L’irrisolta questione archeologica del cubo verde nel Grande Tempio ittita

In una delle prime vicende storiche di cui si abbia una chiara ed integra testimonianza scritta, nel 1259 a.C. fu fissato finalmente l’importante incontro tra emissari del faraone d’Egitto Ramses II e l’imperatore Hattusili III, supremo signore delle terre d’Anatolia situate tra il Mar Nero e il Mediterraneo. Il loro obiettivo, stipulare la pace ritenuta infine necessaria, ben 15 anni dopo la devastante battaglia di Kadesh, costata ingenti perdite ad entrambe le vaste società della tarda Era del Bronzo, rispettivamente minacciate a questo punto dai Popoli del Mare e dagli Assiri, nemici molto più difficili da contenere. Il testo firmato da entrambi i sovrani dunque, immediatamente ritenuto sacro, sarebbe stato riportato sulle pareti dei templi di Tebe e di Karnak. Mentre gli antenati degli odierni abitanti della Turchia avrebbero fatto utilizzo di una più maneggevole tavoletta di argilla con iscrizione cuneiforme, destinata a trovare una collocazione nel maggiore luogo di culto della loro capitale Hattusa, situata 150 Km ad est dell’odierna Ankara. Un luogo in cui gli Dei trovavano accoglienza, nella forma terrena di statue in cui si riteneva risiedesse il loro spirito solenne, all’interno di maestosi templi. Nel più grande ed importante dei quali, secondo alcuni archeologi, risiede ancora adesso quello che potrebbe essere un addizionale pegno di quel significativo intento di pace: un cubo smussato di pietra tendente al verde, probabilmente costituito da nefrite o serpentina, del peso di una tonnellata circa e 69 cm di lato. Qualcosa che potrebbe o meno collegarsi al presunto potere mistico di ambo le tipologie di pietre, nei tempi antichi considerate da talune culture come in grado di arrecare guarigioni da svariate malattie, o la credenza folkloristica secondo cui tale implemento potrebbe contribuire alla realizzazione di qualsiasi tipo di desiderio. Ancorché appaia altrettanto plausibile l’ipotesi secondo cui l’oggetto potrebbe essere stato inviato come pegno da parte del signore del Nilo in persona, che a sua volta potrebbe aver ricevuto un dono simile dai suoi vicini che venivano in tal modo legittimati. D’altra parte nessuno studioso dal curriculum accademico degno di nota, a partire dall’inizio degli studi ittiti verso il concludersi del XIX secolo, sembrerebbe essersi espresso sull’argomento, essendo il materiale della pietra non così difficile da reperire nel contesto minerario della Turchia, né sufficientemente ponderoso da rappresentare un mistero dal punto di vista logistico e dei trasporti. Rappresentando in tal senso, nient’altro che l’ennesima testimonianza nel contesto di un sito chiave come quello di Hattusa, concettualmente indistinguibile dai numerosi possibili plinti monumentali o perché no, seggi temporanei per i praticanti di diverse possibili ritualità religiose. Ancorché resti necessaria sottolineare la distinzione estetica della pietra da ogni altra situata attorno, tale da aver suscitato nel corso dei secoli numerose teorie collaterali, senza contare i folkloristici pellegrinaggi condotti da coloro che speravano di ottenere un qualche tipo di concessione dall’antico, ponderoso simbolo smussato dal loro tocco attraverso innumerevoli generazioni pregresse. Il che, se non altro, ha salvato da un destino simile le altre imponenti e maggiormente documentate testimonianze di un’epoca ed un luogo, che potremmo individuare come uno dei primi esempi di ambiente metropolitano nella storia dell’uomo…

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AA Minotauro cercasi, per cerchio labirintico che ha fermato il cantiere dell’aeroporto

Il sommo Zeus nella propria gioventù divina presentava un’immagine sensibilmente diversa da quella a cui siamo il più delle volte avvezzi. Nessuna lunga barba bianca, niente fulmine lampeggiante stretto nella mano destra, e soltanto un mero accenno dell’infinita tracotanza e hubris di una personalità ormai compromessa dal potere senza limiti di vita e morte su ogni essere, compresi gli immortali dell’Olimpo superno. Ciò detto, non gli erano del tutto estranei gesti di assoluta magniloquenza e miracoli di vario tipo, come quando liberatosi dalla minaccia di essere fagocitato dal padre cannibale, decise di cercare sua madre Era per manifestargli opportuna riconoscenza. Ed affacciandosi dalla più alta rupe, alzò entrambe le braccia, inviando in direzioni contrapposte altrettante aquile reali, specialmente addestrate e condizionate a compiere il suo volere. Narra dunque una leggenda che i maestosi volatili, avendo compiuto individualmente un mezzo giro del pianeta, avessero finito per incontrarsi agli esatti antipodi della sua posizione (già: contrariamente allo stereotipo, i Greci erano perfettamente a conoscenza delle forma sferoidale di questo corpo celeste). Ed ivi Zeus, discendendo dal suo carro magico, avesse decretato che fosse costruito un santuario dalla forma circolare, il quale venne definito dai mortali dei secoli a venire con il nome di Omphàlio Pedìo ovvero, l’ombelico della Terra.
Ecco, dunque, il problema: giacché forse l’avrete notato, gli ombelichi hanno una forma tondeggiante. E l’architettura del Mondo Antico, in modo particolare quella dell’Attica e del Peloponneso, non era certo avvezza a costruire strutture dalla pianta tanto problematica, considerate le problematiche di lavorare senza i mezzi tecnologici ed ingegneristici dei loro successori, anche spostandoci in avanti soltanto fino all’epoca dei Romani. Con appena un paio di esempi connotati da siffatta forma, nel famoso edificio ellittico di Hamaizius e il palazzo ciclopico proto-ellenico di Tirinto. Immaginate dunque la sorpresa, e l’iniziale senso di smarrimento, vissuto all’inizio di questo giugno dagli operai incaricati di gestire la costruzione del nuovo aeroporto militare dell’isola di Creta, il Kasteli LGTL, quando gli scavi per la costruzione della torre radar sopra la collina di Papoura iniziarono a rivelare la circonferenza di qualcosa di misteriosamente configurato attorno ai 1.800 mq d’estensione, ma altrettanto innegabilmente, antico più di qualsiasi altra cosa avessero incontrato nel pregresso svolgimento delle proprie mansioni. Fatta eccezione forse per l’ultimo anno e mezzo di tribolazioni presso gli immediati dintorni di Heraklion, durante cui è stato portato alla luce un gran totale di 25 siti archeologici di varia natura ed importanza, richiedendo ogni singola volta il coinvolgimento delle autorità ed il ministero della cultura, onde procedere alla messa in sicurezza o rimozione dei manufatti. Ma come comportarsi quando la natura ed estensione del ritrovamento esula, come in questo caso, dall’opportunità di catalogazione e rimozione tramite l’impiego di metodi ampiamente collaudati da queste parti?

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Arcobaleno di una torre di maioliche, ovvero la maestà del Buddha nell’alto castello

Notevole prodotto dell’architettura dell’Estremo Oriente, le pagode rappresentano un’evoluzione dello stupa indiano con sviluppo verticale aumentato, dotate di funzione rappresentativa non del tutto dissimile dalle torri campanarie delle nostre chiese o cattedrali. Dal Giappone alla Thailandia, dalla Cambogia alla Birmania, ciascuna di esse costituisce la rappresentazione ideale di un modo idoneo ad onorare Dei, Buddha e Bodhisattva, o in casi più rari offrire un mero punto panoramico ai visitatori di un sito turistico o centro commerciale. Ben pochi luoghi in tutta l’Asia, d’altra parte, possono vantare il profilo iconico e l’aspetto impressionante della torre a padiglioni sovrapposti di Feihong, facente parte del complesso religioso dell’antico tempio di Guangsheng. La cui costruzione riesce ad essere talmente antica, con datazione acclarata al nostro 147 d.C, ovvero il primo anno di Jianhe, che all’edificazione dell’attuale edificio nel corso della dinastia Ming le sue iterazioni precedenti erano state già distrutte, e ricostruite almeno una mezza dozzina di volte. A partire da quando l’Imperatore Huan, 27° della dinastia degli Han, optò di celebrare la spiritualità del regno poco dopo il proprio accesso al trono, costruendo un luogo di venerazione e insegnamento nei dintorni montani della città di Linfen, nella provicina dello Shanxi. Dal che nacque il tempio allora chiamato di Ashoka, in quanto vi veniva venerato il sovrano indiano dell’Impero dei Maurya che aveva ricevuto la benedizione del Buddha storico, assieme ad altre manifestazioni del supremo protettore e ispiratore della collettività umana. Tra sale superiori, inferiori ed almeno una singola torre a tamburo, che si rivelò più volte insufficientemente solida per poter resistere ai frequenti terremoti della regione. Questo almeno finché in epoca molto più recente, durante il  decimo anno di Zhengde della dinastia Ming (1515) il monaco Darian supervisionò all’edificazione di un edificio dal concetto e fondamenta particolarmente sofisticate, la cui solidità si sarebbe rivelata in seguito del tutto esemplare. Il suo nome sarebbe diventato quello di pagoda Feihong, con riferimento a una pronuncia alternativa del suo stesso nome che scritta in maniera differente (飞虹) poteva acquisire il significato altamente poetico di “Arcobaleno Volante”. Per una ragione facilmente motivabile costituendo tale sito una delle quattro pagode antiche della Cina nonché uno splendente esempio della tecnica di rivestimento con maioliche smaltate di un edificio, utilizzate non soltanto al fine di proteggere la struttura in legno interna ma anche ornarla con statue, figure e immagini variopinte collegate alle storie della religione del Dharma. Così che alla luce diretta del sole, colpita con la giusta angolazione dai suoi raggi, può vantare una colorazione che vira dal blu al bianco, all’ocra, al marrone, al verde, giallo e nero. Diventando l’equivalente di un faro alto 47 metri, verso la rotta che può e dovrebbe condurre all’illuminazione…

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La capitale dell’intaglio giapponese e il tempio che ne custodisce l’origine remota

Il Buddhismo viene spesso definito da un punto di vista storiografico e analitico in Estremo Oriente come un culto delle immagini e visitando un tempio di tale fede non è in alcun modo complicato comprenderne la ragione: statue, dipinti ed altre manifestazioni artistiche, dalle dimensioni private a quelle monumentali, si affollano nel ritrarre Colui che mostrò al mondo il modo per raggiungere l’Illuminazione. E lunghe schiere di profeti, santi, Bodhisattva, assieme a bestie mitiche e guardiani della fede. Se c’è un luogo dove tale tendenza alla manifestazione tangibile degli aspetti esteriori può aver raggiunto l’apice, tuttavia, esso può essere identificato come il tempio Zuisenji della città di Nanto, prefettura di Toyama. Da non confondere col sito omonimo situato presso l’antica Kamakura, centro del potere per il primo shogunato giapponese, laddove il collegamento di tale istituzione con una fonte centralizzata del potere venerabile, se presente, può essere piuttosto riferito alla contrapposta Kyoto. Dal cui potente Hongan-ji, a partire dal 1602, venne stabilito uno stretto collegamento ed interscambio di risorse sacerdotali, fino all’invio oltre un secolo e mezzo dopo della figura di un artigiano che avrebbe, da solo, caratterizzato il senso e principale esportazione di un’intera regione. Con riferimento all’intero sobborgo di Inami, borgo medievaleggiante ove gli odierni visitatori giungono a percorrere una strada principale fiancheggiata da antiche botteghe, ciascuna delle quali priva di vetrina bensì aperta per mostrare un maestro e i suoi discepoli al lavoro. Mentre creano, con il proprio favoloso repertorio di strumenti, immagini e oggettistica raffiguranti soggetti religiosi o mitologici, se non la semplice bellezza della natura, utilizzando sempre ed esclusivamente l’umile legno delle folte foreste antistanti. Applicando in modo attento, così come avevano fatto i propri antenati, il pregevole insegnamento di Sanshiro Maekawa, il cui lascito artistico può essere ancora ammirato tra le sacre mura di cui sopra, che al tempo della sua venuta erano state (per l’ennesima volta) distrutte dal verificarsi di un grande incendio. Questo rapporto privilegiato con i materiali da costruzione di origine vegetale, fortemente incoraggiato da ragioni filosofiche ma anche le costanti problematiche di un paese dal rischio sismico evidente, fu da sempre in Giappone all’origine di occasionali e reiterati disastri. Ulteriormente peggiorati, nel caso dello Zuisenji, dalla sua appartenenza pregressa ad una delle cosiddette leghe Ikko-Ikki, le organizzazioni di monaci militarizzati che durante il periodo Sengoku delle guerre civili (1479-1576) giunsero infine ad essere messe sotto assedio e dissolte dai principali rappresentanti del potere samurai costituito. Così che Oda Nobunaga stesso, primo dei tre grandi unificatori del paese, diede l’ordine di bruciare per primo il secolare edificio. Ed ancora questo avvenne, almeno altre due volte, prima che tornasse la pace. Per cui fu giudicato particolarmente terribile, ed al tempo stesso meritorio di una significativa risposta, quando nel 1763 il tempio arse di nuovo, questa volta per ragioni accidentali coadiuvate dai venti forti provenienti dalle regioni costiere, chiamati per l’appunto Inami-kaze. Il che avrebbe portato all’atipica costruzione, in questo contesto, di un alto muro in pietra di protezione, ed al tempo stesso alla venuta di colui che avrebbe ricostituito lo splendore inusitato totalmente degno di un tale luogo…

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