Come trasportare 30.000 tonnellate

Dockwise Blue Marlin

Quando abbocca un gigantesco tonno pinne blu, tra le alte onde dell’Atlantico del Nord, i pescatori fanno festa pregustando un facile guadagno. Con ottime ragioni: questo pesce è l’argentovivo dei migliori sushi-bar, che fin dagli anni ’60 hanno preso a prediligerlo fra le diverse alternative. Vale una fortuna! Penseranno, riavvolgendo freneticamente il mulinello. E se invece il galleggiante al traino della loro imbarcazione, persa nel tramonto del Mar Ligure, dovesse muoversi soltanto un poco e senza convinzione, allora già sapranno che si tratta della spigola, un pesce poco combattivo e diffidente. Fondamento, ad ogni modo, di parecchi piatti prelibati. Pian pianino, per non farla spaventare, agiteranno ad elica la loro esca, per poi strattonarla, d’improvviso, con la forza di un tirannosauro sanguinario. Ma nelle fasce tropicali degli Oceani  Indiano e del Pacifico, come pure nei Caraibi, talvolta, può spuntare fuori il marlin blu, santo Graal degli sportivi con la canna.
Questo particolare omonimo del combattente pinnuto raccontato da Hemingway ne “Il vecchio e il mare” è lungo 206 imponenti metri, però può immergersi per 13, soltanto. Non è un pesce ma un nave, e per inciso, di un tipo assai particolare. Ha 2712 BHP di forza propulsiva, che usa a ritmo sostenuto, senza fare soste, mentre migra dalla Cina fino al porto della suggestiva Rotterdam, patria della filarmonica d’Olanda. Per portare a compimento la consegna, al ritmo degli ottoni e delle viole, di tre pontoni galleggianti e di ben diciotto chiatte, pensate apposta per i fiumi dell’Europa. Ma fabbricate all’altra parte del Capo di Buona Speranza, che un tempo mieteva vittime tra i più possenti galeoni. Vecchi ricordi, oramai. Merito della moderna ingegneria, come pure della visione di chi mette in acqua cose come queste: la compagnia Dockwise delle Bermuda, il cui motto è: “Creare valore, realizzando l’inconcepibile.” Una missione niente affatto facile. Adatta, dunque, per la classe di navi da trasporto semi-sommergibili dal nome di MV Marlin, disponibili in due colori – la nera e la blu. Quest’ultima, che compare nel presente video, risalente al 2012, non fa che dimostrare i meriti della paziente tartaruga…

Leggi tutto

Snowboard che salgono sopra le case

SebToots

Guardate Sebastien Toutant, nato nel 1992, come gira per le periferie della francofona Montréal: piuttosto che percorrerle in discesa, le descrive con il taglio della tavola volante. Ringhiere ringhianti, scalinate, gli spalti di un piccolo campo sportivo, alcuni monumenti con la forma di un declivio di metallo. E sono tanto pratici a grindarli, questi semi-sommersi travi zigzaganti, che quasi sembrerebbero fatti apposta per il suo utilizzo. Parimenti ciascun componente urbano, case incluse, si trasforma per dar sfoggio di una doppia abilità: la sua, di atleta olimpico al confine d’eccellenza, e quella dell’operatore video, colui che, di pari passo, intesse un altro tipo di magia. Quella digitale del montaggio, per togliere le impalcature, i fili della sovversione gravitazionale.
Ci sono sport che danno il meglio sotto l’occhio attento delle moltitudini. Stadi entusiasti, nazioni in festa, grandi sponsorizzazioni, riflettori e troupe televisive dai furgoni con parabole incrociate. Lo snowboarding può fare pure questo, certamente. Chi non ricorda l’iconico Shaun White, “pomodoro volante” dagli Stati Uniti, mentre vinceva l’oro di Torino nel 2006… Il suo trionfo nell’half-pipe, pericolosamente prossimo al punteggio perfetto di 50 cinquantesimi, sembrò ricordare al mondo di una grande verità, all’epoca da molti tralasciata. Che i giovani presunti scriteriati, con una sola tavola attaccata ai piedi, si erano affermati tra la massa degli sport dell’ultima stagione. Come per il surf al mare, come per lo skate delle piscine abbandonate, non può esserci davvero subordinazione culturale, per tali discipline tanto praticate dalla maggioranza. Non posso confermarvi che sia stato quello il cambio generazionale. C’era stato o ci sarà, poco prima o giù di lì: basta fare il conto dei maestri disponibili, ad oggi, sulle tipiche montagne frequentate dal turismo.

Leggi tutto

Ore giapponesi col caimano

Caiman kun

In questo segmento televisivo giapponese viene dimostrata la giornata di un imprenditore con un animale veramente inusuale. Caiman-kun, questo il suo nome, vive placido e sonnolento. Gira a passeggio, incontra i bimbi delle elementari, dorme sotto il tavolo senza mai abbaiare. Chi l’avrebbe mai detto? Non c’è neanche l’ombra di un problema, a vivere con un caimano dagli occhiali.
Per alleviare le dinamiche della frenetica vita moderna, nulla supera un amico a quattro zampe. Ciò vale in ogni luogo, per qualunque popolo e cultura, benché il contesto voglia sempre avere la sua parte. In Giappone, lo spazio relativamente limitato delle abitazioni negli spazi urbani, i molti impegni di lavoro, nonché un senso di responsabilità verso il proprio status pubblico e privato, porta spesso a scegliere animali domestici piccoli, compatti e indipendenti. Come il rossiccio shiba inu, quel cane di recente asceso nell’Olimpo dei più amati personaggi internettiani. C’è però un problema, particolarmente sentito in quel paese, molto più che altrove: come calibrare la durata della vita dell’amato beniamino, allo scopo di evitare spiacevoli sorprese? È spesso capitato, ai proprietari di un qualunque gatto giapponese, che questo sia vissuto troppo a lungo. C’è una precisa gerarchia di gravi conseguenze, in tutto ciò. Un po’ come per i gremlins.
Ecco, dunque, diciamo che il vostro micio sia vissuto fino ai 10 anni. Non è affatto raro e poi, comunque, a quel punto l’animale sarà diventato vostro amico. Niente paura. Il comune felis silvestris non è come la volpe malefica ninko, che assume a piacimento le sembianze degli umani per causare gravi inconvenienti, né del resto mostra i vizi dell’incorregibile tanuki, cane-procione dai testicoli giganti, famoso per il modo in cui trama imbrogli ai danni degli incauti viaggiatori. I gatti non fanno passare foglie d’acero per banconote. Né mai potrebbero…Almeno fino a quel traguardo, della decima primavera. Perché allora gli si biforca la coda e diventano dei nekomata, spiriti sciamanici pericolosi. Quando i morti camminano nel buio della notte, risorgendo barcollanti dalle tombe, la causa non è il virus degli zombies. Molto più facile che il gatto ci abbia messo lo zampino. Ma il peggio avrebbe ancora da venire. I nekomata sono longevi, molto più del proprietario. E quando questo muore, diventano dei mostro-gatti, ovvero bakeneko.

Leggi tutto

Lettera d’あmore dal Giappone

Kenta Watashima

Come abbaìno, abbruciacchiato, allofono ed affranto. Chi ha avuto, ha avuto, aha, voluto. Mai dato, solo ricevuto. AAAaah come Arduino d’Ivrea, coraggioso Re d’Italia verso il primo volgere di un’era millenaria. Che rivive casualmente nell’idea, oltremodo interessante, di un’artista d’altre terre, d’altromondo: Kenta Watashima, programmatore. Vuoi scoprire la ragione? Sarà un lungo viaggio. Per prima cosa, traccia il segno della croce sopra un foglio, però inclina il tratto verticale verso destra. Quindi, muovi il tuo pennello in una virgola parecchio generosa, che giunga lietamente fino alle sue estreme conseguenze. Tonda come il sole, vasta quanto il mare. Possa ricordare un’alfa col cimiero, questo simbolo che viene dal Giappone. Ma non è un grecismo, nossignore: così comincia una scrittura fatta dalle foglie. Metti che un popolo guerriero proveniente dalle steppe della grande Asia, avesse costruito dei tumuli sull’arcipelago del regno di Yamato. Pieni di tesori nazionali. E diciamo pure che costoro, stanchi di dover tracciare gli ardui simboli di un alfabeto troppo arcano, per ipotesi, avessero deciso di semplificarli. Quando questo avvenne, non è chiaro: forse intorno al quinto secolo, oppure poco dopo. La risposta è tutta nella datazione di una spada. L’arma del guerriero Wowake, che gli amici usavano chiamare, per far prima: Ōhatsuse-wakatakeru-no-mikoto. Altro che: “d’Ivrea”.
Costui ebbe a ricevere un bellissimo sepolcro presso l’odierna prefettura di Saitama, con il beneplacito del gran signore Waka Takiru, uno dei protagonisti degli annali mitici del Nihon Shoki. Sia chiaro come fossero, tali testi coévi, tutti scritti nella lingua classica importata dalla Cina. Così era l’usanza, nulla più. Finché proprio quel guerriero, giusto sul volgere di un grande giorno, ricevette in dono un’arma in ferro e magnetite meteoritica, la spada che oggi chiamano col nome del suo tumulo: Inaryama. Che fu scavato solamente nel recente ’68, scoprendo, con somma meraviglia, come sulla lama fosse inciso un lungo testo descrittivo. Scritto in lingua puramente giapponese (infine!) Con un metodo che viene detto: man’yōgana. Tale sistema corsivo, basato sempre sui caratteri del continente, li allegeriva però dal significato originario. Dunque, alla dicotomia di un carattere=una parola, a partire da quel giorno, se ne affiancò un’altra; in cui una lettera, da sola, poteva voler richiamare: una sillaba soltanto. Ah! Ah!

Leggi tutto