Persone normali che s’intrattengono in un pomeriggio normale, dinnanzi a un fenomeno particolarmente rappresentativo dei mesi d’inverno: la crescita prevista da queste parte, alta e superba, di un cono tozzo con tanto di profondo cratere sulla sua sommità. Dal quale fuoriesce, in copiose quantità in cadenza poco più che oraria, l’acqua semi-solida proiettata con tutta la potenza di un vero e proprio pozzo artesiano. Siamo sul ghiaccio, s’intende, e per essere più precisi nella gelida regione kazaka di Almaty, secondo il “pezzo” ufficiale tra i due villaggi di Kegen e Shyrganak. Il che presenta senz’altro qualche piccolo problema concettuale, vista l’assenza di significative quantità d’acqua tra l’uno e l’altro secondo Google Maps (fatta eccezione per uno stretto ruscello) benché campeggino almeno un paio di capienti laghi a circa 50-60 Km in direzione nord-ovest (il piccolo Bartogay) e sud-ovest (l’enorme Issyk Kul). Difficile, a questo punto, determinare il sito esatto di una simile scena, la cui portata immaginifica per la popolazione risulta nel frattempo perfettamente chiara; quanto spesso, d’altra parte, capita di vedere un piccolo monte sorgere nel giro di una singola notte, come i castelli o ponti edificati, secondo un diffuso corpus leggendario internazionali, da demoni, mostri o creature fantastiche della foresta? Almeno 10 metri di mura scoscese, composte di ghiaccio e neve ben compatta, come un pupazzo geologicamente corretto usato per dimostrare uno dei principi basilari della Terra: che esiste qualcosa di fluido, sotto la spessa crosta che ospita i nostri sforzi di creature “superficiali” e che i processi incaricati di trasformare continuamente gli stati della materia sono almeno parzialmente responsabili, della sua tendenza occasionale a scaturire in vistosi zampilli verso le argentate nubi disperse in cielo.
Il cosiddetto criovulcanismo dei laghi ghiacciati non è d’altronde dovuto a fenomeni idrotermali sul diretto modello magmatico, come si potrebbe istintivamente credere per l’analogia con il geyser, bensì il prodotto del semplice moto ondoso che si abbatte su coste dalle precise caratteristiche paesaggistiche, contribuendo a generare questo spettacolo certamente raro, eppure tutt’altro che inaudito.
La maggior parte delle trattazioni scientifiche in materia, filtrate occasionalmente nella coscienza pubblica e ripubblicate online per via di precedenti occorrenze, sono a tal proposito riferite a strutture simili formatesi a ridosso dei Grandi Laghi statunitensi Michigan ed Erie, già celebri per l’ampia varietà di strane visioni glaciali capaci di prendere forma ad ogni concludersi dell’annuale periodo estivo, tra cui: cumuli di sfere candide, “pancake” sovrapposti di neve o interi edifici ricoperti da uno spesso mantello costellato di stalagmiti. In funzione di una forte incidenza meteorologica dei venti e le basse temperature che possiamo, per deduzione, attribuire anche alla versione asiatica dello stesso rilievo tendenzialmente effimero, altresì dotato di una forma e una massa ancor più significative. Ma proveniente dalla stessa, identica serie di circostanze, frutto dell’implacabile termodinamica ed una concatenazione fruttuosa, di causa ed effetto contestuale alle ghiacciate opportunità del caso…
Asia
L’albero d’argento, leggendaria fontana medievale nel giardino del Khan
Sul retro dell’odierna banconota da 10.000 tögrög, in contrapposizione all’immagine del vecchio Gengis presente dal lato principale, figura l’immagine di un palazzo dall’aspetto simile all’architettura cinese, ornato dalla presenza di un curioso monumento. Simile a una pianta, ma chiaramente creato in qualche tipo di metallo, lo stretto arbusto si erge nella scena con le figure di tre leoni seduti in corrispondenza alle sue radici, ed un angelo con la sua tromba posto in posizione eretta sulla sua alta sommità. Tre serpenti si sporgono dalle sue fronde, simili a dragoni silenziosi. Dalle loro bocche, molto convenientemente, parrebbero scaturire zampilli di un qualche fluido non meglio definito, che soltanto un breve approfondimento letterario può riuscire ad identificare come vino, latte di giumenta fermentato e birra di riso. Si tratta di una riproduzione parzialmente fantastica, per sommi capi, dell’oggetto di cui il trascorrere dei secoli ci avrebbe privato, lasciando unicamente l’accurata descrizione di quell’uomo che, con i suoi stessi occhi provenienti da lontano, aveva avuto modo di conoscerne l’eccezionale esistenza.
L’azione si svolge nel 1254, presso la capitale dell’impero più vasto che il mondo abbia conosciuto, Karakorum. Siamo all’incrocio più importante sulla Via della Seta in Mongolia ed il frate fiammingo Guglielmo di Rubruck, inviato fin quaggiù da Costantinopoli su mandato papale e per volere del re dei Franchi Luigi IX d’Angiò, si trova presso la corte dei potenti ormai da svariati mesi, essendo rimasto colpito dalla natura cosmopolita dei suoi abitanti, appartenenti a un variegato amalgama di religioni, culture e provenienze distinte. Nessuna traccia del condottiero convertito alla cristianità che si era recato a cercare, quel Khan Sartaq che avrebbe potuto diventare un alleato del suo signore. Ma qui aveva avuto modo di conoscere, con suo sommo stupore, numerosi esuli cristiani, un intero quartiere musulmano, gli eredi dei mercanti europei che si erano spinti fino a tali luoghi e soprattutto, la figura dell’artista ed orafo parigino Guillaume Boucher, probabilmente catturato e trasportato fin quaggiù a forza assieme agli altri prigionieri di provenienza europea. Fu tale circostanza, per lui, un momento di sollievo dopo le difficili peripezie di un lungo viaggio in mezzo a un popolo che non esitò a definire nei suoi diari come composto per lo più da barbari e selvaggi, criticando a più riprese la loro presunta avidità, la società disordinata e gli improbabili precetti religiosi del Tengrismo. In una capitale relativamente accogliente, che aveva raggiunto seguendo una carovana di alti funzionari in viaggio presso il loro signore, dalla quale sembrò d’altronde essere tutt’altro che impressionato, trovandola notevolmente inferiore anche al semplice villaggio francese con l’omonima abbazia di St. Denis. Osservatore occasionalmente attento, tuttavia, il frate descrisse approfonditamente i rituali temporaneamente stanziali della corte viaggiante di Möngke Khan (regno: 1251-1259) nipote di Gengis e corrente sovrano dei propri spropositati territori. Riservando svariati paragrafi all’improbabile meraviglia artistica, che lo stesso Boucher ebbe a quanto pare modo di ultimare nel corso di quel soggiorno relativamente breve, destinato a risultare in una delle poche testimonianze scritte dell’aspetto e lo stile urbanistico di Karakorum…
Onggi: il prezioso vaso che respira l’aria della montagna coreana
Avvicinandosi dall’esterno ad una casa tradizionale della penisola coreana, costruita con materiali ecologici come pietra, legno e terra, con un soffitto di tegole ornate che proteggono dalle intemperie le porte e finestre realizzate con semplice carta, sarà possibile talvolta scorgere il piano rialzato che trova la definizione di jangdokdae (장독대) utilizzato principalmente al fine di ospitare nel tempo la collezione di famiglia dei grandi recipienti di ceramica, ricolmi degli ingredienti che costituiscono i due punti cardine nella cucina di questo paese: il misto di varie verdure messe a maturare nel kimchi (김치) e la salsa fermentata di riso, fagioli e peperoncino, chiamata gochujang (고추장). Ciò che immediatamente potrà colpire l’occhio dello spettatore, tuttavia, è la maniera in cui tali vasi ed anfore siano spesso lasciati privi di coperchio, in modo che l’aria possa entrarvi all’interno mentre i batteri continuano imperterriti il processo di trasformazione che permette al sapore di emergere, ed al cibo di conservarsi straordinariamente a lungo. Esistono, in effetti, due modi per sfruttare con profitto questo processo che ha saputo dimostrarsi assai utile per tutto il corso della storia umana presso la penisola che estende a meridione della Manciuria. Il primo, che consiste nell’immagazzinamento lontano dalla luce e dal cuore, in condizioni anaerobiche e strettamente controllate, affinché nulla d’inaspettato possa compromettere la futura consumazione del puro prodotto dell’ingegno culinario nazionale. E la seconda fondata, più di ogni altra cosa, sulle speciali caratteristiche e i pregi unici della ceramica onggi (옹기, 甕器).
Questa espressione infatti, che allude con la sua specifica grafia nell’alfabeto fonetico hangul (한글) alla forma stessa del vaso costituisce una branca separata della produzione di attrezzi gastronomici dalla produzione maggiormente rappresentativa di questo paese, caratterizzata da una finezza decorativa assai ricercata ed avanzate tecniche di vetrinatura secondo la cognizione successiva. Laddove il tipico vaso da fermentazione assume un aspetto grezzo benché armonioso, e privo di caratteristiche fatta eccezione per la sua dote maggiormente importante: la notevole porosità delle pareti, grazie all’impiego di una materia prima rara e preziosa cotta a fuoco lento, affinché non possa svilupparsi alcun tipo di crepa o fessura. Trattasi, nello specifico, di un impasto di terra e fango misto a foglie secche autunnali, aghi di pino e baccelli di semi parzialmente decomposti raccolto in montagna, tale da formare un tutt’uno semi-denso che prima di assumere una forma, viene lungamente compresso e battuto con appositi martelli. Processo lungo e faticoso, quest’ultimo, messo in atto dal gruppo di artigiani specializzati chiamati onggijang (옹기장) e che viene ampiamente dimostrato nel corso di questo nuovo video del canale Eater, dal giovane praticante Jin-Gyu all’interno del suo forno di famiglia. Uno degli ultimi 10 rimasti capaci, per sua stessa amissione, di creare l’onggi tradizionale gradualmente sostituito, nella società contemporanea, da semplici contenitori di metallo, plastica ed una delle scoperte tecnologiche più importanti del XIX secolo: la macchina a energia elettrica per la produzione del freddo. Non può tuttavia esserci un vero kimchi, senza il paziente processo che lo porta ad assumere quel particolare colore, sapore ed odore. Il che equivale a dire che nel profondo del cuore che costituisce la più vera identità coreana, risiede l’antica tecnica per la produzione dell’onggi…
Dalla Cina la campana che risuona grazie al sacro fuoco della curiosità intellettuale
Vista in superficie sembra soltanto un gadget, un altro strano giocattolo scientifico della variegata, celebre collezione di Tim Rowett, che potreste riconoscere come l’uomo più britannico di tutto YouTube. Personaggio singolare e distinto, dal raffinato accento, con un suo modo molto per esporre di volta in volta la funzione e la provenienza di alcuni degli oggetti più bizzarri e interessanti che gli riesce di reperire in giro per tutto il mondo. Cose come “La sorprendente campana di Yi”, compatto strumento musicale da tavolo, dotato di una caratteristica assai particolare: quella di suonare in due modi radicalmente differenti, alla temperatura ambiente e nel caso in cui sia stata, preventivamente, riscaldata sul fuoco fino a 100 e più gradi. Riuscendo a riprodurre in ciascuno dei corrispondenti casi, secondo quanto spiegato dalle istruzioni ufficiali facilmente reperibili online, il suono sordo di un pezzo di legno oppure quello armonico, e decisamente più gradevole, di una vera e propria campana in bronzo. Dualismo chiaramente dimostrato nel corso del suo video di appena 5 minuti, in cui con l’aiuto di un pirometro a infrarossi e l’incluso fornelletto ad alcol, facente parte della struttura dell’ingegnoso apparato, esamina e dimostra l’intero spettro della questione uditiva, senza inoltrarsi eccessivamente nel merito dell’effettiva provenienza ed etimologia del nome. Una di quelle questioni, d’altra parte, capaci di allungare in modo significativo il tempo necessario per una soddisfacente trattazione…
La campana di Yi infatti, o esperimento scientifico U30002 come sembrerebbe essere chiamata in molti dei possibili contesti, ha una provenienza contemporanea poco chiara ma una genesi remota tra le più certificate ed importanti: quella intenzionata a collocarne l’ispirazione, tra tutti i luoghi possibili, all’interno di una tomba risalente al 433 a.C. e ritrovata soltanto nel 1977, durante alcune manovre dell’Armata Rossa per la costruzione di una fabbrica a Leigudun. Luogo destinato all’eterno riposo, per l’appunto, del personaggio storico noto come marchese Yi del regno di Zeng, uno dei molti stati in perenne conflitto durante il periodo di continui sconvolgimenti sociali e politici passato alla storia con il nome di Primavere ed Autunni (722-421 a.C.). Uomo il quale, secondo quanto è solita affermare un’interpretazione piuttosto nota, preferiva “Al fascino insanguinato delle armi, il suono pacifico di una musica celestiale.” Affermazione che potrebbe sembrare fuori dal contesto, finché non si viene a conoscenza del più significativo degli oggetti ritrovati all’interno del suo mausoleo: il più massiccio, antico e significativo esempio di un bianzhong (编钟) che sia giunto fino ai nostri giorni senza essere passato più volte attraverso le mani di ladri di tombe, commercianti senza scrupoli e contrabbandieri d’arte. Finestra impareggiabile ed ancora funzionante, in altri termini, di quella che poteva essere la specifica musica rituale e di corte in un’epoca persino antecedente a quella della Grande Muraglia, oltre alla magnifica fattura metallurgica e reiterata di un qualcosa che, in Occidente, non sarebbe uscito da una forgia fino all’epoca delle grandi cattedrali: la campana in bronzo capace di produrre due note allo stesso tempo, a seconda delle esigenze e in base alle capacità del suonatore…