L’intenso e antico timbro artistico del gong thailandese

L’epoca era il 1386 quando, secondo la leggenda, un monaco di nome Maha Suman Thera trovò per caso un pezzo della scapola del Buddha, che immediatamente trasformò in una reliquia. Poiché il re Ramkamheng non era convinto della sua autenticità, tuttavia, egli decise di porla sopra un elefante bianco e farla viaggiare fino al tempio di Suan Dok nel vicino regno di Lanna, dove poco prima che venisse accolta a braccia aperte, ebbe modo di dimostrare la sua santità replicando se stessa. Venne perciò deciso che il secondo osso venisse lasciato sull’elefante stesso, che guidato dalla volontà del karma avrebbe scelto il luogo in cui, idealmente, potesse essere accolto e venerato. Il saggio e coraggioso animale si diresse quindi fino alla montagna di Doi Suthep nella provincia del Chiang Mai, scalandola con uno sforzo tanto significativo che una volta raggiunta la sua sommità. non poté far altro che barrire tre volte, prima di accasciarsi a terra e in pochi attimi, esalare l’ultimo respiro. Il popolo di tali luoghi, a questo punto, decise che lì sarebbe sorto un grande santuario di nome Wat Phrathat Doi Suthep, e che all’interno di esso avrebbe risuonato, in eterno, il possente barrito del candido elefante. Attraverso le possenti vibrazioni di un ragguardevole disco di metallo, tanto pesante quanto infuso dell’inconoscibile energia del mondo.
L’invenzione e l’origine del grosso piatto metallico in quanto tale, strumento musicale solo in apparenza semplice, viene normalmente collocata nell’Asia Orientale attorno all’area tibetana, lasciando chiari segni della sua esistenza nell’arte e traduzione letteraria cinese almeno a partire dal VI secolo d.C, con il nome ancora in uso di chau gong. Fu tuttavia soltanto successivamente alla diffusione nell’intero Sud Est asiatico, che tali ausili alla produzione di un suono trascendente avrebbero raggiunto le più alte vette tecnologiche, ingegneristiche e creative. Che oggi abbiamo ancora modo d’intuire, tramite una breve visita della famosa strada che si estende tra il villaggio di Kong Chiam e la grande città di Ubon Ratchathani nell’omonima regione, spesso identificata sulle guide turistiche con il termine di “Sentiero dei Gong”. In quanto teatro operativo, nonché solo ed unico punto di partenza, per una considerevole percentuale di tutti gli strumenti metallici utilizzati nei 40.000 templi thailandesi, grazie all’antico mestiere ereditato da una quantità approssimativa di 50 famiglie. Che operando senza sosta e grazie all’aiuto di un letterale esercito di forgiatori, fabbri, decoratori, musicisti e pittori, impiegano fino a dieci diverse persone per la realizzazione di un singolo strumento. Che può prendere forma a partire da due processi totalmente distinti: il primo, mostrato nel video d’apertura prodotto dal canale Business Insider, consistente nell’acquisto di lamine metalliche pre-formate, da battere attentamente nella forma desiderata mediante l’impiego di sottili martelli, all’interno di sagome a rilievo scavate in grandi ceppi d’albero disposti sul terreno dell’officina. Ed il secondo, descritto su Internet in diverse fonti testuali ma purtroppo non mostrato, della fusione a cera persa, mediante l’impiego di stampi d’argilla rinforzati con aste metalliche, il cui contenuto liquefatto sarà sostituito dalla colata di metallo fuso, affinché il suo graduale raffreddamento possa portarlo ad indurirsi nella forma desiderata. Che al di là delle dimensioni estremamente variabili, possiamo identificare mediante una serie di elementi in comune…

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La palma che ha unto i naturali meccanismi del mondo

Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un albero di palma e da esso pendevano frutti rossi. Quindi gli fu data una corona e poi esso crebbe vittorioso, per crescere ancora. Terribile verità: non tutte le Apocalissi si presentano inizialmente come tali. Vi sono circostanze, o sequenze di eventi, che appaiono benevole sott’ogni possibile aspetto; finché non monta il serpeggiante sospetto, da parte dei soggetti a tale iniqua negazione dell’essere, che ogni cosa abbia smesso per andare verso il bene. Ed è allora, in genere, troppo tardi per imboccare la strada del ritorno. Sappiate dunque oh poveri umani, che il nome era è resta Elaeis guineensis, sebbene non sia questa l’unica, tra tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Arecaceae, ad essere sottoposta ad un processo di spremitura dei propri frutti e la stessa sommità del tronco, finalizzati a creare un ulteriore, semi-trasparente tipo d’oro dei nostri tempi. Ovvero olio, ottimo tra gl’ingredienti, risorsa utile non solo per cucinare, ma anche creare un’amalgama, donare consistenza, far spostare i veicoli alimentati a biodiesel. Particolarmente a partire dal fatidico 2007, quando gli Stati Uniti vararono la fatale legge per l’Indipendenza Energetica e la Sicurezza, finalizzata a liberare per quanto possibile l’industria dei trasporti dalla dittatura economica del petrolio mediorientale, riconosciuta come un punto di svolta nella diffusione su larga scala della monocultura intensiva finalizzata alla produzione dell’olio di palma.
Un fenomeno che getta le sue più profonde radici, tuttavia, nei trascorsi della gastronomia salutista a partire dalla metà degli anni ’90, quando fu determinato improvvisamente come il principale antidoto all’obesità e il colesterolo globale, la margarina che aveva sostituito il burro in molti ambiti della produzione su larga scala di cibo, potesse in realtà esser ancor più lesiva ai danni del nostro organismo già in fase borderline. Ciò in funzione della genesi insospettata, durante la processazione dei suoi ingredienti di origine vegetale, di una grande quantità di acidi grassi insaturi, normalmente chiamati in lingua inglese trans fats. Venne così l’irripetibile giorno, in Europa e negli Stati Uniti, in cui tutte le fabbriche di cibo in scatola, dolci, cioccolatini spensero per un’intera giornata le proprie catene di produzione. Affinché l’intero contenuto delle vasche di preparazione potesse essere sostituito dalla nuova, mistica sostanza. Caratteristica dei demoni è quella di avere molti nomi e sotto questo punto di vista, l’attraente fluido ricavato dal frutto di un tale albero non fa certo eccezione: oltre 200, ne possiede, molti dei quali poco più che un numero accompagnato ai termini “emulsificatore” o etilene-glicolo” e soltanto il 10% dei quali contenenti il termine chiarificatore di “palma”. Il che fa testo non soltanto per quanto riguarda il recente ma enfatico intento di nascondere la sua presenza in determinati prodotti al grande pubblico, ma soprattutto l’inerente straordinaria versatilità di un simile ingrediente, che arriva persino ad essere usato anche al posto del sego di origine animale in un grande numero di saponi e detersivi. In un’alone di segretezza che trova la sua principale ragione d’esistenza nella percezione vaga, riuscita a permeare il senso comune, che l’olio di palma sia un Grande Male dei nostri giorni, sebbene siano sorprendentemente poche, le persone che giungano in fin dei conti ad interrogarsi sull’effettivo perché. Questo nonostante i tre paesi che vantano il più intenso effetto deleterio nei confronti dell’effetto serra siano i due più vasti e industrializzati della Terra (Stati Uniti e Cina) subito seguiti dalla relativamente rurale, non troppo avanzata nazione isolana dell’Indonesia. Non per il fumo costante proveniente da un certo numero di ciminiere, bensì tutt’altro tipo di fuoco, probabilmente destinato a non spegnersi fino all’ultimo dei nostri tragici giorni…

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L’insetto a causa del quale non tutta la frutta è vegana

Sarebbe bello, sarebbe pratico senz’altro, se il colpevole si presentasse immediatamente visibile sotto i nostri occhi: il vorace verme del lucente pomo, nel suo buco prelibato, parassita della pianta che è sfuggito, in qualche modo, al processo di trattamento, preparazione e commercializzazione del frutto. Quando assai più subdola e decisamente meno facile da rilevare, si prospetta l’indiretta presenza del minuscolo Kerria Lacca, creatura affine alla comune cocciniglia europea, che dalle foreste dell’India e il meridione d’Asia è stato portato a trascendere la sua forma fisica meno affine; per entrare a far parte, in maniera indiretta, della stessa rete industriale che intrappola e circonda il mondo. Se avete mai preso una pillola, l’avete assaggiato. Se vi piacciono le caramelle, o i cioccolatini colorati tipo le M&M’s, ne avete assunto la più pura essenza nelle oscure profondità del vostro organismo. Se vi piacciono mele, pere o gli agrumi come arancio, mandarino etc, dovreste ormai chiamarlo una parte importante della vostra dieta quotidiana. E non per una situazione meramente accidentale, come si potrebbe essere indotti a credere considerata la natura di un simile parassita dei vegetali, bensì a causa di una ben precisa scelta operativa dell’uomo, che getta le radici in un’epoca straordinariamente remota e culmina con l’utilizzo in forma di spray, finalizzato a incrementare la durata della frutta prima di essere consumata. Si parlava già brevemente, in effetti, di un impiego architettonico di tale materiale nella sua forma più solida già nel grande poema antico del Mahābhārata, risalente al IV secolo a.C, al fine di costruire il gran palazzo dei Kaurava per commemorare la vittoria nei confronti dei Pandava. Sebbene in epoca moderna, a nessuno verrebbe in mente di edificare delle alte mura utilizzando la gommalacca o shellac, come viene chiamata in lingua inglese.
E probabilmente ne avrete già sentito parlare: la copertura solida e lucente, dalla colorazione in genere uniforme, impiegata in buona parte dell’Estremo Oriente al fine di rifinire una vasta quantità di oggetti, mobilia ed opere d’arte. Tale lacca tuttavia, estratta dalla resina della pianta Toxicodendron vernicifluum, è quanto di più indigeribile e potenzialmente nocivo sia possibile immaginare per l’organismo dei suoi utilizzatori; tutt’altra storia rispetto al corrispondente prodotto indiano, giunto sulle nostre tavole attraverso le lunghe e tortuose vie della storia. Considerate, a questo punto, la secrezione di una piccola e innocente creatura, affine a ciò che rappresenta il miele per le api e allo stesso modo, causa di un allevamento intensivo finalizzato alla produzione sistemica di un tale approccio al miglioramento della qualità della vita. Mediante un processo che risulta essere, inerentemente, assai diverso…

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La grande sete di Palo Verde, tripla oasi nucleare nel deserto dell’Arizona

“Portate quindi il vostro cibo, la vostra acqua, i vestiti e le altre risorse necessarie alla sopravvivenza, poiché nulla sopravvive nell’arido entroterra delle sabbie senza tempo… A meno che riesca a farlo contando unicamente sulle proprie forze.” E così fu, attraverso il lungo corso delle epoche nella storia; genti nomadi o stanziali, indifferenti all’ardua regola della natura, prosperarono con quieta ostinazione, costruendo quell’insieme di strutture che hanno nome collettivamente “Civiltà”. Al sopraggiungere dell’epoca moderna, tuttavia, i deserti sembrerebbero aver perso il proprio scopo primordiale; poiché quando tutto è connessione, integrazione, schema collettivo del villaggio globale, quale può essere lo scopo di ammantarsi della solitudine del mondo, andando a vivere in mezzo ai roadrunner e le lucertole di Gila? Finché sorse a un paio di generazioni a questa parte, sotto l’occhio dello spettatore e della storia, il nome di una direttiva domeinante: NIMBY, “Not In My Backyard” (Non nel mio cortile!) Il sentimento collettivo per cui bella è l’energia pulita, costante, significativa. Ma del resto qui tutti ricordano la fusione parziale del nocciolo a Three Mile Island; per non parlare del terribile disastro, più distante ma non certo meno grave, della centrale Lenin presso quel di Chernobyl, Ucraina. Ecco quindi nel distante 1973, prendere per la prima volta forma l’idea. Di una centrale in grado di essere non solo la più imponente & significativa degli Stati Uniti (in un paese che ne possiede quasi un centinaio) ma soprattutto statisticamente incapace di subire incidenti significativi, data la collocazione a ben 72 chilometri dalla città di Phoenix, Arizona e molto più… Da qualsivoglia altro centro abitato degno di questo nome. Circondata dall’assoluto nulla in ogni direzione e finché riesca a spingersi lo sguardo degli umani. Così Palo Verde fu il suo nome, dal toponimo di origine spagnola in uso per questa regione, quando finalmente venne inaugurata nel gennaio del 1986, sotto la supervisione della società dell’Energia del Servizio Pubblico dell’Arizona che l’ha in gestione tutt’ora e con l’aiuto della compagnia ingegneristico-architettonica Bechtel Power di Norwalk della California. Tre reattori da oltre 1300 MWe di emissione ciascuno, costruiti in modo inusuale al fine di essere del tutto indipendenti l’uno dall’altro in materia di raffreddamento e operatività, per condividere soltanto i servizi offerti dalle strutture di supporto ed assistenza, collocate al centro del complesso in grado di vantare un’estensione complessiva di 1.600 ettari. Di sicuro, un obiettivo non così arduo da raggiungere quando si hanno a disposizione i vasti spazi che caratterizzano l’entroterra americano, benché essi non risultino inerentemente privi di un fondamentale problema: ci avevate mai pensato? Quasi nessuna grande centrale nucleare sorge, in alcun paese del mondo, lontano da laghi, fiumi o le rive dell’oceano. Questo perché sviluppare la fusione di quei carburanti, riuscendo faticosamente a mantenerla sotto controllo, comporta un impegno significativo e costante, sostenuto da copiose quantità del fluido che costantemente sacrifica se stesso, evaporando al fine di tenere i gradi sotto ad un livello ragionevolmente controllabile dall’uomo. Il che ci porta, senza significative esitazioni, al punto cardine della questione…

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