Il tavolo che sboccia come un fiore

Capstan Table

Spazio: ultima frontiera. Nelle sale di vascelli stellari lanciati verso l’infinito, come pure tra le mura della nostra casa. Purché il tavolo, luogo dell’incontro conviviale, non si riveli troppo piccolino.
Purtroppo, c’è un limite all’ingombro consono per la mobilia. Pensiamo all’USS Enterprise, l’astronave che fu data in concessione, non senza rammarico, dal capitano Kirk al capo calvo degli X-Men. Porte a scomparsa, corridoi ariosi, un ponte di comando scarno, con qualche comoda poltrona e giusto un paio di pannelli luminosi. Persino gli ufficiali, in un’alta percentuale di puntate, finivano per stare in piedi. Davvero il futuro dell’esplorazione cosmica, nell’immaginario collettivo, si rivelava minimalista e razionale. Anche a pranzo, specie in questi giorni, quello Spazio diventa una risorsa ricca di opportunità. “Cosa? 10, 15 invitati dentro a casa mia? E dove li metto?” Se avessi tanti posti a tavola, non mi resterebbe dove cucinare, pensa l’anfitrione. Ben sapendo che ci sono soluzioni temporanee. Può ad esempio prendersi dei cavalletti; traballanti trespoli e treppiedi; tirare dentro qualche tavolino da esterni, magari mezzo arrugginito, da coprire attentamente, con l’intonsa e candida tovaglia. Troppo facile!
Questa è la fondamentale differenza, fra gli uomini terricoli e i fieri capitani di un’imbarcazione: poter contare sui rifornimenti nell’attimo cruciale di una grande cena. Non puoi far legna in mezzo al mare, allo scopo di erigere più lunghe tavolate. Quindi, durante un viaggio transoceanico, sperduti fra le onde burrascose, potreste un giorno ritrovarvi a ringraziare questo progettista inglese, David Fletcher, il fondatore della Fletcher Burwell-Taylor, ltd. La sua splendida creazione, che periodicamente riesce a fare il giro di mille/duemila siti web, è un tavolo da yacht, che si allarga all’occorrenza. IL tavolo. Si tratta di un oggetto che comunque, per sua stessa natura, può adattarsi ad ogni ambiente di ridotta metratura. Possibilmente circolare. La particolarità più significativa, come per un’automobile di lusso, non è l’aspetto (assolutamente notevole) ma il meccanismo che lo muove. E quello che può fare.

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L’ardua filastrocca della torta di rabarbaro

Rhabarberbarbara

Avete mai assaggiato il gusto asprigno del rhabarberkuchen? Quando mangi un piatto di paesi stranieri non è sempre facile capire gli ingredienti. Città in cui vai, sapori che trovi. Il cherpumple ad esempio, follia culinaria tipica dei ristoranti della Costa Ovest degli Stati Uniti, è un dessert natalizio multistrato che ricorda, per certi versi, il gioco delle scatole cinesi. Al suo interno, come tributo al maestoso tacchino-cum-anatra/pollo del Ringraziamento (l’altrettanto celebre turducken) il cuoco non mette un sola cosa, nossignore, ma ben tre: dolce di ciliege, torta alla zucca e l’immancabile apple pie. Quale fantastica dimostrazione d’efficienza! Piuttosto che farti mangiare un pasto diviso in serie di portate, perdendoci le ore, hanno trovato il modo di ridurre al minimo il rapporto fra tempo e calorie. Il processo della nutrizione, in fin dei conti, non è altro che un preciso meccanismo. Seduti a certi tavoli, sospinti dai limiti temporali della pausa pranzo, diventiamo spesso come metaforici orologi, degli androidi in sosta presso appetitose pompe di benzina. Ed è infatti la prima regola non scritta dell’ingegneria, questa qui, che i risultati siano perseguibili in due modi: per esteso, ovvero separando in serie le difficoltà (primo, secondo, dolce…). Oppure fagocitandosi un cherpumple, fino ad intercorsa sazietà. Ti vorrei vedere, a chiedere la pizza, dopo una cosa come quella!
La stessa situazione, tanto per non allontanarci dalle regioni della bocca, si ritrova nell’umano idioma della comunicazione. Ci sono parole che ne contengono dozzine. Tutti conoscono, del resto, il mito dell’ingegneria tedesca.

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Un cilindro verdeggiante nello spazio

Rama

Per centinaia o migliaia di anni, sperduti nello spazio, fra mura impenetrabili e sospinti da un reattore poderoso, gli esseri umani sopravviveranno in mezzo al vuoto. Non sarà facile, ma necessario. Perché i tempi dell’esplorazione interstellare, secondo le acclarate leggi della fisica, sono destinate ad andare ben oltre l’immaginazione. Basta puntare in giro un telescopio! Le stelle con pianeti degni di ricevere attenzioni umane, potenziali ambienti abitabili o abitati, sono lontane, praticamente irraggiungibili. Mille miliardi e centomila parsec di aridi deserti, distanze oscure e tempestose. Un oceano senza isole ma buchi neri, un tremendo labirinto privo d’uscite… Servirebbe l’ausilio di una soluzione letteraria, in pieno stile deus-ex-machina. L’iperspazio, i wormholes, la criogenica o la trascendenza delle menti? Tutto può essere, in futuro. Ma tali soluzioni, nonostante l’entusiasmo visionario dei filosofi narranti, non sono poi così probabili; ebbene, molto diverso sarebbe un approccio come questo. E non è un caso: Chaîne de ebruneton, che l’ha raffigurato al computer con il software 3Delight, si è basato (liberamente) sui lavori di uno scrittore fantascientifico che risultava essere, fra tutti, forse il più concreto. Già saprete di chi stiamo parlando. Arthur C.Clarke, l’autore del secondo più famoso romanzo di fantasia da cui sia stato tratto un film, Odissea nello spazio (1968) nonché di quello più bello, ingiustamente mai finito sopra il grande schermo: Incontro con Rama (1972). C’era uno spirito d’avventura, un senso di scoperta, in tali semplici storie, che oltrepassava i limiti remoti della mente.
Immaginatevi la situazione: nel 2130, i radar installati sul pianeta Marte – giusto 500 giorni di distanza, che vuoi che sia? – rilevano un’oggetto gigantesco e velocissimo, con una rotta che lo porterà a sfiorare il nostro Sole. Tutto il mondo guarda verso l’alto, trepidante, mentre con il passar dei giorni si scopre l’impossibile. Che non si trattava di un comune asteroide, ma di un’enorme struttura artificiale, dalla forma cilindrica e curiosamente regolare. Forse abitata da qualcuno. O qualcosa…

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La leggenda del cubo viaggiatore

Cubli

Naturalmente privi del vincolo della necessità, i robot sono liberi di assumere le forme più impensate. Grandi come montagne, striscianti come lombrichi, alati e con gambe di cavallo, pieni di lampadine colorate, oppure invisibili alla vista, percorrono le cronache dell’oggi e del domani. Hanno una caratteristica, su tutte: la riproduzione attraverso generazioni discordanti. Da cane nasce cane, per lo più, generalmente dello stesso tipo (razza) – ma da cosa, ebbene, può nascere ogni cosa; così arriva, rovesciandosi, questo cubo deambulante, prodotto nel politecnico federale di Zurigo. Che ha un solo padre, ma molte madri. Si fa per dire. Il principale creatore umano è Gajamohan Mohanarajah, studente in attesa di PhD, largamente consigliato e supervisionato dal suo relatore Raffaello d’Andrea, professore di Sistemi Dinamici e Controllo, nonché co-fondatore della Kiva Systems, un’azienda di cui abbiamo parlato precedentemente, proprio in questi lidi. Ma il vero genitore di un automa sarebbe l’artefice diretto, piuttosto che il predecessore concettuale, il papà-drone, la mamma-droide?  E soprattutto, chi mai potrebbe partorire un cubo? Giusto la terra stessa, con i suoi cristalli di pirite…
L’impossibile creatura del video soprastante, denominata Cubli – contrattura bi-lingue tra l’inglesismo cube e una desinenza diminutiva usata nel Cantone svizzero tedesco – costituisce una ragionevole approssimazione del secondo solido platonico, con 15 cm al vertice, di lato e in diagonale. Ad un secondo sguardo ci si accorge, tuttavia, che al suo interno c’è di tutto. Processori, batterie, motorini elettrici ed accelerometri, per fargli sapere sempre in che posizione è stato messo. E soprattutto, come gran finale, un coreografico trio di volani, della tipologia specifica chiamata reaction wheelQuesti ultimi, roteando vorticosamente, accumulano l’energia cinetica di un moto potenziale, poi si bloccano d’un tratto. Ed è allora, che il cubo si alza in piedi.

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