Lo Zen e l’arte di piantare un palo

Piantare un palo

Ci sono sempre due lati in ogni storia: ecco quattro uomini dotati di uniforme da operaio di una ditta che, sfruttando l’intesa nata da mesi ed anni di collaborazione, martellano in sequenza il gran puntello di un grigiastro padiglione. Qualcuno noterà, senza alcun dubbio, la rapida semplicità con cui tal metodo risolve l’ardua sfida di giornata: niente macchinari, corrente elettrica, pesanti veicoli a benzina. Soltanto buona lena e forza muscolare ed anche, perché no, cervello. Provate voi, a compiere una tale impresa, con tre dei vostri colleghi di lavoro, chiamati a raccolta innanzi al distributore del caffé. Occorrerà stabilire innanzi tutto un giusto ordine consequenziale: caschetto verde, poi blu, bianco e di nuovo blu. THUNK-THONK-THINK-THANK e se per caso sbagli, ah! Al massimo colpisci l’impugnatura dell’altrui mazzuolo. Al massimo rimbalza la tua testa-di-metallo, giusto? (Ed il problema, a quel punto, è verso DOVE). Dalla pratica, virtù…E puoi procedere così, lavoratore, sulla base del bisogno. Faccio le cose bene, perché: così finisco prima. Affinché l’opera riesca per il meglio. Me l’ha chiesto lui, il capo/sovrintendente/presidente!
Ma è altrettanto importante, qualche volta, mettersi nei panni di quel palo. Che pur prendendo tanti colpi poderosi, fondamentalmente non può risentirne; primo, perché è un palo. E secondo, per il ruolo che riveste, nell’intera storia della civiltà. Giacché quando, nel Miocene di 23 milioni di anni fa, la prima scimmia ominide prese un gran pezzo di legno, lo ripulì e lo reinfilò per terra, molto faticosamente, mai prima d’allora c’eran stati: la meridiana, il parafulmine, il supporto del semaforo, l’antenna per cellulari e la colonna *senza capitello, di un palazzo ancora da venire. Eppur le fondamenta dell’edificio tecnologico già si stavano ponendo nella mente di quell’essere il primate, il primo-vate, colui che poteva e per l’appunto, fece il gesto. Da quei tempi, ne abbiamo fatta di strada e molte strade, pure. Letteralmente: prima in terra battuta, poi di acciottolati, sanpietrini e brecciolini. Finché non giunsero i romani, con la loro tecnica formata in molti strati sovrapposti. Parzialmente resa obsoleta, come tutto il resto, inutile dirlo, dall’incedere insistente delle soluzioni tutto-in-uno. Finché oramai, niente resta tranne che l’asfalto. Questa gran colata dalla chimica impedenza, la chimerica presenza, tutto un vortice maleodorante di bitume grigio-nero, che al sole s’indurisce e poi trasforma in armatura della Terra. Si perde il gusto, di bucare il suolo per far stare dritto qualche cosa. È ormai troppo difficile, da farsi.
Ed è un importante fondamento delle arti marziali dell’Estremo Oriente, questo, del diventar tutt’uno col bersaglio della propria furia fitta e torrenziale, palesata in colpi, calci e botte di espedienti, splendidi armamenti. Figuratevi quel samurai-spadaccino-stereotipico, che al centro del suo dojo affetta in pezzi la stuoietta di paglia di riso arrotolata, facendo due fulminei tagli diagonali. Per osservare, compiaciuto, come i pezzi risultanti siano ancora lì, caduti unicamente in senso verticale. Ciò che era integro, adesso non lo è più; ma non si nota!
Ecco, di una cosa state certi: lui, la spada, il rimasuglio, per un breve brivido/momento, si sono uniti e trasformati, in una sola cosa, nella mente, il flusso e il ritmo del respiro filosofico della Via. Wu wei, come dicevano i cinesi: “Non agire. Lascia che il palo si pianti da solo, tu diventa il mezzo, mica lo strumento!”. C’è molto taoismo nello Zen del samurai. O dell’operaio costruttore che martella insieme ai suoi colleghi, mentre medita in silenzio…

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M’incarti sei cuccioli di pipistrello, per piacere

Bat Burritos

Devi avvolgerli per bene, farli stare caldi. E poi dargli un cuccio da succhiare, affinché si sentano tranquilli. Frisky, Foxy, Kirby, Gizmo, Zubat, Kuro; oppure: Misha, Moongoose, Sushi, Snooper, Tigrex, Zuni. Oppure: niente! Perché dovresti dare un nome a un pipistrello e poi perché, lui dovrebbe accorrere, quando lo chiami? Sono animali selvatici, questi sei piccolini, soltanto di passaggio tra le mura dell’umana agiatezza, a causa di un’imprevista, quanto triste fatalità del caso. E non è certo facile, prendersi cura di un simile gruppetto di figliocci, così privato delle rispettivi madri biologiche, per l’effetto dell’ennesima ondata di calore. Un evento meteorologico che ormai da anni, con incedere pesante e inesorabile, fa strage di chirotteri volanti dell’Australia, di ogni foggia, tipo e dimensione. Il che è davvero un gran peccato, nonostante quel che potrebbe suggerire la superstizione popolare, oppur l’antipatia dei coltivatori di frutteti, il cui prodotto, tanto spesso, viene masticato dai dentini delle qui presenti bestie, tutt’altro che comuni pipistrelli. Siamo infatti di fronte ai cuccioli, niente meno, che della tipologia più imponente di mammifero volante a questo mondo: fino a un metro e mezzo di apertura alare, per un Kg di peso da adulti, niente affatto poco, per un essere che si è evoluto per librarsi, aggrapparsi ai rami degli alberi a testa in giù e poi ricadere, quasi accidentalmente, sopra le vittime del suo cacciare. Volpi volanti, le chiamano, dalla forma appuntita di quel simpatico musetto. Oggi, le ammiriamo per il loro fascino stravagante. Ma non è difficile capire come mai una volta, la visione di una simile creatura suscitasse istantaneamente il massimo livello di terrore: gli occhi neri e intelligenti, le ali membranose dagli artigli preminenti, simili a un mantello da vampiro e il corpo peloso, slanciato e belluino. Pipistrelli di una simile imponenza non si muovono come gli altri animali, non hanno gli stessi problemi e non occupano nicchie ecologiche davvero comparabili a quelle di uno scoiattolo e del topo a cui assomigliano vagamente. Benché la tipologia qui presente, dei sei graziosi cuccioli nel bozzolo giallino, sia più simile a questi ultimi, di qualsiasi altro esponente di quell’ordine dei chirotteri, ingiustamente bistrattati animali.
Esistono, in realtà, due tipologie ben distinte di pipistrello: micro & macro. I primi corrispondono maggiormente allo stereotipo dell’animale in questione, vista la predilezione per la vita in caverna, anche facilitata dal possesso del supremo senso d’ecolocazione: il sonar naturale con un solo emettitore (l’apparato fonatorio) e due ricevitori (le grosse orecchie pelose). Che bisogno c’è di luce, quando puoi sfruttare il suono per trovare la tua casa e la tua preda? Questi particolari esseri si sono sviluppati, attraverso i secoli e i millenni, per sfruttare le ore di maggiore attività degli insetti, di cui vanno in cerca con estrema operatività. Non sono necessariamente piccoli: il pipistrello fantasma, un microchirottero, raggiunge il metro esatto d’apertura alare – Non per niente lo chiamano falsa volpe volante. Però ecco, loro assai difficilmente potrebbero raggiungere gli estremi dell’altro gruppo, tanto graziosamente qui rappresentato dai sei poveri orfanelli, che non avranno mai altri superpoteri, che un senso dell’olfatto molto sviluppato. E se non aveste ben presente come diventano da grandi, ebbene…

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L’orchestra dei registratori batte cassa per Natale

Kassensymphonie

Qualcuno certamente si ricorderà di quella strana pubblicità tedesca, risalente al Febbraio scorso, in cui un distinto signore con la barba, vagamente simile a Babbo Natale, danzava in giro per le strade e cantava con vocione suadente le sue lodi smodate per i meriti del cibo in scatola e di tutto il resto della spesa, fino ad immergersi orribilmente, nel finale imprevedibile, dentro a una vasca da bagno piena di latte e di corn flakes. Tale video può vantare, a quasi un anno di distanza, oltre 12 milioni di visualizzazioni. Per la catena di supermercati EDEKA, dopo una trovata tanto eccellente, era decisamente difficile superarsi. Non a caso, i loro creativi deputati al ramo dell’advertising qui hanno scelto una via diversa, che punta sull’incontro tra la tradizione musicale delle feste e la moda contemporanea, ormai inflazionata, del cosiddetto prank marketing, ovvero il mettere la gente (teoricamente) scelta a caso in situazioni strane, almeno in parte conduttive dello spot pubblicitario rilevante. Così ecco Jingle Bells, suonato sui registratori di cassa. Chi l’avrebbe mai detto?
C’è un equilibrio di fattori non facile da calibrare, in tali scenette, tra il credibile e l’incredibile, ciò che possa convincere, secondo il patto finzionale, gli astanti accidentali e conseguentemente permettere a noi, tramite un adeguato slancio di suspension of disbelief, che Si! Stiamo osservando gente comune, trascinata dagli eventi all’improvviso e che reagisce con totale ed ASSOLUTA spontaneità caratteriale. Il quale trucco, in questo particolare caso, non riesce appieno. E poco importa. Si tratta, in fondo, di una situazione buffa e bonaria, tutt’altra storia rispetto agli scherzi terrificanti e i giochi a premi che normalmente veicolano un tale tipo di campagna. E poi c’è il fattore tecno-elettronico, a fare da demiurgo, l’entità incorporea che può dare origine a qualunque tipo di miracolo, natalizio o d’altro tipo, attraverso misteriosi e minuscoli corpuscoli, co-processori e fil di rame. Dunque, davvero, oltre il cinismo, resta la musica del mondo, tutto in tondo.
E quale deliziosa sinfonia! La scena: la parte anteriore di un affollato centro commerciale, decorato da cascate di lucine bianche ed oro, immerso nell’oscurità dell’incipiente sera. Eppure comunque affollato, da persone di ogni età e provenienza. Lì c’è un impiegato stanco, di ritorno a casa dal lavoro, fermatosi soltanto per comprare poche cose per la cena solitaria. Dall’altra parte, una famigliola con bambino, momentaneamente staccatosi dalla Playstation, tanto per venire ad annoiarsi assieme ai genitori. La signora benestante con gli occhiali firmati e la pelliccia assieme al giovane di probabile etnia indiana (perché si sa che secondo precise statistiche, su 100 persone almeno una è ricca, l’altra amabilmente inter-culturale). Oh, quale stupenda selezione di variopinta umanità! Finché accidentalmente, per puro “caso” qualcuno non giunge fino alla cassiera con un pacco di…Biscotti! Che fa TUTU. E subito segue, all’altra postazione, una bottiglia di spumante, TUU-TUU & so on & so on…crakerscaffépanettonesuccodifruttainsalatanoccioline-THROUGH THE SNOW…

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Anche gli AH-64 Apache richiedono pazienza

Apache 30mm

Quasi inconcepibile, che sia così difficile da fare. L’avevate mai visto in questo modo? Ecco un armiere d’aviazione, forse americano, presso un non meglio definito campo base, chissà dove & chissà quando, che dimostra l’alta dose di manualità che serve per immettere i minacciosi pallottoloni nel meccanismo del cannone a canna singola da 30 mm M230, dell’elicottero da guerra più famoso al mondo, in circostanze che parrebbero, allo sguardo, solo leggermente al di fuori della prassi quotidiana.
È una sequenza indicativa, sofferta e significativa. Che dimostra come anche un sistema d’arma pseudo-futuribile come questa mitizzata torretta sub-veicolare, in grado di colpire bersagli piccoli da una piattaforma mobile in aria, rapida e letale, ricevendo dati quali la scansione ad infrarossi notturna (FLIR) e il puntamento laser del sistema TADS […] sia fondamentalmente progettata dagli umani, ed in quanto tale, soggetta a problematiche istantaneamente riconoscibili, allo sguardo di chi vive con la tecnica applicata. Come noi tranquilli, rilassati civili (quasi sempre) finché non s’inceppa, in un dì parecchio concitato, il rullo demoniaco della stampante laser dell’ufficio. E non entrano più i fogli, sparisce quel risucchio magico e tutti s’incastrano candidi e indefessi, l’uno dopo l’altro, mentre si esaurisce il tempo limite ed aumenta il nervosismo! Ah, ve l’immaginate, la stessa situazione, in volo sopra i ripidi crepacci di un dismesso campo di battaglia? Mentre vi suona nell’orecchio il trillo dell’avionica di bordo, sonoro ed insistente, a segnalarvi che un sistema d’arma fissa vi ha puntato, e Colui non voglia, potrebbe pure funzionare? Non è che la guerra sia una gara a chi subisce meno guasti tecnici imprevisti. Ma, talvolta così pare…
Quindi tanto meglio, far le cose bene: “Chi non ha buona testa, ha buone gambe!” Ovvero se dimentica, poi torna indietro. Ma dovesse dimenticare la cosa maggiormente inappropriata, ovvero le chiavi di casa, saranno affari suoi. Quando decolli da un FOB (Forward Operating Base) in un vortice di sabbia e piccoli detriti, sotto un’elica rabbiosa e verso gli obiettivi di missione, l’M230 è il tuo fucile. La tua chiave di volta per tornare a terra tutto intero. Ce ne sono molti come lui, ma quello è il tuo. Il tuo fucile è il tuo migliore amico, la tua vita. Devi dominare il tuo fucile come domini la tua vita (etc.etc..) Eccetto che… Naturalmente, non puoi dominarlo!
Perché sei chi lo conduce con la cloche, oppure lo punta in giro dalla sua console, mica il tecnico che si occupa di caricare l’arma. Chi ci capisce di una tale roba? Nei settori della guerra di supporto, ovvero tutto quello che non è la pura e dura fanteria, c’è sempre una vasta squadra dietro ciascuna missione, della quale, soltanto una parte giunge fino al fronte. Gli altri assistono e conducono l’idea (di distruggere il bersaglio). Il che davvero appare chiaro, nell’interessante video della carica del presente cannoncino. Che comunque, secondo alcuni commenti online, qualcosa che non andava ce l’aveva eccome…

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