Lo spietato dedalo sotto la città di Odessa

Odessa Catacombe

La luce del flash illumina, per un miserevole secondo, la natura e il senso della situazione. Siamo a casa di Anatoli, Borys, Ivan o Lyudmila. Fate voi. Purché si tratti di un qualunque abitante della quarta città dell’Ucraina per popolazione, sita sulle sponde del Mar Nero: questa luminosa, turistica, termale ed apprezzata Odessa, dal clima temperato, gli alti palazzi e splendidi musei. Con un cuore e un’anima, tuttavia, perdute agli occhi degli umani. Dove finirebbe accidentalmente per trovarsi proprio colui/lei che, nel nostro ipotetico scenario, avesse un’improvvisa voglia di ristrutturare la cantina. Forse per una ritrovata passione per i vini, la ragione per l’acquisto di tante preziose bottiglie. Bisognose del silenzio e della protezione della Terra. Oppure, per dare spazio alle nuove attrezzature ginniche, da collocare ben lontano dalle stanze in cui si fa vita sociale. Onde pedalare, o correre, in prossimità del nucleo energizzante delle gemme sotterranee, sprone a cancellare le sgradite calorie. Quanti pranzi e cene da bruciare, funghi, verdure e barbabietole! Cominciando grazie al fai da te, così: con un singolo colpo di piccone, dato sulle candide piastrelle della nonna. Aspettandosi soltanto il tonfo sordo del robusto suolo… Da disfare un po’ alla volta, per metterlo da parte e poi portarlo via.
Ma trovando invece, dietro la carriola arrugginita, l’assoluto vuoto dell’annientamento. Una stanza, anzi, un maestoso corridoio nero. La strada perduta e un refolo di vento intriso d’umido lamento; la propaggine, l’ennesima, di un pericoloso killer senza volto, l’assassino di innumerevoli ragazzi incauti, adulti ubriachi, animali domestici: la catacomba più vasta e pericolosa del mondo. Che non solo supera di molto la grandezza del secondo labirinto sotterraneo per estensione (quello di Parigi) ma che potrebbe facilmente unirsi ad esso, se soltanto un impossibile titano chtonio riscavasse, sul giro del minuto, questi tunnel tutti in fila, con un orientamento ben sicuro verso il vento di Ponente. Tale caverna senza fine, infatti, misurerebbe all’incirca 2500 Km di orrida cupezza, attraversando la Romania, l’Ungheria, l’Austria, la Germania e buona parte della Francia stessa. Come le strade di una città di superficie o i neuroni del cervello umano: cose, queste, che tuttavia nascono da progetti ben precisi. Sulle carte urbanistiche di sapienti pianificatori, piuttosto che nel senso logico della naturale evoluzione di chi vive, vegeta o respira. Mentre una cosa tale nasce dal sogno metaforico della Ragione, per citare Goya, che genera creature, o creazioni, degne di essere temute.
L’origine di questa non-città si perde parzialmente tra i refoli di nebbia sui confini della storia. Si sa per certo che nella zona, fin dal XVI secolo, sono esistite numerose cave di preziose pietre calcaree, tra cui un’apprezzata e candida varietà di marmo, quasi paragonabile per qualità al celebre prodotto di Carrara. Ma sempre più rara, col procedere degli anni, costringendo i minatori a spingersi a notevoli profondità. La maggiore espansione delle catacombe avvenne solo successivamente, a partire dal 1794, quando l’imperatrice Caterina II di Russia, in cerca del sempre sospirato porto sul Mar Nero, decretò che venisse costruito proprio lì, sopra i molti materiali validi a metterlo assieme. Sorse dunque in poco tempo, tale proto-insediamento, proprio dalle pietre che sparivano man-mano, fra le varie intercapedini delle robuste fondamenta. A questo modo la città sotto la luce fulgida del Sole, futura metropoli da oltre un milione di abitanti, nel frattempo si guadagnava una sinistra ombra. Il suo riflesso, distorto e metamorfizzato, tra i recessi e le viscere del mondo. Che si rivelò davvero utile, in un triste giorno ancora da venire: come per le sue consimili parigine, infatti, le catacombe di Odessa svolsero un ruolo di primo piano durante la seconda guerra mondiale. I partigiani sovietici, scacciati dalla superficie vi si rifugiarono, armati fino ai denti, sfruttando al meglio ogni singola opportunità di ostacolare il nemico.
In particolare sono note le gesta della squadra operativa di V.A. Molodtsev, i cui membri, rintanati in questi luoghi per periodi di anche 13 mesi, passavano le giornate giocando a scacchi alla luce di lanterne ad olio, mangiavano e organizzavano spedizioni di sabotaggio, e quasi sempre di successo, contro le forze dei tedeschi. Le loro gesta epiche furono lodate personalmente da Stalin e vengono oggi commemorate nel Museo della Gloria Partigiana, a Nerubayskoye, poco fuori Odessa. Proprio qui si trova una delle poche vie d’accesso sanzionate, nonché attentamente recintate, al massiccio labirinto metropolitano. Ma ce ne sono molte altre.

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Nascita di un aeroplano virtuale

CAE simulator

Un uomo è seduto dentro a un uovo bianco dal diametro di qualche metro, in equilibrio su tre zampe, dentro a un hangar bene illuminato. Cosa sta facendo? Dove sta volando? È un 737, quello? Sembra quasi, in quest’epoca di unboxing per partito preso, che le scatole siano diventate più importanti dei loro contenuti. I giovani appassionati di tecnologia che ricevono il pacchetto dal corriere, non lo aprono semplicemente con due colpi di coltello e una sapiente sforbiciata. Niente affatto: pregustano, piuttosto, quel momento splendido dell’accensione, corroborando le meningi con l’accarezzamento del cartone. Documentando, per i posteri digitali, ogni passaggio del complesso disimballo. Le aziende di maggiore fama, ormai lo sanno. E brandizzano appropriatamente ogni lato del contenitore con pomi lucidi, sapienti monogrammi sagomati, lettere maiuscole e argentate. Fa eccezione, l’Ikea. Poiché quello che si presenta ancora da montare, non ha una confezione che sia degna di essere mostrata. Sarebbe, in fin dei conti, anche il frutto delle mani e della mente di chi lo rende infine utilizzabile, direttamente nei locali della propria residenza. Giustamente dunque si presenta, prima di allora come un parallelepipedo semplicemente marrone. Tanto maggiormente ricco di derivazioni nella vera vita vera. Il pilota è nella scatola, dunque. Che sorpresa. E che scatola! Ha un prezzo approssimativo di 16 milioni di dollari, questo sfolgorante nuovo acquisto della compagnia aerea Alaska Airlines, un simulatore full-flight dell’azienda canadese CAE, tra i leader indiscussi del settore, operativa da oltre 50 anni. Qui portato ed assemblato, nel giro di appena tre minuti, grazie all’appassionante approccio del time-lapse. Il gioiello tecnologico appartiene alla serie 7000XR, nota per l’affidabilità, il realismo e l’alto grado di mobilità degli attuatori idraulici che lo sostengono e caratterizzano. Oltre alle scene realistiche messe in mostra sul suo schermo panoramico ad avvolgimento. Atterraggi, decolli, turbolenze, tempeste, tifoni apocalittici. Tutto può succedere nel regno empirico della teoria. Eppure chi non ha sperimentato qualche cosa, avrà difficoltà a figurarsela con l’occhio della mente, nonostante le vivide descrizioni e precise procedure dei suoi testi di studio. Occorre, presto o tardi, fare pratica sul vero mezzo di trasporto. E risulta facile, nel campo dell’addestramento pratico, mettere in atto determinati scenari quotidiani: come un maturando che debba prendere la patente, un pilota può approcciarsi a quelle procedure usuali fin da subito, a patto di avere un istruttore accanto. Non serve neanche il foglio rosa. Ma le situazioni d’emergenza, pericolose per definizione, sono impossibili da sperimentare, senza un vero rischio per chi vive sotto…Proprio per questo, è tanto importante l’informatizzazione dei corsi di volo. Soltanto in questo modo, al momento di conseguire il sospirato brevetto, un pilota potrà aver già disporre di esperienze valide a salvare la sua vita. E assieme ad essa, quella dei suoi molti passeggeri.
Il primo simulatore di un velivolo risale al 1909, quando la compagnia francese Antoinette fece costruire un sistema per far comprendere agli acquirenti il funzionamento del suo nuovo monoplano. Lo strano aereo, infatti, utilizzava un particolare sistema di comando, basato su due ruote, una a destra ed una a sinistra del pilota, per controllare rispettivamente rollio e beccheggio, grazie a poderosi colpi di reni. L’oggetto, simile ad un barile, era montato sopra un perno omnidirezionale, affinché un assistente (bene informato sui fatti) potesse riorientare il tutto sulla base dei gesti messi in atto dall’aspirante, nerboruto pilota. Durante le due guerre mondiali, evoluzioni di questo pionieristico dispositivo furono messe a frutto dalle principali nazioni industrializzate. Il Link Trainer americano, dalla famosa colorazione azzurra, era fornito di sistemi automatici per la simulazione del movimento, perfettamente sincronizzate con i comandi della cabina. Oscurando i vetri della stessa, era dunque possibile mettere in scena una ragionevole approssimazione del volo notturno strumentale.  Di linee sulle mappe, e relative trasvolate, da quell’epoca ne abbiamo disegnate molte. Giungendo, infine, allo strumento della Luce Virtuale.

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La forca e la feluca, la spada e il mare

Messina spada

Sopra l’onde turbolente gridano i gabbiani mentre sotto, silenziosamente, si agita la pinna di un temibile guerriero. Le conchiglie giacciono dimenticate, filtrando l’acque di quel dolce plankton che le nutre. Tutto scorre fin dall’epoca delle quadrate vele, strumento degli antichi marinai. Così facevano i Fenici. Ne cantò l’insigne Omero. E i nonni dei nostri trisavoli, allo stesso modo, muovevano quei lunghi remi. Solo il motore nautico poteva cambiarla e l’ha cambiata, la caccia messinese al pesce spada. Una praxis che si rimescola e dà nuove genesi dal brodo cosmico del tempo: Panta Rei, dicevano i filosofi, osservando la tendenza divergente delle opposte cose, perennemente sottoposte ad infinite mutazioni. Questo non significa che il vasto mare sia del tutto privo di strettoie, angoli ciechi, passaggi dalle insidie occulte, intramontabili e perverse. Dove convergono le anime perdute.
Ogni anno, tra maggio ed agosto, decine di migliaia di creature argentate si avventurano tra Scilla e Cariddi, in cerca di una valida compagna. Sono costoro gli Xiphias gladius, imponenti abitatori di ogni mare temperato del pianeta, con la coda a mezzaluna, la pinna in forma di falce e il naso lungo, aculeato, non dissimile ad un’arma penetrante. Come una lancia, il fioretto degli abissi. Uno strumento che li nobilita e caratterizza, ma che allo stesso tempo, fin dall’alba delle umane civiltà, li rende magnifici e desiderati. Condizione rara per una bestia, nonché di sicuro, tutt’altro che vantaggiosa. Giacché non è per niente insolito, nel corso della loro spedizione, d’incontrare una maestosa ombra, udendo in lontananza un rombo e le parole in greco di un’antico incantesimo di mistiche poesie. Finché d’un tratto, al solenne grido “Viva San Marco” non appare innanzi ai loro grandi occhi il simbolo supremo della Fine: un’asta lunga, con tre più corte nell’estremità anteriore. Il ferro del piscatore, approssimazione ragionevole della fiocina del baleniere. Se pure di Achab ce n’è solo uno, questo non significa che la balena bianca sia insostituibile, nei nostri piatti. Anzi! Già Archestrato di Gela, poeta siceliota del IV secolo, definiva questa carne come cibo degli Dei. Cartesio affermava, raccomandandola agli stomaci delicati, che “[…] Si squaglia in bocca come un’alga e suscita pensieri sia casti che d’amore allo stesso tempo”. E se ancora oggi abbiamo il privilegio di gustarla, in tanti piatti tradizionali ed altre specialità della Sicilia, il merito anche di questa tecnica ereditata dai nostri avi. Basata soprattutto sulla calma e l’abbandono, un apparente tipo di disinteresse che conduce alla vittoria.
Oggi, la caccia si svolge a questo modo: la barca veloce, della tipologia snella ed elegante che viene definita feluca, viene bardata di due interessanti, quanto originali strutture. La prima è un’antenna metallica, alta anche 25 metri, sopra la quale trova posto una vedetta. La seconda è una lunga passerella, leggera e rastremata, al termine della quale sta in agguato un coraggioso cacciatore. Il ragionamento è molto semplice: se tu vedi il pesce, puoi colpirlo. Se lui non ti vede, resta fermo. Che l’uomo possa precedere la propria barca di una distanza equivalente allo scafo stesso, alla natura non potrà essere mai chiaro; a questo modo, dunque, egli scaglia la sua lancia triforcuta verso il basso. E colpisce, molto spesso, proprio quello che voleva. Il seguito è fin troppo chiaro. Trapassato dalle punte a senso unico, da cui è impossibile fuggire, il pesce tenta invano di salvarsi. Più e più volte si inabissa, venendo per ciascuna ritirato in alto. Finché alla fine, con un ultimo colpo di coda, soccombe. Tratto al di fuori del suo ambiente con gli onori normalmente riservati ad un eroe sconfitto, lo spada viene adagiato sopra il ponte dell’imbarcazione. Qui, almeno secondo l’antica usanza, i suoi catturatori tracceranno in prossimità della branchia destra il doppio segno perpendicolare della “caddata dà cruci”, prima di coprire il pesce con un telo, per proteggerlo dal sole. O dagli sguardi lucubranti. Questa antica tecnica di pesca, così lontana dal sentire pratico dei nostri tempi, viene considerata preferibile all’uso delle reti a strascico e degli altri metodi moderni. Prima di tutto, perché non danneggia i preziosi fondali sopra cui si svolge, gemme inestimabili del Mediterraneo. E secondariamente, in quanto lascia alla vittima un piccolo barlume di speranza. Che gli possa in qualche modo, nel momento della verità, scansarsi un po’ di lato. Evitare il proiettile, per nuotare innanzi verso l’orizzonte.

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Nodi che districano le fiamme giapponesi

Pompiere corda

In questa dimostrazione del dipartimento dei vigili del fuoco di Kasuya-Hokubu, presso la città di Koga, prende forma un tipo di spettacolo drammatico e ammaliante: quello di una serie di corde, non così diverse da un moderno e tecnologico guinzaglio per cani, qui trasformate in cobra ammaestrati, così eccezionalmente obbedienti e sibilanti di purezza d’intenzioni. Senza nessun tipo di veleno, né occulta zanna pronta per ghermire. Con le fibre intessute, piuttosto, del fluido salvifico che ha nome Competenza. Rapidamente piegate, intrecciate, manipolate dai protagonisti eroici della situazione pregna. Che è rapida, come la scena culmine di un film hollywoodiano. È corroborata dal maestoso magnetismo tipico dell’animazione giapponese. È magistrale nelle conseguenze. È difficile da accantonare nei recessi polverosi della memoria!
Ha inizio con l’arrivo simulato presso il luogo del disastro divampante: i gelidi pompieri, con già il caratteristico caschetto bianco e la vistosa tuta arancione, si bardano freneticamente con la compatta bombola d’ossigeno e la maschera per respirare. Quindi, senza un attimo di esitazione, l’uno lega l’altro, all’altezza delle sue caviglie. Tale espediente, assai probabilmente, sarebbe utile nel caso in cui le fiamme stessero per sopraffare il collega: circondato da ogni lato dall’eterno nemico dell’umanità incauta, costui, potrebbe ancora contare sul suo valido alleato, pronto a tirarlo fuori da ogni tipo di pertugio. È un crescendo questo rutilante show, accompagnato, per il nostro beneficio, dalle note di un’azzeccata e ritmica colonna sonora: il primo componente dinamico duo, superata la ragionevole approssimazione di un condotto dell’aria condizionata, trova un terzo membro della sua brigata. Egli è disteso a terra in modo stranamente composto, ormai privo delle forze necessarie per fuggire. Niente paura! In un secondo, pressapoco, la corda magica lo avvolge e lo avviluppa, poco prima che lui venga trascinato fuori. Sembra il coniglio di un prestigiatore. Inizia giusto allora la prima strofa della canzone, epica e spontanea quanto certi componimenti dei fulgenti anni ’80.
Il seguito, a vedersi, sembra quasi un videogame: scivolamenti al fulmicotone verso l’orizzonte, usando delle zipline tese sul supremo giro del secondo; arrampicate lungo pareti verticali, con ferito al seguito, perfettamente insalamato dal fibroso filo conduttore; balzi e scivolate degni del migliore tipo di parkour. Il video crea un interessante tipo di associazione procedurale, piuttosto trascurata, fino ad ora. Quella relativa all’arte di creare nodi, in caso d’occorrenza, con le chi ha il compito di liberare i prigionieri delle gravi circostanze. Così. Dopo il marinaio, dopo il montanaro, ecco profilarsi un altro fuoriclasse delle corde: il pompiere. In Giappone, giustamente. Dove fin dall’epoca dei Tokugawa (1603-1868) il campo del soccorso urbano è stato considerato tra le poche alternative valide, nonché parimenti meritorie, alla pericolosa percorrenza della via del samurai. Che era sempre pronto a perdere la sua battaglia con la morte, in ogni arroventato giorno della sua missione di vita. Proprio per questo sempre inevitabilmente vittorioso, nello schema confuciano delle cose.

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