Se esiste un centro luminoso della Cina meridionale, esso non può essere che situato nelle vicinanze della baia di Xiangzhou, dove un ipotetico pescatore, dalla sua barca a poche centinaia di metri dalla riva, potrebbe allargare le sue braccia per contenere allo stesso tempo le città di Hong Kong, Macau e Shenzhen, forse il più importante polo dell’industria elettronica in tutta l’Asia. E risalendo solamente un poco l’ampio delta del Fiume delle Perle, menzionato in tanta poetica e letteratura di quel paese, scorgere gli alti palazzi della zona moderna di Canton, circa 20 secoli fa nota con il nome di Panyu, nonché il ruolo di capitale provinciale dell’impero degli Han. Ma c’è un solo agglomerato, incuneato tra questi recessi urbanistici d’importanza nazionale, ad essere stato votato una pluralità di volte come “città più vivibile di tutta la Cina”. E questo centro è Zhuhai, fondata formalmente negli anni ’80, come risposta pratica all’istituzione delle Zone Economiche Speciali nel principale paese comunista al mondo; un polo turistico d’eccezione, con le sue bianche spiagge e attrezzatissime riviere, che la rendono paragonabile per certi versi alle nostre Rimini e Riccione. E una popolazione di “appena” un milione e mezzo di persone, tale da renderla praticamente semi-vuota per gli standard locali. Ma se c’è una cosa che mancava, fino a poco tempo fa, in questo mezzo paradiso dal clima sub-tropicale, era un punto di riferimento valido a farlo conoscere in tutto il mondo, qualcosa che potesse restare impresso sul paginone centrale delle guide turistiche, così come i ricordi dei visitatori stranieri. Ed è così che verso gli inizi degli anni 2000, l’amministrazione cittadina ha indetto un concorso per la costruzione di un nuovo auditorium/teatro dell’opera in prossimità della linea costiera, traendo probabile ispirazione da quello arcinoto dell’australiana Sydney, forse tra le architetture moderne del mondo cosiddetto Occidentale, una delle più famose in assoluto. E nessuno potrebbe negare che risultato conseguito, verso la fine del 2017, sia certamente… Peculiare.
La Zhuhai Opera House si eleva sopra un’estensione artificiale dell’isola di Yeli, la più grande e prossima alla costa delle 146 che costellano il tratto di mare dinnanzi al centro cittadino, connessa al continente da un aggraziato ponte curvilineo che sembra protendersi verso il punto d’incontro tra il cielo e il mare. A metà del quale, rosso come una peonia, sorge dalle acque il caratteristico ristorante a forma di nave-pagoda Dayuefang, prevedibilmente specializzato in pesce e suoi derivati. Ma nemmeno questa forma sgargiante può distogliere oggi l’attenzione dai due massicci edifici, alti rispettivamente 90 e 60 metri, creati per costituire l’attrazione principale dell’intero tratto costiero. Con la forma che ricorda molto da vicina quella di altrettante conchiglie, o per essere più specifici, esponenti della specie naturale Amusium pleuronectes, un tipo di mitile dalla forma “a pettine” chiamato anche vongola della Luna. E proprio questo afferma di aver voluto rappresentare l’architetto Chen Keshi, direttore del Centro di Ricerca per la Progettazione Urbana di Pechino nonché professore presso l’istituto architettonico di Shenzhen, già premiato dalla critica di settore per la “Città dei Sogni”, un hub di grattacieli ultra-modernisti situati nella seconda di queste città. Il quale tuttavia, per questo tempio della musica che sorge dalle acque, dimostra la sua propensione a seguire ispirazioni molto differenti. Tra cui una, inaspettatamente, di origini addirittura italiane…
luoghi
Un sogno a pedali 50 metri sopra il lago di Garda
Ricordi possibili di un futuro imminente: ho lasciato in macchina l’autostrada per Milano dopo il casello, scorgendo oltre il guardrail un baluginìo distante. È un bacino idrico tra i più famosi del Nord Italia e probabilmente, l’intera Europa, immerso tra ripide colline create dall’azione di un antico ghiacciaio. Garda, immerso in uno scenario spettacolare come un anfiteatro, famosa meta turistica fin dai tempi dell’Impero Romano. Attraversando le verdeggianti colline mi avvicino a Desenzano, il comune più popoloso di queste rive, tra il castello e lo scenario intrigante del Porto Vecchio, per imboccare quindi il viale asfaltato che transita, attraverso un paio di decine di chilometri, attraverso Padenghe, Cunettone e Salò, per poi diventare l’epica e rinomata strada Gardesana. Un percorso pianeggiante dalle dolci curve, tra luci ed ombre dei tunnel scavati nella roccia a strapiombo sul lago, in grado al tempo stesso di ospitare un giro panoramico o il serrato inseguimento di un film di James Bond. Ed è allora che, attraverso palpebre socchiuse per il riflesso dell’astro solare, vedrò qualcosa di difficile da dimenticare. O meglio, qualcuno. Intento a procedere in bicicletta per la sua strada, parallelo al tragitto automobilistico per stagliarsi contro l’altra riva distante, evanescente per l’effetto della foschia. Irrigidendo la mia postura al volante, tento di fare mente locale; mi trovo oramai oltre il borgo di Limone, dove ogni pretesa di spiaggia viene cancellata dal ripido scoglio del corno del Corno di Reamol, sopra cui era collocata l’artiglieria dell’Esercito Italiano, costantemente intenta a far fuoco contro le postazioni austriache dall’altra parte del lago. Ed io so, con certezza nata da Google Earth, che oltre l’orizzonte visibile non c’è nulla, fino alle svariate decine di metri che ci separano dalla superficie dell’acqua distante. Eppure, egli è sospeso, tra cielo e vuoto, mentre impugna il manubrio neanche fosse il triangolo di un deltaplano. Faccio appena in tempo a evocare immagini del piccolo alieno nel cesto anti-gravitazionale, in uno dei film più famosi degli anni ’80, che inizia il tunnel e lo perdo di vista. Una svolta lieve a sinistra, quindi, tra le rocce, appare finalmente la verità. Che come spesso avviene, tenta il sorpasso in curva della fantasia.
Naturalmente, questo scenario ipotetico suppone che io sia vissuto, per molte settimane a partire da oggi, all’oscuro del grande evento che attende il comune più succoso e acido in provincia di Brescia oggi alle 17:00, l’inaugurazione del tratto appena completato di Garda by Bike. Attrazione turistica, infrastruttura pubblica, ausilio alla viabilità, polo mediatico e social dell’entusiasmo e il “desiderio di esserci” delle persone, già richiamate ai dintorni da una campagna pubblicitaria che è stata spontanea, ancor prima che stipendiata. Ma soltanto 300 fortunati tra loro, ciascuno di essi un abitante per l’appunto di Limone, potranno accedere in questa giornata alla passerella sospesa lunga all’incirca due chilometri e mezzo (circa 5 quando sarà completa) infissa direttamente nel fianco roccioso e pietroso con molte centinaia di piloni, versione perfezionata di una vera e propria montagna russa orizzontale, situata niente meno che in uno degli scenari più fantastici disponibili all’immaginazione! Per tutti gli altri, l’unica opzione sarà soggiornare qui fino a domenica mattina, giornata dell’apertura effettiva del varco d’accesso all’itinerario dei sogni, un ricordo pronto a popolare i loro profili Facebook e feed di Whatsapp, forse come elemento a sostegno di una passione decennale per il ciclismo. Oppure, strumento di un bisogno straordinariamente moderno di comparire, lasciare un segno nel fiume di bytes che circonda, oggi giorno, quel mare in tempesta che è il nostro ego personale. E la memoria non può fare a meno di spostarsi, a margine della questione, verso la storica opera galleggiante The Floating Piers dell’artista statunitense Christo, che tra giugno e luglio del 2016 fece del lago d’Iseo una destinazione su scala nazionale, tra una sorta di frenesia che sembrò travolgere un popolo desideroso, almeno una volta nella vita, di “camminare sulle acque” sfruttando dei grossi materassini in polietilene di colore rigorosamente giallo. Mentre la creazione ciclabile del gardesano, sostanzialmente, sarebbe tutto il contrario di quell’effimera evanescenza, fine a se stessa al di fuori di uno specifico messaggio, che a dire il vero è sfuggito alla stragrande maggioranza di coloro che vi presero parte. Qui stiamo parlando, piuttosto, di una sincera dichiarazione d’apprezzamento nei confronti di un mezzo di trasporto, particolarmente intrinseco in queste regioni, la bicicletta che può spostarsi confortevolmente senza un motore, a patto che le strade siano sicure, prive di buche e per lo più pianeggianti. Ecco qualcosa che dovremmo sperimentare tutti, al di fuori del sogno utopistico di un domani ideale.
Eppure non c’è nulla, in tutto questo, che esuli dalla sfera del possibile o il temporaneo, essendo il passaggio frutto dell’opera di un studio ingegneristico, Fontana & Lotti Lorenzi, già famoso per l’assistenza data al patrimonio turistico e architettonico di queste terre, in grado di elaborare per l’occasione un sistema al tempo stesso ingegnoso e funzionale, capace di costituire il gioiello sulla corona di un’intero tragitto lungo 140 Km che potrebbe anche includere, secondo alcune interpretazioni, un’ulteriore ciclabile sospesa di pari lunghezza sulla riva orientale del Garda. Chissà quando potremo assistere a un tale spettacolo fuori dal mondo…
Bled, un lago da sogno nel cuore d’Europa
In Slovenia esiste una leggenda che parla della collera della natura e di coloro che vivono a stretto contatto con essa, perfetti alleati contro l’avanzare spregiudicato della modernità. La cronologia di questo evento, così come i personaggi coinvolti, si perdono nelle nebbie del tempo, come anche l’originario narratore, molto probabilmente appartenente alla tradizione orale, che trasmise per primo l’eccezionale vicenda. Secondo costui arrivò un’epoca in cui le personalità nobiliari della zona al confine con l’Austria, nei pressi della catena montuosa Caravanche, si erano impossessate di alcuni terreni usati dagli abitanti del posto per far pascolare le pecore e in determinate occasioni, celebrare importanti ricorrenze con delle danze. Ingiuriati da tale sopruso, quindi, gli uomini e le donne di Bled si radunarono nella piazza del paese, per pregare intensamente nella speranza di ottenere la propria liberazione. Ma a rispondere ai loro richiami, inaspettatamente, non fu la vergine Maria bensì l’antica dea pagana Živa, che prima ancora di raddrizzare un torto, pensò all’ora della vendetta: chiamato il grande ghiacciaio dalla cima del monte Pokljuka, lo fece scendere a valle poi lo squagliò, causando un’ondata di marea capace di spazzare via i possedimenti indesiderati. Allo scopo di risparmiare l’abitazione di un vecchio particolarmente bonario, tuttavia, l’acqua deviò attorno a un singolo promontorio, formando l’isola al centro del lago che resiste tutt’ora. La versione scientifica di un simile evento, invece, lo colloca nella Preistoria, facendo riferimento a una discesa naturale dei ghiacci in forza del mutamento climatico, poi deviati dalla presenza monolitica della possente roccia, successivamente considerata sacra dalle originarie credenze slave. Fatto sta che nella narrativa del lago Bled, è esistito alle origini un tempio, presso cui venivano portate le pecore per essere benedette. Successivamente quindi, con l’arrivo della cristianità, l’isola centrale avrebbe acquisito la sua struttura più pittoresca, una chiesa arcaica risalente al XII secolo, ulteriormente ampliata nei secoli successivi nei due stili gotico e barocco, ricevendo l’ulteriore connotazione di una torre in pietra candida alta ben 56 metri.
E le meraviglie di questo luogo, da molti anni meta turistica d’eccezione, non si fermano certo lì: senza ancora entrare nel merito del favoloso aspetto paesaggistico, simile a quello di taluni laghi glaciali nei dintorni delle Alpi nostrane, sono molti gli aspetti attraverso cui traspare la lunga ed articolata storia della regione. Tra cui il castello medievale, costruito a strapiombo sul lago, appartenuto a partire dal 1004 al vescovo di Bressanone, cui ne aveva fatto dono l’imperatore tedesco Enrico II in persona (973 – 1024) per l’aiuto ricevuto nel pacificare la sua regione dell’Italia settentrionale. Un luogo in cui l’ecclesiastico non scelse mai di soggiornare, donandogli un aspetto marcatamente marziale, con alte fortificazioni e torri, nella sostanziale assenza di sale sontuose o luoghi di svago. Nel tardo Medioevo, quindi, fu costruito anche un fossato, allo scopo di proteggerlo da eventuali invasioni dei francesi. Nel 1809 finalmente, dopo quasi 800 anni di governo da parte dei vescovi di Bressanone, il castello fu trasferito alla proprietà statale e l’intera regione inclusa nell’impero di Napoleone, sotto la denominazione di provincie dell’Illiria. La situazione non sarebbe durata, con una restituzione entro soli quattro anni all’imperatore austriaco Francesco II d’Asburgo-Lorena. Con l’abolizione ufficiale del sistema feudale soltanto 10 anni dopo, quindi, l’organizzazione sociale del regno sarebbe cambiata drasticamente, mentre i villaggi riscoprivano un’autonomia dimenticata. Fu a partire dalla società costituita in quegli anni, che un ricco industriale, Viktor Ruard, avrebbe acquistato i terreni nel 1858, causando una privatizzazione che sarebbe durata fino agli anni ’60 dello scorso secolo. Quando il pittoresco paese di Bled, finalmente ricevuta la qualifica normativa di comune, ha finalmente acquisito il suo ruolo di primo piano nelle guide turistiche distribuite nel mondo, diventando una meta privilegiata di chiunque decida di trascorrere il proprio tempo in Slovenia.
Così che il turismo, si sa, è una fondamentale risorsa. Che permette di dare spazio a tradizioni ritenute dimenticate, creando tutta una serie di punti di riferimento nuovi e importanti per la popolazione. Uno di questi, per Bled, fu fin da subito di tipo gastronomico: sto parlando della caratteristica torta millefoglie Kremna Rezina, ripiena di crema e ricoperta di panna montata, servita nella forma di fette quadrangolari e la cui consumazione si dice debba portare fortuna, oltre a stimolare piacevolmente il palato. Il secondo aspetto è più complesso, e si collega al luogo di culto che impreziosisce l’isola, gettando la sua ombra sulle acque del lago…
La strana illusione ottica dello stadio di San Siro
La mente e l’occhio umano: due parti della stessa macchina il cui funzionamento, la maggior parte delle volte, risulta essere misterioso. O quanto meno, sembra operare attraverso sentieri poco chiari, come in tutti quei casi in cui si può osservare un qualcosa, per innumerevoli volte, senza notare alcunché possa definirsi fuori dall’ordinario. Finché un giorno all’improvviso, per la convergenza di una serie di fattori o il sussistere di un particolare stato d’animo, la verità appare lampante, scardinando ogni certezza che precedentemente avevamo dato per una labile ovvietà. Sta facendo il solito giro dei video virali e divertenti online questa breve animazione, dall’origine non sempre dichiarata, rappresentante una sorta di colonna color cemento, al cui interno sembra intenta a discendere una certa moltitudine di persone, tutte alla stessa identica velocità. E a un primo sguardo dato di sfuggita, la scena appare fin troppo “evidente”: la strana struttura deve contenere una lunghissima scala mobile, o in alternativa, un qualche tipo di tapis-roulant rotativo, se non fosse che… Grazie alla prospettiva, è possibile osservare i piedi delle persone che camminano ai livelli inferiori. Le quali, esattamente come i passanti di una comune strada cittadina, sono semplicemente intente a mettere un piede dopo l’altro, ovvero in altri termini, camminare. Il senso di suggestione, a questo punto, piuttosto che calare, aumenta: poiché riguardando il resto della scena con la nuova conoscenza, è inevitabile provare un certo senso di empatia portato innanzi dalla percezione a distanza dell’esercizio fisico, immaginando l’avanzata con lo sguardo puntato sulla persona davanti, mentre ci si adegua spontaneamente alla sua andatura. E il mondo che sembra fare lo stesso, ruotando spontaneamente al di sopra del parapetto: questa è la forza ipnotica della spirale. Una delle forme più significative in tutto l’Universo della natura.
Però signori e signori, ecco la verità: non c’è proprio niente di sovrannaturale o cosmopolita in tutto questo. Poiché la scena si svolge, guarda caso, nella bella città italiana di Milano. Dentro, o per meglio dire sotto, il secondo edificio più famoso dell’intero suddetto contesto urbano, quella titanica astronave poggiata nel bel mezzo di un quartiere risalente al XVII secolo, che un tempo era soltanto un villaggio agricolo sulle rive del fiume Olona. Finché non arrivo l’integrazione amministrativa e di seguito a questa, l’opera innovatrice dei costruttori. Saltiamo quindi qualche generazione, ed arriviamo al 1925, quando l’imprenditore e allora presidente del Milan, Pietro Pirelli, decise che uno stadio dovesse essere costruito per la sua squadra, non troppo distante dall’ippodromo cittadino. Lo spazio fu quindi trovato, i permessi vennero concessi (all’epoca, era meno difficile che adesso) e con l’aiuto dell’architetto di fama Ulisse Stacchini (classe 1871) sorsero quattro tribune attorno a un appezzamento di terra, di cui una coperta, complessivamente capaci di ospitare fino a 35.000 spettatori. E fin lì, nessuna traccia di spirali. Il suo completamento richiese all’incirca un anno, al termine del quale si tenne uno storico derby amichevole che venne vinto dall’Inter, tra l’esultanza dei suoi tifosi in ogni angolo d’Italia. Nel 1935, quindi, il Comune acquistò lo stadio, aggiungendo le curve ed incrementando la capienza delle tribune. Ma il vero e più significativo mutamento della struttura non sarebbe giunto fino al 1955, quando il coinvolgimento dell’architetto Armando Ronca permise di aggiungere un secondo anello di spalti posizionato al di sopra di quelli precedentemente esistenti, potenziando inoltre l’impianto d’illuminazione. Lo stadio, ora e finalmente in grado di accogliere più di 80.000 persone, assunse allora l’aspetto che lo caratterizza ancora. Una delle difficoltà maggiori da superare nel nuovo progetto, tuttavia, era di tipo sostanzialmente nuovo: come far muovere svariate decine di migliaia di persone fino all’altezza di circa 50 metri (la sovrastruttura si trova a 68) senza che queste si urtino l’un l’altra, creino ingorghi pazzeschi o finiscano per sfogare in una sorta di carica selvaggia le frustrazioni di un’eventuale sconfitta sul terreno di gioco? La soluzione fu innovativa, benché in campo mondiale, non del tutto priva di precedenti: integrare le scale stesse nelle massicce colonne di sostegno costruite per sostenere la struttura, creando un lungo camminamento che sarebbe stato ascendente all’inizio dei fatidici 90 minuti, e discendente al termine degli eventuali tempi supplementari. Sarebbe stata la naturale tendenza degli esseri umani ad adeguare la propria andatura chi si ritrovano intorno, purché in un contesto in cui la meta sia comune e del tutto evidente, a occuparsi del resto…