Pende, ma non rotola: la massiccia pietra delle streghe nei boschi della Finlandia

Scivolando quietamente in base alla costante progressione degli eventi…Alti, bassi e casi strani della vita, si può giungere alla momentanea conclusione che nessun disegno, per quanto eccentrico ed imperscrutabile, si ostini a pulsare dentro il nucleo della macchina dei giorni. Per cui niente avviene in base ad una logica ulteriore, a meno che quest’ultimo principio, per sua implicita natura, sfugga in modo drastico ad un qualsivoglia tipo di cognizione umana. Risultando quell’inaspettata conseguenza di una volontà ignota, che appartiene per definizione a esseri o creature che sovrastano le leggi ereditate dal mondo. Così qualche volta, quando tutti i pianeti cosmici si trovano in allineamento, e il concetto delle forme che si allineano si trova al centro di un fenomeno, o una serie di fenomeni, può succedere che l’ideale moneta della determinazione finisca per cadere di taglio. Lasciando l’unico intervento possibile di colui o colei che ha il compito nei secoli di far conoscere la sua esistenza.
Secondo il concetto internazionale della geologia applicata, simili formazioni rocciose prendono comunemente l’attributo di “magiche” con un riferimento ormai puramente sistemico agli antichi miti e leggende, che tentavano per quanto possibile di spiegare la loro notevole esistenza. In luoghi esattamente come questo, nei dintorni non del tutto specificati del comune di Ruokolahti, nella provincia meridionale della Finlandia, dove fin da tempo immemore una roccia simile a una patata giace perfettamente stabile sopra il metaforico dorso di una pecora (in gergo francese, roche moutonnée). Piccolo dettaglio: l’oggetto in questione ha un peso stimato che si posiziona attorno alle 500 tonnellate. E la dimensione di un autobus o come preferirebbero dire da queste parti, una bastu (sauna) con i suoi 7 metri di lunghezza dei quali soltanto 0,5 si trovano effettivamente a contatto con il suo gobbuto basamento sottostante, che alcuni paragonano ad un uovo. Il che potrebbe riportare alla mente del visitatore lo scenario tipico di una puntata del cartoon Wily E. Coyote, sebbene l’origine e la storia di un simile luogo non risulti in alcun modo a causa dell’erosione, come avviene nel caso di formazioni similari nello Utah ed Arizona statunitensi, risalendo piuttosto a uno specifico momento ed epoca ormai remota. Nient’altro che la glaciazione weichseliana, conclusasi all’incirca verso 11.700 anni prima dei nostri giorni, dopo ulteriori 100.000 di temperature tali da espandere il ghiaccio dei poli fino ai confini della zona paleartica europea. Causando a più riprese la formazione, ed al concludersi di tutto l’inevitabile disgregazione, di un’enorme serie di ghiacciai, ciascuno in grado di accompagnare grandi quantità di rocce e sedimenti dalla cima dei picchi più alti, giù dentro le valli che in un giorno ancora lontano, si sarebbero riempite di vegetazione. Ed è proprio questa l’origine degli altrimenti definiti massi “erratici” o “trovanti” notoriamente capaci di rivelare a distanza di millenni la loro esistenza totalmente fuori dal contesto, presso recessi paesaggistici dove nulla di simile avrebbe normalmente ragion d’essere, senza l’intervento di un qualche ipotetico troll, strega o gigante. Eppure kummakivi come lo chiamano da queste parti, contrazione agglutinante che significa letteralmente “la strana pietra” resiste ed insistentemente insiste nel suscitare validi interrogativi, con il suo corpo principalmente formato da granito, gneiss e mica, inframezzati dall’occasionale traccia rossastra, segno inconfondibile di un granato. Perché non si dica che il diavolo sopìto sotto le montagne, continua ad essere del tutto privo di buon gusto e il senso estetico della bellezza…

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La battaglia delle foche con il globo vermiglio che si gonfia prepotentemente dal naso

“Questo è il mio fagiolo, ce ne sono molti uguali, ma questo è il mio. La mia zampogna è la mia migliore amica. È il segno appariscente del mio amore. Devo dominare il mio pallone da spiaggia, così come domino il mio stesso amore.” Parole forti da una foca molto grande, imponente addirittura. Il Dio peloso della spiaggia in riva all’isola del ghiaccio senza tempo. Come credi di poter varcare i limiti di questo territorio, giovane aspirante? Tutte le donne del vicinato, e le loro sorelle, e le loro figlie, aspirano a guardare solamente me. La tua borraccia è poco più che un fazzoletto, rispetto alla mia: “Osserva! PFHPFHPFHFPFH” Mentre l’acqua del solenne bagnasciuga si ritira, nell’apparente intento di formare l’efficiente prototipo naturalistico di un’arena, il focoso pinnipede da appena una dozzina di natali e tre quintali circa avanzò imperioso, sperando di poter sfidare finalmente il maschio dominante di oltre 400 Kg. Sulla nera testa, già pronta l’alta cresta della prima delle due, e sotto di essa l’ineguale massa dell’altra vescicolare lanterna color vermiglio infernale. Eppure entrambi gli ornamenti, nonostante l’aspetto fragile e ingombrante, non sembravano in alcun modo rallentarlo, mentre sobbalzando sulle pinne drammaticamente insufficienti a sostenere un’andatura agevole sopra la sabbia, caricava l’alta sagoma del suo nemico ed auto-dichiarato dominatore. L’aria rarefatta dello gelido scenario sembrò fare una pausa drammatica, mentre i versi gutturali dei giganti risuonarono a parecchie centinaia di metri di distanza. Sulla cima della rupe all’altro capo della baia, l’intero gruppo delle foche femmine voltò i propri placidi sguardi, come per l’impulso telepatico di un demiurgo artico improvvisamente risvegliato. Così le zannute belve spalancarono le fauci. Guardarono per pochi attimi agli uccelli nel distante cielo, prima di abbattere la propria massa significativa in una zuffa senza nessun tipo di quartiere. La spiaggia bianca, in breve tempo, si tinse del colore di una rosa, colta presso le distanti rive dell’oceano Settentrionale.
Scene che si svolgono ogni anno, puntualmente, tra aprile e giugno, durante la “primavera” di luoghi dal clima abbastanza gelido, da poter congelare una lacrima prima che abbia il tempo di toccare terra: la Norvegia, l’arcipelago delle Svalbard, l’isola di Bear, l’Islanda, il golfo di Saint Lawrence in Quebec. E naturalmente, la vasta e desolata Groenlandia, landa selvaggia dove ancora creature come la foca incappucciata (Cystophora cristata) possono trovare tutto lo spazio di cui hanno bisogno per sopravvivere e condurre le proprie esistenze in maniera (relativamente) indisturbata. Un proposito che include, secondo il preciso copione perfezionato attraverso i secoli, la realizzazione occasionale di tali sanguinosi scontri, rivelandosi capaci d’infliggersi significative ferite a vicenda. Certo, a meno che, sfruttando una propria particolare propensione evolutiva, non riescano a decidere chi debba primeggiare sulla base di quel vistoso tratto di cui la biologia ereditaria è riuscita a dotarle. Se avete presente la proboscide dell’elefante marino (gen. Mirounga) dovreste, a questo punto, riuscire a immaginare ciò di cui stiamo parlando: una vistosa appendice floscia di pelle spessa e raggrinzita, che si agita a casaccio mentre l’animale solleva e muove la grande testa ruggendo tutta la sua furia invereconda. Ma il sistema d’attrazione usato da questi alternativi rappresentanti della famiglia Phocidae si espleta in una maniera che potremmo definire, sotto diversi punti di vista, decisamente più sofisticato. Grazie alla capacità di chiudere a comando le proprie gigantesche narici infatti, questi guerrieri del bagnasciuga possono ridirezionare la copiosa aria furiuscente dai propri polmoni all’interno di una serie di camere d’aria, la prima delle quali si trova in corrispondenza della fronte dell’animale. E la prima, alquanto incredibilmente, in corrispondenza della membrana che separa gli spazi all’interno del naso. Il che genera, in rapida sequenza, prima un rigonfiamento carnoso di colore nero e quindi un altro, sufficientemente venoso da apparire del rimanente colore utilizzato come titolo per il romanzo francese di Stendhal. Black & Red, the Devil’s dread. This one litoral, you shall not thread

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Seghe circolari, chiodi e ricci di mare: tre strane ruote che “aggrediscono” l’inverno

Per conoscere qualcosa, bisogna riuscire a dominarla; il che significa, in un’ampia gamma di contesti, riuscire a trovare il modo di sconfiggerla. Ed è una guerra, con tanto di vittime da entrambe le parti, quella combattuta dall’uomo nei confronti delle basse temperature. Che costituendo un’inviolabile morsa, tendono a cristallizzare ed impedire ogni possibile attività all’aria aperta. Pensate, per esempio, al ciclismo: frutto della pedalata che significa qualcosa di profondo, inteso come il desiderio di spostarsi e farlo con le proprie forze, solamente, in barba al monopolio tecnologico di Big Oil. Ma prova tu ad aggiungere uno strato, e quindi un altro, poi un cappello, i guanti e gli stivali (non dimenticare sciarpa e mascherina!) per scoprire come porre una barriera tra se stessi e l’insistenza inarrestabile del vento possa comportare, di pari passo, l’aumento esponenziale di goffaggine, ingombro e peso. Finché il mero gesto di tenere dritto quel manubrio, verso il senso ultimo dell’obiettivo di giornata, può riuscire a diventare una fatica eccessiva. Ed è allora che decade, la ricerca di una soluzione muscolare alternativa ALMENO CHE. Semplice ed esplicativo riesce ad essere il presente video, del celebre ingegnere internettiano The Q (@ThisIsTheQ). Il quale, ancora una volta in bilico tra il serio ed il faceto, assembla sotto i nostri occhi un qualche cosa che potrebbe rivoluzionare, per lo meno in via concettuale, il sempre difficile rapporto tra la propulsione a pedali ed i mesi più freddi dell’anno. Luogo: la nevosa superficie pianeggiante di un lago ghiacciato, ovverosia forse il meno adatto (e al tempo stesso attraente) degli ambienti possibili per compiere un’impresa di questa portata. Almeno finché, di fronte a un tale ostacolo, si erge il meccanismo della soluzione frutto di una mente fervida e mani operose, che consiste nello smontare via dal mozzo gli pneumatici del veicolo bi-ruota, per sostituirli tramite un qualcosa che trova la genesi all’interno di un contesto veramente… Originale. E non c’è spazio in questa circostanza per l’intero macchinario. Ma qui abbiamo modo di trovare, in modo alquanto sorprendente, due perfetti esempi delle lame usate per tagliare i tronchi tra le mura laboriose di una segheria. Vere e proprie seghe circolari, attentamente perforate al fine di agganciarsi, rimanendo altresì mobili grazie all’impiego dei cuscinetti a sfera d’ordinanza, alla riconoscibile struttura del telaio con sellino incorporato. Previa falsa partenza dovuta alla mancanza di trazione sulla superficie candida, tale da richiedere l’implementazione di piccole “traverse” prensili sui denti preoccupanti della sega. Ed è certamente una visione ansiogena, nonché molto preoccupante, quella offerta dal nostro eroe internettiano che affronta l’escursione lacustre pedalando allegramente, con il fondoschiena e gli stinchi a pochissima distanza da un qualcosa che dovrà riuscire a distruggere lo status quo, prima di riuscire a introdurre un capitolo nuovo. Lasciando uno spazio nella nostra trattazione, a tal proposito, la questione spesso tralasciata di come una sega per utensile elettrico sia relativamente poco affilata (in quanto funzionale a velocità di rotazione molto elevate) senza per questo nulla togliere al coraggio e la spregiudicatezza dell’avventuroso istrione digitalizzato. Che avrebbe potuto utilizzare con pari efficienza, e rischio assai minore, i semplici pneumatici maggiorati di quella che prende normalmente il nome di fat bike.
Ai posteri l’ardua sentenza, quindi, e con i posteri intendo chiunque abbia il senso pratico e l’immaginazione necessaria a traslare tale approccio fuori dallo scenario di un semplice video d’intrattenimento su YouTube. Il che non può prescindere, del resto, dal costituire base per la progressione ideale, che conduce in via diretta verso l’applicazione della stessa forma mentis verso gli esigenti requisiti del viaggio a motore; e lì, apriti, oh gelida tormenta che proviene dalle lande siberiane!

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Imponente vulcano di ghiaccio compare improvvisamente in Kazakistan

Persone normali che s’intrattengono in un pomeriggio normale, dinnanzi a un fenomeno particolarmente rappresentativo dei mesi d’inverno: la crescita prevista da queste parte, alta e superba, di un cono tozzo con tanto di profondo cratere sulla sua sommità. Dal quale fuoriesce, in copiose quantità in cadenza poco più che oraria, l’acqua semi-solida proiettata con tutta la potenza di un vero e proprio pozzo artesiano. Siamo sul ghiaccio, s’intende, e per essere più precisi nella gelida regione kazaka di Almaty, secondo il “pezzo” ufficiale tra i due villaggi di Kegen e Shyrganak. Il che presenta senz’altro qualche piccolo problema concettuale, vista l’assenza di significative quantità d’acqua tra l’uno e l’altro secondo Google Maps (fatta eccezione per uno stretto ruscello) benché campeggino almeno un paio di capienti laghi a circa 50-60 Km in direzione nord-ovest (il piccolo Bartogay) e sud-ovest (l’enorme Issyk Kul). Difficile, a questo punto, determinare il sito esatto di una simile scena, la cui portata immaginifica per la popolazione risulta nel frattempo perfettamente chiara; quanto spesso, d’altra parte, capita di vedere un piccolo monte sorgere nel giro di una singola notte, come i castelli o ponti edificati, secondo un diffuso corpus leggendario internazionali, da demoni, mostri o creature fantastiche della foresta? Almeno 10 metri di mura scoscese, composte di ghiaccio e neve ben compatta, come un pupazzo geologicamente corretto usato per dimostrare uno dei principi basilari della Terra: che esiste qualcosa di fluido, sotto la spessa crosta che ospita i nostri sforzi di creature “superficiali” e che i processi incaricati di trasformare continuamente gli stati della materia sono almeno parzialmente responsabili, della sua tendenza occasionale a scaturire in vistosi zampilli verso le argentate nubi disperse in cielo.
Il cosiddetto criovulcanismo dei laghi ghiacciati non è d’altronde dovuto a fenomeni idrotermali sul diretto modello magmatico, come si potrebbe istintivamente credere per l’analogia con il geyser, bensì il prodotto del semplice moto ondoso che si abbatte su coste dalle precise caratteristiche paesaggistiche, contribuendo a generare questo spettacolo certamente raro, eppure tutt’altro che inaudito.
La maggior parte delle trattazioni scientifiche in materia, filtrate occasionalmente nella coscienza pubblica e ripubblicate online per via di precedenti occorrenze, sono a tal proposito riferite a strutture simili formatesi a ridosso dei Grandi Laghi statunitensi Michigan ed Erie, già celebri per l’ampia varietà di strane visioni glaciali capaci di prendere forma ad ogni concludersi dell’annuale periodo estivo, tra cui: cumuli di sfere candide, “pancake” sovrapposti di neve o interi edifici ricoperti da uno spesso mantello costellato di stalagmiti. In funzione di una forte incidenza meteorologica dei venti e le basse temperature che possiamo, per deduzione, attribuire anche alla versione asiatica dello stesso rilievo tendenzialmente effimero, altresì dotato di una forma e una massa ancor più significative. Ma proveniente dalla stessa, identica serie di circostanze, frutto dell’implacabile termodinamica ed una concatenazione fruttuosa, di causa ed effetto contestuale alle ghiacciate opportunità del caso…

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