Anno 1785: le onde dell’Oceano Pacifico s’infrangono contro il rudimentale molo, mentre le imbarcazioni dei pescatori, gettando le proprie cime all’indirizzo dell’approdo, fanno il possibile per dar modo alla popolazione di sbarcare nuovamente nella terra della loro anima, la municipalità giapponese più difficile da raggiungere per mare. Nell’espressione di un sentimento noto come kanju , che significa “tornare al luogo della vita” ma anche, a seconda dei caratteri impiegati per scriverlo, “accettare” o “sottomettersi al dovere/destino”. Poiché ogni 230-250 anni, le case di queste genti vengono devastate da un’eruzione terrificante, che fa scuotere la loro piccola casa come fosse il dorso di un drago risvegliatosi dal torpore dei secoli dimenticati. Ed ogni volta, puntualmente, la parte superstite degli abitanti cerca rifugio nella vicina e più grande isola di Hachijojima, per poi imbarcarsi di nuovo, e far puntualmente ritorno all’ovile. Siamo a 358 Km dall’allora città di Edo, destinata a diventare in futuro la tentacolare megalopoli tokyoita, tra le nebbie del distante Mare delle Filippine. La gente venuta fin quaggiù in origine, oltre al rispetto delle tradizioni familiari, ha almeno un’ottima ragione per tenersi lontano dalle terre centrali: primi fra tutti, i monaci del Jōdo Shinshū o Buddhismo delle Terre Pure (corrente Wasan) esiliati dal tempio di Zojo-Ji come eretici ed oppositori del potere shogunale. Ed assieme a loro una selezione di discendenti di coloro che erano stati in qualche modo danneggiati dalle guerre civili, oppure restavano invisi ai funzionari del potere dei Tokugawa, ormai stanchi di nascondersi sotto falso nome. Dopo i duri sconvolgimenti dei secoli passati, dunque, il Giappone era un paese in pace. Ma la pace non è sempre un sinonimo del benessere civile. Così, eccole qui: circa 120-130 persone, i superstiti, i pionieri, coloro che erano sopravvissuti allo sciame di terremoti seguiti dalla colata lavica e la conseguente esplosione freatomagmatica, in grado di trasformare ulteriormente una delle isole più complesse, ed uniche nel paesaggio, dell’intero arcipelago delle Izu, site all’estremo sud della Terra degli Dei. Ma nessun Kami, nessun Buddha li avrebbe aiutati questa volta: soltanto il duro lavoro, e i materiali che si erano portati dietro, gli avrebbero permesso di ricostruire l’isola di Aogashima.
Vista da lontano, sembra un enorme picco marino di 2,5 x 3,5 Km, con ripide pareti ricoperte da verdeggianti foreste sovrastate dal monte periferico Otonbu, grazie ai suoi 423 metri il punto più alto dell’isola. Ma è soltanto una volta scavalcato simili barriere dalla furia del mare, che si scorge l’insolita verità: l’isola è in realtà una conca o padella, con al centro un rilevo quasi comico nella sua striata perfezione, definito il “cono delle ceneri” un piccolo vulcano, rigorosamente attivo. Come del resto lo sono gli altri quattro, nascosti sotto la superficie della Terra, grazie ai quali questo luogo ameno emerse dalle acque verso l’epoca Quaternaria, circa 2,58 milioni di anni fa. E così pare, che vivere in una terra meno antica dei dinosauri, e che potrebbe forse non raggiungere la loro età, porti con se un duro bagaglio di problemi. Incluso quello di dover tenere pronte le imbarcazioni, e lanciarsi a largo al primo avviso di tremori che potrebbero precedere l’eruzione finale. È una vita che potrebbe far gravare il senso d’ansia sui giorni e le singole ore, se non fosse per il fondamentale sentimento del kanju: tornare non perché non si abbia altra scelta, bensì farlo come naturale proseguimento della scelta degli antenati. E se i numi tutelari, umani o naturalistici, pretendono da noi una qualcosa, cosa potrebbe mai fare l’uomo per contrastare il loro sommo ed imprescindibile volere?
Sappiamo molto poco della storia di Aogashima antecedente a tale drammatica eruzione, benché se ne trovi menzione come sito vulcanico per la prima volta attorno al 1652. È in effetti altamente probabile, se non certo, che prima di quella data essa fosse del tutto priva di abitanti: a tal punto le condizioni marittime, e la semplice distanza dalla costa, l’avevano resa inespugnabile ai più. Tutto quello che avvenne da quel momento in poi, tuttavia, sarebbe stato destinato a rimanere a vantaggio dei posteri futuri. Fino alla prossima, terribile eruzione…
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L’attrazione turistica di un sito di smaltimento nucleare
L’ombra della collina, grigia ed incolore, incombeva dalla finestra dell’edificio, disegnando una forma riconoscibile sul pavimento dall’aspetto vagamente marmorizzato. “La cella di contenimento di Weldon Spring è sicura al 100%” recitava a chiare lettere il cartello esplicativo posto al centro del piccolo museo: “Ogni agente contaminante è stato accuratamente raccolto e posizionato all’interno dell’area definita, quindi 100.000 yarde cubiche di pietra, detriti, metallo e ghiaia sono state usate per ricoprire l’ammasso di scorie. Persino le tute anti-radiazioni usate dagli agenti di depurazione sono state chiuse all’interno di barili a tenuta stagna, quindi aggiunte alla pila degli oggetti da seppellire.” Il piccolo Timmy, in visita al Museo Interpretativo della piccola cittadina nel Missouri, si guardò attorno alla ricerca di una rassicurante conferma. E fu allora che notò, all’interno di una teca di esposizione, il casco e la palandrana color fluorescente di quella che non poteva esser altro che uno di quegli stessi abiti, preservato affinché lui, a distanza di parecchi anni, potesse avere l’onore di prenderne visione. Al che si fece immediatamente due domande: primo, se davvero ne fosse valsa la pena. E secondo, perché mai, fra tutte le gradevoli attrazioni del Missouri, i suoi insegnanti avessero scelto di portarli proprio lì. Non è questa, come forse potrebbe sembrare, la scena di un film distopico sulle catastrofi o una sezione liberamente visitabile dei videogiochi della serie Bioshock, bensì un luogo reale creato a partire dall’incuria e l’urgenza percepita da parte un governo, dapprima spinto dalle esigenze di una grande guerra. E poi quelle di restare competitivo, durante la frenetica corsa agli armamenti che ebbe inizio il giorno stesso degli accordi finali.
Siamo in un luogo che ha conosciuto, negli anni, parecchi veleni: dapprima quelli prodotti dall’impianto della WS Ordnance Works, principale produttore di esplosivi sul territorio nel corso del secondo conflitto mondiale, quindi le acque tossiche prodotte da niente meno che il progetto Manhattan, lo sforzo nazionale per la produzione della prima bomba atomica, il cui effettivo e drammatico utilizzo, alle spese di due intere città giapponesi, conosciamo fin troppo bene. A partire dalla metà degli anni ’50, sempre qui venne collocata la WS Uranium Feed Materials Plant, chiamata talvolta con l’eufemismo “Impianto chimico” presso cui veniva trasportato uno stadio intermedio di lavorazione del più diffuso ed omonimo materiale radioattivo, affinché esso potesse venire processato nella forma di una polvere giallognola nota come yellow cake. Ogni singolo edificio, naturalmente, conteneva generose quantità di amianto, considerato all’epoca imprescindibile per le sue capacità ignifughe e d’isolamento. E i trasformatori elettrici, oltre agli impianti meccanici, erano riempiti di miscele PCB (Policlorobifenili) composti organici dalle presunte capacità cancerogene e lesive per l’organismo umano. Fu attorno a quel periodo che il complesso prese il nome popolare di Città Meccanica, per gli strani suoni che sembrava emettere a ogni ora del giorno e della notte. Ben presto, nell’area iniziarono a circolare voci di gestioni improprie del rischio, con fuoriuscite di liquido contaminato, esplosioni di polvere sottile di triossido d’uranio e pozze di smaltimento insufficienti a contenere l’intera quantità del materiale. Inoltre, gli abitanti locali iniziarono a notare la presenza di rane stranamente gobbute, sottoposte a mutazioni genetiche niente meno che orripilanti. Il governo degli Stati Uniti, che aveva potuto contare sul sacrificio più o meno cosciente e l’operato produttivo di chi lavorava da decadi in questi luoghi, pensò allora di riconvertire ulteriormente l’impianto: con il protrarsi della guerra del Vietnam, successivamente alla chiusura dell’impianto chimico avvenuta nel 1966, si pensò di riaprirlo per mettersi a produrre ingenti quantità dell’Agente Arancio, il temuto ed efficacissimo erbicida impiegato per disboscare ettari interi della penisola del Sud-Est Asiatico, mentre qualcuno iniziava, timidamente, a far notare il suo alto contenuto di mortifera diossina. Poi per fortuna la guerra finì, oppure l’amministrazione preposta cambiò, oppure un briciolo di coscienza sembrò penetrare nella mente dei politici e degli addetti all’approvvigionamento militare. Così la parola fine venne finalmente scritta col fuoco sul tronco di questo albero malmesso, mentre sotto la spinta delle associazioni civiche ambientaliste, il Congresso decise che dopo tutto, un qualche tipo di intervento si era reso palesemente necessario. Gli anni passarono vertiginosi mentre i casi di cancro e leucemia nell’intera regione continuavano “misteriosamente” ad aumentare (la burocrazia, si sa, ha i suoi tempi e sopratutto, i suoi metodi) finché il 15 ottobre del 1985, un giorno lungamente atteso, il sito di Weldon Spring venne iscritto alle Priorità Nazionali del progetto Superfund, una lista di luoghi contaminati da scorie, per lo più di tipo nucleare, per le quali sarebbero stati messe in atto procedure di contenimento destinate ad essere efficaci per un periodo minimo di 1.000 anni. Il fato di quest’area un tempo verdeggiante, a quel punto, era segnato.
La giungla nelle tenebre del sottosuolo vietnamita
“Attenzione ai dinosauri” recita la mappa fornita dalla compagnia di tour al gruppo di visitatori, nel punto in cui dovrebbe identificare il nome dell’ennesima dolina, abbastanza ampia da contenere un Boeing 747 in volo. Ci troviamo, dopo tutto, nella grotta più vasta del mondo, una scoperta particolarmente recente sotto il massiccio di Phong Nha Ke Bang, all’interno del’omonimo parco naturale. Non particolarmente accessibile: oltre chilometri e chilometri di giungla, tra pareti scoscese e significativi dislivelli, con l’accesso nascosto massicci alberi e tronchi caduti. Scrutando per qualche minuto lo scenario, non è difficile comprendere l’origine dell’annotazione semi-seria, offerta per la prima volta come termine identificativo da parte degli speleologi della British Cave Research Association, guidati fino a questo punto da uno scopritore locale nel 2009, il primo ed unico essere umano ad aver notato l’ingresso di questi luoghi quasi 20 anni prima di quella data. I membri del piccolo gruppo di spedizione, ciascuno dei quali aveva speso l’equivalente di circa 3.000 dollari per soli 5 giorni d’avventura, si trovavano ai piedi di un alto sperone di roccia, che a uno sguardo più approfondito si rivelava essere una stalagmite; alta, tuttavia, l’equivalente di un palazzo di 10 pieni. Altre torri simili sorgevano nel panorama visibile, perfettamente illuminato da quella che poteva essere definita solamente un’apertura nel tetto della caverna. I raggi di luce, penetrati fino a tale notevole profondità, illuminavano una scena senza precedenti: molte migliaia d’alberi, arbusti non dissimili da quelli della superficie, crescevano sul suolo friabile di questa città segreta della natura, spingendosi con la loro presenza fino ai pertugi periferici e l’ingresso delle gallerie. Al di sotto del bordo superiore, distante ed indistinto, alcuni accumuli vaporosi di condensa, sostanzialmente indistinguibili da vere e proprie nubi del cielo. Questo era, a tutti gli effetti tranne quello letterale, il Mondo Perduto di Arthur Conan Doyle, un luogo separato dalle comuni norme della logica e l’evoluzione, dove tutto appariva possibile, persino scorgere la testa crestata di un diplodoco tra le fronde, mentre uno pterodattilo lancia il suo stridulo richiamo. E benché la realtà faunistica del luogo sia comparabilmente piuttosto ordinaria, con uccelli, scimmie e serpenti nelle aree esposte alla luce del Sole, nonchépipistrelli, pesci e millepiedi albine nei pertugi più profondi ed oscuri di questo labirinto, è indubbio che qui ci si trovi di fronte a una sorta di capsula temporale, che dispone in maniera ordinata di fronte allo sguardo degli studiosi i processi geologici millenari che hanno portato, attraverso le generazioni, alla formazione paesaggistica della penisola vietnamita. Siamo ad Hang Sơn Đoòng, la caverna del fiume nella montagna; il più vasto complesso sotterraneo del mondo.
Di certo Hồ Khanh, che allora si guadagnava faticosamente da vivere come boscaiolo abusivo nell’area del parco, non aveva in un primo momento compreso la natura di ciò che si era trovato di fronte. Quando, nel 1991, si fece una nota mentale di questo pertugio misterioso, reso inaccessibile da un corso d’acqua che sgorgava possente durante la stagione dei Monsoni. Eppure per qualche ragione molti anni dopo, durante la visita del gruppo di esploratori inglesi, si ricordò di questo luogo, offrendosi di accompagnarli per documentare l’esempio precedentemente ignoto di carsismo in questa zona ricca di arenaria, in cui vasti ambienti sotterranei costituivano il viale d’accesso a conoscenze nuove. E di scoperte questo gruppo ne fece parecchie, con 11 grotte battezzate per la prima volta, di cui due dedicate a Hồ Khanh e sua figlia Thai Hoa. Ma per lo meno in un primo momento, la ricerca del misterioso luogo fu del tutto infruttuosa. Finché alla ripartenza degli stranieri, l’abitante della giungla riformato a guida turistica non s’inoltro per un’ultima volta, da solo, riuscendo fortunatamente a ritrovare quel pertugio: nel giro di pochi giorni, l’equipe guidata da Howard Limbert fece il suo precipitoso ritorno, inclusivo di trasferta in aereo e lunga camminata nella giungla fino al villaggio di Phong Nha. E da lì tra le montagne, per approcciarsi alla tenebra, questa volta, con attrezzatura d’avanguardia e provviste, pronti ad andare realmente a fondo nell’intera questione. Era il 14 aprile del 2010: nessuno sapeva, realmente, che cosa lo aspettava durante il viaggio nelle viscere del mondo.
I 18 super alberi della città di Singapore
Sotto un cielo prossimo al tramonto, cammino all’altezza di un palazzo di 6 piani, lo sguardo rivolto ad enormi conchiglie di ferro e vetro. Dinnanzi a me, uno skyline urbano particolarmente elevato, semi-nascosto dall’eterna foschia. Mi trovo su una lunga passerella serpeggiante, circondato da un florilegio vegetale importante. Davanti e dietro a me sorgono degli arbusti improbabili, con il tronco rastremato che culmina in fronde visibilmente stilizzate, con la forma approssimativa di un circuito stampato. A dominare il panorama, il colossale monolito di tre torri squadrate, sovrastate da quella che potrebbe sembrare un’imbarcazione di linea trasportata lì così, per caso. Ad un tratto, come per una congiunzione astrale imprevista, dal maestoso edificio si accende un potente fascio di luce, che punta dritto verso un altro gigantesco arbusto, alla mia sinistra. E allora quello si accede, letteralmente, di milioni di luci, mentre una musica indistinta inizia a suonare nell’aria. È un concentrato di tutti i generi più popolari degli ultimi 15 anni, Pop, Rock, Hip Hop e un pizzico di Heavy Metal, rimbombante come il canto di uccelli della dimensione approssimativa di un aereo biposto Cessna Skyhawk. Progressivamente, l’intera “foresta” inizia a dare il suo contributo, danzando e cantando in quest’inno allo gioia contemporanea…
Immaginate quale potenza economica possa concentrarsi all’interno di una città stato. Un singolo centro, solitario e unico, che ospita allo stesso tempo il suo governo centrale, il 90% della popolazione nazionale, le sue più estreme periferie. E questo sul suolo di un’isola geograficamente separata dalla Malesia, in cui storicamente passarono tutti i commerci degli stretti marittimi d’Asia. Singapore, il cui nome significa letteralmente la “città del leone” costituisce oggi una delle maggiori metropoli cosmopolite al mondo, in grado d’influenzare l’alta finanza del suo intero panorama limitrofo ed oltre, essendosi trovata a costituire uno dei principali players economici dell’Asia meridionale. Si tratta di un modello tutt’altro che unico, in effetti, con episodi storicamente simili verificatosi anche a Taiwan ed Hong Kong, entrambe padrone del proprio destino. E se c’è una cosa che accomuna, indissolubilmente, questi luoghi così distanti, è la seguente: formidabili servizi ed infrastrutture. Non poteva davvero essere altrimenti, quando il loro governo ha un solo conglomerato di cui occuparsi, senza altri progetti sul territorio, onerosi da produrre e mantenere come strade provinciali, autostrade, ferrovie… Una modalità talmente semplice ed efficace di organizzare l’erario, che il difficile diventa, addirittura, trovare una valvola di sfogo per il surplus a disposizione. Ed in questo, la nazione isolana a maggioranza di etnia cinese e religione buddhista, dotata di un potente esercito ed uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, ha scelto una via esteriore particolarmente visibile da ogni capo del mondo. In un certo senso, si potrebbe dire che desideri diventare come Dubai. Un intero parco dei sogni, straordinariamente lussuoso ed al tempo stesso accessibile per il turista, ricolmo delle più strabilianti meraviglie che la tecnologia e il design moderno possano concepire. Ma con un tema, giustamente, diverso: la città-giardino o per meglio dire, la “città nel giardino”. Questo breve slogan, coniato attorno al 2005 dal governo, ha segnato l’inizio di una ricerca di spazi verdi che superi nettamente la media globale, arrivando a costituire un vero e proprio filo conduttore dell’intero sforzo urbanistico locale. Culminante nei tre Gardens by the Bay (Giardini della Baia) fortemente voluti dal tutt’ora Primo Ministro Lee Hsien Loong, che li vedeva come un passaggio obbligato per incrementare la qualità di vita della popolazione locale. Attraendo, nel contempo, nutrite e danarose schiere di turisti. Nel 2006 venne indetta dunque una competizione internazionale, per determinare chi avrebbe avuto l’onore di costruire su questo generoso ritaglio di terra riconquistata dal mare, creata in maniera non dissimile dall’isola artificiale tokyoita di Odaiba. L’appalto fu vinto da due colossi dell’architettura inglese, Dominic White e Grant Associates. I secondi avevano un’idea molto particolare, di che cosa avrebbe potuto conquistare l’immaginazione della gente…