La musica di Tetris cantata senza strumenti

Smooth

Quanti riquadri definiscono la storia del videogioco? Troppi per essere contati. Visibili: migliaia di pixel in matrice, gaiamente disposti sugli schermi dei monitor e delle TV; nascosti: circuiti nanometrici d’innumerevoli processori, come fossero cellule organiche eucariote, ciascuno delegato ad una specifica funzione. Inaudibili, sonori e… Poi ci sono i primi attori. Perché c’è pure il caso che tanta tecnologia, geometricamente suddivisa, in ultima analisi non serva che a produrre degli altri cubi cosmici, fantastici quadrati ed eroici parallelepipedi. L’uno dentro l’altro. Riproposizione ludica del concetto di una matrioska: Tetris. Altrettanto russo. Questa straordinaria invenzione del matematico moscovita Aleksej Pažitnov, che negli anni a partire dal 1984 è diventata l’antonomasia del concetto stesso di rompicapo digitalizzato, semplice da comprendere eppure arduo da padroneggiare. Lui non pensò a brevettarlo, forse perché allora non si usava, oppure come suo gesto di generosità verso l’intera popolazione planetaria. Così tutti ebbero modo di metterci le mani, in un modo o nell’altro. Dozzine di versioni coin-op (a gettoni) praticamente identiche l’una con l’altra, seguite da conversioni non autorizzate per PC IBM, Spectrum, Commodore 64, Nintendo NES…Quest’ultima compagnia giapponese poi, tanto attenta al suo stesso diritto d’autore, senza neanche un grazie ai vicini siberiani, di Tetris ne fece il suo successo più immortale. Tutto inizia nel 1989, con la singola console per videogiochi più importante della storia. Stiamo parlando, ovviamente, del primo Game Boy. A Kyoto sapevano bene l’importanza di quanto stavano per scatenare nel mondo. Il primo dispositivo portatile che andasse oltre le sue stesse limitazioni, con grafica fluida, una buona autonomia, ottima visibilità dello schermo e 8 generosi bit di potenza. Mancava soltanto un gioco simbolo, la cosiddetta killer-app.

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Se incontri un bufalo nella foresta,

Buffalo

Se incontri un bufalo nella foresta del parco di Yellowstone, amico guarda meglio, quello non è un bufalo è un bisonte. L’animale più grande del continente americano. L’animale più grande del continente europeo. Quell’essere che ricorderebbe molto da vicino una mucca, soltanto che è lungo 3 metri, alto 1,90, pesa fino a 900 Kg, ha i quarti posteriori di un cavallo purosangue, il davanti di un grizzly e degli ottimi motivi per portare risentimento verso l’intera razza umana. Ah, si, anche un paio di corna, piuttosto mediocri rispetto all’enormità di tutto l’insieme. Nessuno mai ci pensa, a quel paio di piccole corna diavolesche, potenziale segno di riconoscimento e classificazione. Meno di tutti, forse, gli scopritori del vecchio West, coloro che, viaggiando sui loro carri lungo la pista dell’Oregon, di queste creature ne lasciarono un’esanime scia, tanto lunga da poter collegare gli estremi limiti di un continente. Loro, i pionieri mormoni in fuga dalle discriminazioni delle colonie inglesi, non andavano granché per il sottile, né del resto lo facevano i soldati delle compagnie mercenarie, pagate per fornirgli cibo e protezione dagli “indiani”. Passati erano i tempi in cui le popolazioni semi-nomadi delle americhe sfruttavano quelle antiche mandrie con giusta moderazione. L’eroico Buffalo Bill, forse il più grande cacciatore della storia, si vantava di averne uccisi, lui soltanto, circa 4000. Gli alti cumuli dei loro crani bucefali marcavano la posizione dei campi recentemente arati, come materia prima per far da concime. Certi dagherrotipi, visti ai giorni nostri, ricorderebbero più che altro le copertine fantasy di Frank Frazetta con il mefistofelico Death Dealer, rimpiazzato per l’occasione da un cowboy, ugualmente trionfante sulle spoglie defunte dei suoi molti barbarici nemici. Se soltanto li avessero guardati due volte, prima di sparargli, non li avrebbero chiamati bufali. Avrebbero probabilmente notato quanto diversi fossero nell’aspetto dai bovidi della tradizione europea, i cosiddetti “tori lunati” dell’Eneide e della Teseida di Boccaccio. Niente puntuta luna sulla testa…Ma quelli erano tempi difficili e con il bisonte c’è poco da scherzare: l’animale che era e resta tutt’ora più pericoloso dei puma, degli orsi bruni e dei lupi messi tutti assieme. Statistiche alla mano, s’intende!

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Il re dei cobra fatti con la carta

ShikigamiNoMai
Via

Matthieu Georger, alias Shikigami no Mai, realizza questi incredibili origami di animali, insetti e creature mitologiche. Il suo cobra reale, così credibile da sembrare pronto a colpire da un momento all’altro, è frutto di un singolo, lungo foglio di quei fazzolettini che fuoriescono dalla scatola di cartone, strotolati strappandoli volta per volta, in base alle esigenze. Non c’è spreco, con questa tipologia di prodotti; salvo insospettabili eccezioni. Pensate, per esempio, alla classica carta igienica: soffice, friabile cellulosa dall’apparenza candida e rassicurante. Adesso immaginatevi un dispettoso cucciolo di golden retriever, come quello della pubblicità, che dovesse svolgerla tutta fino in fondo, per il semplice vezzo di affondare i suoi famelici dentini sull’ambìto cilindretto di cartone…Mobili ricoperti, pavimento costellato, un vero disastro. Messo il cane in punizione, vi toccherebbe trovare il modo d’impiegare tutta quella roba. Qualcuno potrebbe farne mummie decorative, altri un abito da sera. Molti, semplicemente, la getterebbero via. Non così questo abile creativo dal soprannome misterioso, potenziale fan del manga o del cartone di Naruto. Piegando quella delicata materia su se stessa, più e più volte, quasi fosse una katana, giungerebbe in qualche modo a un tale spaventoso rettile, sovrano scaglioso di tutti gli esseri striscianti.
Il cobra reale, fra i pochi animali a vedersi attribuire questo prestigioso appellativo, è il serpente velenoso più grande al mondo. La sua stazza, oltre i 3 metri di lunghezza, gli consente di essere un ophiophagus, ovvero mangiatore di altri serpenti. Per lo meno, quelli meno rapidi di lui. Certo messo lì, sul tavolo da pranzo, anche ridotto in scala, di sicuro farebbe la sua gran figura. Un centrotavola degno di Cleopatra. E soprattutto, visto l’aspetto spaventoso, dovrebbe scoraggiare eventuali terremoti a quattro zampe. Per i primi tre minuti (?)

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La sfilata danzante dei pidocchi mordilibri

Psocoptera

Prendersi le pulci è sempre un’ottima esperienza, per le pulci. Decisamente meno piacevole risulta esserlo dall’altro punto vista, quello dei sanguigni fornitori di materia di scambio utile per l’operazione, i nostri cari cani, i gradevoli gatti, gli ubbidienti topi e noi stessi, i sempre incolpevoli esseri umani. Se fin dalle nebbie di epoche remote lo schema naturale delle cose ha previsto l’esistenza di esseri parassiti, risucchiatori dell’altrui linfa vitale, non per questo dobbiamo farne ragione di pubblica esultanza. Nessuno manifesta per le strade il proprio apprezzamento per le fameliche zanzare, per il cuculo che getta uova meno fortunate fuori dal nido, per la vespa che introduce, abusivamente, larve dentro al formicaio preannunciando un cataclisma. E affiliato a tutti questi spietati malandrini, almeno dal nostro punto di vista, potrebbe dirsi la psocoptera, l’insetto mordilibri. Ce ne sono parecchie varianti, così tante che gli esemplari relativamente simili, considerati come appartenenti alla stessa specie, possono avere o meno le ali, presentarsi con un torace di forma variabile ed essere ricoperti, oppure no, di una fitta peluria microscopica. Lo stile di vita da loro scelto, comunque, li suddivide in due brigate ben distinte: quella domestica, dei mordilibri propriamente detti, e la controparte arboricola, semiselvaggia. La scelta linguistica per definirli, diversa fra l’Italia e gli Stati Uniti, dove per antonomasia sono tutti chiamati tree cattle (mandrie degli alberi) rispecchia la maggiore presenza dell’uno piuttosto che dell’altro gruppo, qualora si prenda in analisi ciascuna delle due regioni. La motivazione per un tale appellativo è presto detta: il video soprastante dimostra il comportamento difensivo di un piccolo gruppo di questi artropodi sopraffini, sorpresi mediante l’uso di una luce artificiale, mentre furtivamente percorrevano il muro di una casa. Forse cercavano nuove fonti di cibo. L’effetto visuale è sorprendente. Con fare ritmico e scattoso, l’improvvisata squadriglia disegna forme battagliere, cercando in qualche modo d’intimorire l’avversario. Sembrano subito uno stormo d’uccelli, oppure un gruppo di piccoli pesci, cui siano magicamente spuntante tre pratiche paia di zampe. Perché lo fanno è chiaro; come, decisamente meno. Ed è forse proprio per questo che la scena risulta tanto accattivante.

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