di Udayagiri, sito di un monastero dedicato al supremo protettore del Dharma e del Mondo. Così come avevano già fatto i suoi insigni predecessori, benché utilizzando un modo nuovo e totalmente privo di precedenti. Come largamente spiegato dalle guide turistiche dell’attuale punto di riferimento, l’oggetto noto come pilastro di Delhi è frutto della tecnica di saldatura a fuoco di multiple fusioni di un materiale ferroso, dal contenuto carbonifero abbastanza basso da poter essere chiamato ghisa. Eppure ad oggi, dopo oltre un millennio e mezzo di esposizione agli elementi, esso appare ancora privo di ruggine e perfettamente integro nel suo complesso. La ragione, per chi ha voglia di considerarla, sfida con preponderanza l’immaginazione della gente…

Leggi tutto