Sarebbe ragionevole pensare, osservando da vicino per la prima volta questo uccello di 15-17 cm durante un’escursione ai margini della foresta Amazzonica, di trovarsi di fronte a un comune passero boschivo, dal becco largo ideale per afferrare gli insetti in volo, come gli uccelli nostrani, ed un piumaggio marroncino al 100% indistinguibile dalla normalità. Di certo, questo è un piccolo volatile che, come il pappagallo cacatua, dimostra la sua qualità esteriore solamente se raggiunge uno stato di eccitazione. E poiché la cresta erettile, nei pennuti, non è soltanto uno strumento utile a corteggiare la femmina, così come l’abbaio dei cani non serve soltanto a farsi rispettare, potrà capitare, all’improvviso, che la simpatica creatura vada incontro ad un processo di trasformazione. Diventando all’improvviso un qualcosa di paragonabile a un vero e proprio pavone, per lo meno una volta applicate le opportune proporzioni del caso. Ecco, guardatelo: questo è un Onychorhynchus, ovvero il rappresentante di quel genus, secondo alcuni biologi composto di un’unica specie particolarmente eterogenea, ma che nell’opinione di altri ne contiene ben quattro, corrispondenti grossomodo a diversi territori del Sudamerica e almeno in un singolo caso (Acchiappamosche Settentrionale) la nazione messicana, fin quasi al confine con gli Stati Uniti.
Dal punto di vista della classificazione, sempre fondamentale quando ci si avvicina a una creatura tanto caratteristica e poco nota, stiamo ad ogni modo parlando di un Tyrannidae, ovvero quella vasta famiglia di uccelli passerini in grado di contarne ben 400, soprattutto in forza della straordinaria biodiversità di uno degli ultimi luoghi incontaminati della Terra: la foresta più ampia, ed importante del nostro pianeta, sempre più drammaticamente sovrappopolato dall’umanità. In un contesto naturale tanto ricco di risorse, da poter permettere l’evoluzione parallela di tratti diametralmente opposti in determinate nicchie ecologiche, fino alla creazione di tali piccoli, diversificati abitanti. Ma benché l’avvistamento risulti, come dicevamo, comprensibilmente sporadico (stiamo dopo tutto parlando di luoghi tutt’altro che accessibili) sarà possibile riconoscere il tipico Onychorhynchus dal alcuni tratti comuni e imprescindibili della sua genìa: in primo luogo la maniera in cui ama posizionarsi in agguato sui rami più bassi, pronto a balzare verticalmente per afferrare gli artropodi di passaggio, prima di ritornare brevemente sulla stessa rampa di lancio da cui era decollato. La tipica dieta di questi uccelli include: lepidotteri, omotteri, imenotteri, libellule (Odonata) e inutile dirlo, le grosse e succulente mosche (ditteri) da cui prende il nome. L’animale sembrerebbe tuttavia, almeno a giudicare dai numerosi video presenti su YouTube, anche piuttosto socievole e propenso a venire a consumare il becchime dalle mani protese dei turisti, esattamente come alcuni dei più amati/odiati volatili dei più vasti agglomerati urbani. Eventualità seguita, quasi senza esclusioni, dall’immediato agitarsi dell’uccello, facente da apripista, come da copione, all’apertura del fantastico ventaglio facente parte della sua criptica acconciatura. Il che risulta essere particolarmente emozionante, mentre il piccolino farà ruotare la testa prima da una parte e poi dall’altra, raggiungendo i 260 gradi abbondanti d’estensione, nella vana speranza che l’umano, spaventato, inizi ad attribuirgli il rispetto che viene da un senso generalizzato di terrore. Ma è scontato che per lui l’impresa, considerata la situazione, sarebbe come quella di spaventare Godzilla in persona…
biologia
Scoperta zanzara grande come un passero di montagna
Essere il curatore, nonché principale responsabile del museo di entomologia di Chengdu, nel Sichuan cinese, è un mestiere che può regalare grandi soddisfazioni. Trovare gli esemplari, esporli nella teca, guidare i visitatori nel fantastico mondo delle creature più numerose, e talvolta insolite, di questo azzurro pianeta. Eppure nessuno si aspetterebbe, assolvendo a una simile mansione, di accedere agli onori delle cronache internazionali, in funzione di un singolo insetto raccolto durante un’escursione sul monte Qingcheng. Non che una simile esperienza, per il Dr. Zhao Li, possa definirsi del tutto nuova, considerata la sua scoperta nel 2016 del più lungo Phryganistria chinensis (insetto stecco cinese) mai scrutato da occhi umani: 64 cm di creatura aliena in grado di arrampicarsi e mimetizzarsi (più o meno) sulle piante della sua regione di appartenenza. Ma non c’è forse nessun altro ordine d’insetti, tra il vasto catalogo a nostra disposizione, ad essere in grado di suscitare una reazione d’interesse ansioso come quello dei ditteri, diretti responsabili di una maggior quantità di decessi umani rispetto a qualsiasi altro animale vivente. Per via delle zanzare, soprattutto, in pratica degli aghi ipodermici volanti, capaci di diffondere le più temibili e mortifere malattie. Ragione per cui sarebbe difficile rimanere indifferenti, di fronte all’immagine abbinata alla notizia: la riconoscibile sagoma di questa minaccia, tenuta a vantaggio della telecamera nel palmo aperto. Con l’appendice boccale in corrispondenza dell’indice, e la parte posteriore dell’addome che raggiunge agevolmente il centro del palmo. Per essere chiari, stiamo parlando di un’apertura alare di 11,15 cm, più di 10 volte superiore a quella delle zanzare che ci stiamo preparando ad accogliere con l’avanzare della primavera. Un vero e proprio mostro, degno di epoca preistoriche dimenticate, in grado di gettare nello sconforto il cuore degli adulti ed almeno in teoria, succhiare via una parte considerevole del sangue di uno sfortunato bambino. Se non che, sarà meglio specificarlo subito: la Holorusia Mikado in questione è assolutamente vegetariana, nutrendosi, molto saltuariamente una volta acquisita la capacità di volare, soltanto di pollini e il nettare dei fiori. Il che non ha impedito alla stampa generalista, come avviene ogni volta, di approcciarsi alla questione coi consueti titoli allarmanti e tutti i superlativi del caso. Vediamo, dunque, di fare un po’ di chiarezza e rassicurare chiunque abbia in programma un viaggio in Oriente.
L’eccezionale insetto in questione, appartenente a una specie scoperta in Giappone dal naturalista-entomologo John O. Westwood nel 1876, è un’esponente da libro di testo delle cosiddette tipule o zanzaroni (fam. Tipulidae) creature piuttosto comuni in tutti e cinque i continenti e quindi inevitabilmente, presenti anche da noi in Italia. Incapaci di arrecare un danno diretto alle persone, benché le loro voraci e coriacee larve, note negli Stati Uniti come leatherjacket (giacca-di-cuoio) possano fare scempio di determinate coltivazioni agricole, attaccando di preferenza le radici e i più teneri tra i virgulti, prima di mutare nell’ultima, breve fase della loro vita, dove dovranno rischiare tutto nel tentativo di riprodursi, ben sapendo che nel giro di pochissimi giorni sopraggiungerà la senescenza e in seguito, la morte. Suscitando, nel corso della loro occasionale visita nell’impreparato contesto urbano, un tale senso di terrore diffuso da dare i natali all’insensata leggenda americana, secondo cui proprio questi sarebbero gli insetti potenzialmente più velenosi e quindi pericolosi del mondo, se non fosse per la loro assoluta incapacità anatomica d’inoculare sostanze alle creature tanto più grande di loro. Un’associazione d’idee da cui deriva assai probabilmente il soprannome di origini letterarie Daddy Longlegs (Papà Gambelunga) condiviso col ragno dei solai (Pholcus phalangioides) altra creatura il cui grado di rischio in caso di incontri accidentali, dal punto di vista popolare, viene grandemente sopravvalutato. È tuttavia importante applicare i distinguo del caso: una qualsiasi tipula italiana come la T. Paludosa misura, generalmente, tra 1,3 e 2,3 cm. Niente a che vedere con gli esemplari di 7-8 nordamericani, o addirittura il mostro svolazzante sulle cime nebbiose della montagna cinese…
Il teschio che appassisce nel fiore leonino
Mentre i giorni passavano, la dama indifferente continuava a passeggiare nel suo giardino segreto. Camelie, rose, qualche tulipano. Ma il punto da lei preferito, il nesso principale del suo passatempo preferito, era l’angolo degli Antirrhinum, o bocche di leone. Seduta sul muretto perimetrale, il vento a muoverle i capelli assieme ai piccoli arbusti antistanti, passava lunghi minuti a osservare quei flessuosi racemi, ciascuno dei quali coronato da una miriade di fiori colorati. C’erano le varianti naturali porpora, gialle, bianche. Ma anche ibridi più rari, i cui petali simili a labbra semichiuse apparivano violetti, rosa e arancioni. I pensieri rivolti al passato, andava a stringerli delicatamente uno per uno tra il pollice e l’indice, mentre per come si muovevano, sembrava quasi di udire la loro voce. “Non lasciarci, non partire per assecondare tuo padre, andando in sposa al principe di Danimarca, abbiamo visto la sventura nel flusso del tempo.” Ma la decisione era già presa e come voleva la tradizione, un bel giorno ella sparì. Nessuno, tra i servi o gli altri abitanti della vasta magione, conosceva il passaggio nascosto che conduceva nel piccolo cortile, così le piante abbandonate, una dopo l’altra, perirono nella più completa solitudine. E il grigiore del mondo reale, da quel momento, governò gli spazi remoti. Finché qualcuno, circa sei mesi dopo, non venne a sapere, da un membro della famiglia reale prossimo alla dipartita, dello spazio un tempo occupato dai pensieri di quella dama. E con grande pazienza, tastando i muri e tirando a se dozzine di torce, non giunse a quella capace di spalancare l’antico passaggio dimenticato. Era scoppiata la guerra, ormai, e già i colpi d’artiglieria risuonavano in lontananza, trasportati dal vento che risaliva le irte pendici montane. Alla ricerca di nuovi nascondigli per importanti documenti e provviste, il servo fece il suo timido ingresso nell’intercapedine sconosciuta, illuminata da un singolo raggio di sole a ogni ora diverso, capace di filtrare tra le merlature distanti. “Te l’avevamo detto, te l’avevamo detto…” Sentì dire nel vento. Dal punto in cui andò a focalizzarsi il suo spazio, molte dozzine di piccoli teschi, orbite spalancate, menti sfuggenti e strani nasi cartilaginei. Le foglie ormai secche a circondarli come antichi sudari. Le anime dei morti parevano manifeste, pronte ad accogliere nuove generazioni di stolti.
Fin dall’antichità, queste piante diffuse in Europa e in Nord Africa (ne esiste anche una variante americana) furono indissolubilmente associate al mondo degli spiriti, credendo potessero scacciare il male. Il primo a parlarne: Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.) botanico e filosofo, a cui risale la definizione di anti, “simile a” unita rhin, “naso” voleva fare riferimento alla particolare forma della corona dei fiori, oggi inserita nell’insieme informale delle piante per così dire “personate”, ovvero capaci di stimolare l’impulso umano della riconoscenza-di-se, anche detta pareidolia. Esse ricompaiono nei testi soltanto molti anni dopo, ad opera di Dioscoride (40-90 d.C. ca.) medico greco alla corte dell’imperatore Nerone, che usava prescriverle come rimedio a diverse afflizioni della pelle, si dice con buoni, se non ottimi risultati. In epoca medievale, quindi, all’intero genus venne associato un particolare sentimento, quello del rifiuto, da parte delle donne in età di matrimonio, dei propri spasimanti. Nacque così l’usanza, diffusa in tutta l’Europa centro-meridionale, di indossare uno solo di questi fiori nei propri capelli, sperando che i giovani del villaggio comprendessero l’antifona. Il che, presumibilmente, non capitava quasi mai. A meno che si trattasse di gente particolarmente superstiziosa ed a conoscenza del segreto più profondo dell’Antirrhinum, ovvero la sua metamorfosi surrealista e decisamente tendente allo spazio più macabro dell’esistenza. La maniera in cui ciascuna capsula contenente i piccoli semi neri, dopo l’appassire dei fiori, assumesse senza falla l’aspetto di un cranio mostruoso, chiaro presagio, nonché un cupo memento, della collettiva mortalità. E furono in molti, di fronte a una simile scoperta, a restare del tutto senza parole…
Incroci genetici e la vendetta del bruco del pomodoro
È di questi giorni la notizia di un nuovo trend, assai problematico, relativo all’ibridazione in Brasile di una nuova specie di parassita delle coltivazioni agricole, una sorta di super-bruco che potrebbe diffondersi in tutto il mondo, resistere i pesticidi e costare all’industria rilevante oltre 5 miliardi di dollari aggiuntivi, oltre alla spesa di cui si fa carico annualmente per preservare la vendibilità del raccolto. Una situazione che emerge dal recente coronamento di uno studio durato ben 8 anni, condotto dall’Ente Scientifico e Industriale del Commonwealth (CSIRO) importante istituzione di stato australiana. Il cui scopo era effettuare una mappa completa del genoma dell’Helicoverpa armigera, anche detto cotton bollworm o in Italia, Nottua del pomodoro, una falena il cui stato larvale è lungo all’incirca 12-20 mm e risulta essere tra i più voraci dell’intero ordine dei lepidotteri, partito dall’Africa per conquistare nel corso delle ultime generazioni umane l’Europa, il Sudamerica, L’Asia e persino il più nuovo dei continenti, facendo concorrenza al notorio appetito dei koala. Ciò in forza dell’impressionante proliferazione di questi insetti che può verificarsi nel giro di un mese o due, a partire da una sola femmina trasportata erroneamente in aereo, pronta deporre oltre un migliaio di uova nel corso della sua breve, ma intensa vita adulta. Alla metà degli anni ’90, un’iniziativa simile ma meno approfondita ma simile aveva permesso la creazione del batterio Bacillus thuringiensis (Bt) un agente biologico innocuo per l’uomo ma che, una volta spruzzato sulle piante attaccate dall’insetto, le rendeva estremamente tossiche per il suo organismo. Se non che in tempi recenti, grazie alla rapidità evolutiva sottintesa dal suo nome scientifico (“in armi” non è un attributo che gli scienziati concedano spesso) la stragrande maggioranza dei singoli individui di questa specie ha sviluppato una sorta d’immunità innata da questo pericolo, diventando resistenti a ogni tentativo di eliminarli con simili metodologie indirette. Ma la speranza di trovare una soluzione al problema, purtroppo, non soltanto si è dimostrata vana, ma ha aperto la strada ad una nuova terrificante scoperta: nove degli esemplari raccolti per lo studio avevano dimostrato delle singolari anomalie nel loro DNA. Finché un confronto incrociato non permise di dimostrare che cosa gli scienziati stessero effettivamente vedendo: parti di codice provenienti direttamente dal genoma di un parente prossimo, l’Helicoverpa zea o cotton earworm, bruco del cotone sudamericano. Come alcuni avevano temuto da tempo, le due specie si erano incrociate, dando origine ad una nuova tipologia di creatura.
Ora, lo scenario che si sta profilando è difficile da prevedere. Allo stato corrente dei fatti, i nuovi bruchi non dimostrerebbero capacità di moltiplicarsi in maniera particolarmente rapida, forse in funzione della minore fertilità degli ibridi in natura, per lo meno finché l’eredità genetica non si stabilizza a partire dalla terza generazione, ma è altamente probabile che la situazione possa ben presto andare incontro ad un drastico mutamento. La nuova specie potrebbe quindi risultare del tutto immune a qualsiasi tipo di sostanza o agente biochimico usato fino ad oggi, acquisendo inoltre un mix delle speciali doti di sopravvivenza appartenenti a ciascuno dei due bruchi. L’H. zea, ad esempio, ha la caratteristica di entrare occasionalmente in diapausa durante lo stato di pupa (il bozzolo) ovvero bloccare il proprio sviluppo nel corso di un periodo di siccità o potenziale minaccia alla futura riproduzione, restando pronto e in agguato nel momento in cui la situazione dovesse modificarsi. Ed è questa la ragione per cui sciami interi della sua falena, improvvisamente, ricompaiono dopo mesi di assenza, cogliendo del tutto impreparati gli agricoltori e arrecando così danni di ancor più grave entità. Mentre la sua cugina armigera, lungi dal formalizzarsi, ha la propensione a divorare i suoi stessi fratelli nel momento in cui il cibo dovesse scarseggiare, aumentando ancor prima nelle dimensioni e velocizzando ulteriormente i ritmi del proprio ciclo vitale. Ora immaginate che cosa potrebbe significare, a seguito dell’accidentale trasferta di ritorno del nuovo bruco verso il Vecchio Continente, una letterale ondata di lepidotteri invasori, in grado di scegliere l’approccio tra i due in base alle condizioni del clima e l’ambiente di nuova appartenenza! Ogni volta, ci sarebbe almeno il 50% di probabilità di scegliere la contromisura errata…