L’uomo che vive nel cubo di New York

Man in a Cube

Un’intera casa, obliqua, che ruota liberamente di 360 gradi, dotata di gabinetto chimico, tavoli a scomparsa e un pratico generatore a pedali. Nascosta dentro a un cubo, che dovrebbe, in teoria, servire per tutt’altra cosa. Che poi sarebbe il celebre capolavoro di Tony Rosenthal, pioniere dell’interazione fra l’artista degli spazi pubblici e chiunque passi di lì, chiamato da lui a partecipare, volta per volta, della sua caratteristica creazione. Magari non in questo modo tanto viscerale. Gli scultori dell’astrattismo, piuttosto che rappresentare la figura umana, per veicolare un messaggio scelgono una forma. Ma come direbbe Platone: non si può assegnare un peso a questa grande geometria. I solidi dell’empireo, che descrivono i confini della materia, fluttuano liberi nella psiche, perfettamente ineffabili nella loro sublime sacralità. E più le cose sono simmetriche, ineccepibili, meno si prestano alla gretta quantificazione da parte delle moltitudini. Tranne quando si riesce, in qualche modo, a dargli forma materiale. Bisogna intrappolarli nella prigione del metallo solido, sostanza costruttiva d’elezione. Allora una gravità, inevitabilmente, ce l’hanno: quel cubo, ad esempio, pesa giusto 830 Kg. Per usare un termine di paragone, la sfera bronzea del Ministero degli Esteri, di Arnaldo Pomodoro ha una massa di 10 tonnellate circa, quasi 12 volte tanto. Che opere, che arte! Verrebbe voglia di eleggerle a propria dimora. Così qualcuno, per gioco, ci fa credere di averlo fatto. Costui si chiama, neanche a dirlo, Dave – come il protagonista della pubblicità dei cellulari discussa, proprio ieri, in questi stessi lidi.
Nel corso del suo esaustivo exploit, denominato, alquanto appropriatamente, Man in a Cube, il giovane manager ci parla dei pregi, e dei difetti, della sua originale scelta immobiliare. Ricavarsi una tana fra le pieghe degli arredi urbani, dentro quella che potrebbe dirsi la sua fortezza di Alamo, ultimo rifugio dagli stress del mondo lavorativo…

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L’ascensore a moto perpetuo delle università inglesi

Paternoster

Andare in un posto significa sanzionare un certo dispendio di energia, sia questa muscolare, di un veicolo o altri dispositivi semoventi. Una volta giunti lì, guardando verso il punto di partenza, non si riesce più a capire cosa realmente ci ha portato a destinazione. Sono state le calorie spese dal nostro corpo? Il motore dell’automobile? O piuttosto dovremmo ringraziare la strada stessa, intesa come striscia d’asfalto, vettore percorribile dell’umano bisogno di essere altrove? Se gli agglomerati urbani davvero costituiscono nei fatti degli organismi artificiali, come teorizzato da certe correnti dell’architettura moderna, loro inevitabile prerogativa sarebbe un complesso sistema linfatico, fatto di vie, piazzette, varchi, semafori e passaggi sotterranei. Con uomini e donne, globuli rossi perennemente in cerca d’ossigeno, intenti a percorrerli verso delle destinazioni prestabilite, godendosi soltanto l’illusione del libero arbitrio. Uno stato ideale il quale, più che in ogni altro luogo, trova la sua realizzazione nelle trombe verticali dotate di un cabinato semovente. Diciamo che, al termine del suo quotidiano viaggio da pendolare, l’individuo/globulo abbia raggiunto l’edificio di un posto di lavoro, della scuola o dell’ufficio pubblico in cui aveva necessità di recarsi. La sua cellula elettiva. Con passo sicuro, si reca in direzione del dispositivo automatico di dislocazione verticale, l’ascensore. Preme un pulsante, la porta si apre obbediente, un ricco ventaglio di opportunità si presentano dinnanzi al suo sguardo, pieno d’aspettativa. Primo, secondo terzo piano…Il suo appuntamento è al sesto, valuta con attenzione e tramite un dito fermissimo esercita la sua scelta.
Mille persone, soltanto quest’oggi, hanno già fatto la stessa identica cosa. Ma lui si sente speciale, mentre la porta si chiude obbediente. Ancora una volta la fisica si è piegata alla volontà umana? Ebbene…Per una buona metà del secolo scorso in Europa, e soprattutto nei grandi edifici inglesi, c’era un modo diverso per salire e scendere a un piano. Il suo inventore l’aveva chiamato paternoster, perché gli aveva ricordato, nella forma e nel funzionamento, la collana del rosario. Non prendeva ordini da nessuno e non si fermava MAI.

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Un castello samurai fatto di cartone

Upunushu

Quanti giorni di assedio potrà mai sopportare un castello alto 40 cm? Probabilmente moltissimi, purché si tratti della precisa riproduzione di una delle più famose fortezze dell’epoca Sengoku (1478-1605), quel turbolento periodo al termine del quale la moderna nazione giapponese emerse dalle polveri di oltre un secolo di scontri tra i diversi clan samurai, attraverso guerre civili e difficili alleanze. Il castello di Matsumoto, anche detto bastione del corvo, venne costruito nel 1504 ed è ormai da tempo considerato un tesoro nazionale per i suoi notevoli meriti estetici e funzionali. Oggi eccolo lì, come se niente fosse, sul tavolo da pranzo di Upunushu, ragazza straordinariamente abile nel campo dei pepakura (modellini di carta incollata). Svettante, con tutte le sue feritoie yazama e teppozama al posto giusto, pronte ad ospitare rispettivamente gli arcieri e i fucilieri del clan Ogasawara, coloro che all’epoca regnavano nella regione dello Shinano. Un territorio decisamente difficile da difendere, tanto che la loro splendida residenza fortificata, piuttosto che sorgere in cima ad un colle impervio o in altri luoghi inaccessibili al nemico, era stata collocata nel mezzo di una palude, rientrando nel genere di castelli detti hirajiro, ovvero di pianura. Ma per compensare a tale inerente limitazione, poteva contare su alcuni significativi punti a suo vantaggio: tre vasti fossati pieni d’acqua, ovviamente assenti nella versione ridotta di Upunushu (gli si sarebbe squagliato il bastione). Una ricca dotazione dei cannoni lunghi Hazama, recentemente importati dai mercanti europei. Mura spesse e resistenti, percorse da vasti corridoi periferici, adatti al passaggio veloce dell’intera guarnigione in armatura, ulteriormente appesantita dalle armi e dalle insegne del clan che l’aveva edificato. Uno dei molti, purtroppo, destinati a perdersi tra le accidentate vie della storia.

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360 ore per costruire un palazzo di 30 piani

Broad Group

Questo palazzo di uffici della compagnia cinese Broad Group è comparso da un giorno all’altro di fronte al lago Dongting, nella regione dello Hunan. Emerso con la velocità di un vulcano. Una o due generazioni fa tale impresa sarebbe stata considerata impossibile, per non parlare di un tempo ancor più remoto. Opera del demonio! Si dice che molte volte, soprattutto in Italia, l’anima immortale di un muratore o capomastro venisse concessa in cambio di una qualche creazione architettonica, edificata dal maligno in persona nel corso di una sola notte, con i suoi poteri sovrannaturali. In Asia, che io sappia, non c’è un mito corrispondente; nel caso delle grandi opere apparentemente impossibili, secondo quanto delineato nei codici comportamentali del Confucianesimo e del Taoismo, ciò che si celebra è unicamente il laborioso industriarsi di tutti coloro che hanno compiuto l’impresa. Allo stesso modo degli appartenenti all’etnia del popolo dei Miao, coloro che nell’antichità seppero costruire le prime risaie di questi luoghi straordinariamente redditizi, graziati dal fango fertile del Fiume Giallo, o ancora come gli strateghi conoscitori delle teorie guerresche di Sun Tzu, che in tutto l’Oriente fecero edificare grandi castelli e fortificazioni nei tempi stringenti dettati dalla necessità, le maestranze del Broad Group saranno, per gli annali della storia, coloro che diedero forma alle chimere di una mentalità ambiziosa, futuribile. Con una sola, significativa differenza: questi moderni individui avevano la tecnologia dalla loro. E i pezzi arrivavano già pronti, neanche facessero parte di un colossale gioco di mattoncini colorati.

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