Gli abitanti di Bear Creek, piccolo comune fra i verdeggianti boschi dell’Alabama, avevano un problema. Da qualche tempo, per motivazioni niente affatto chiare, non gli riusciva di navigare su Internet col proprio cellulare. Niente più Google-are i risultati della partita di Football, hockey, etc…Del più recente fine settimana. Difficoltà notevoli nel caricare le foto di amici dell scuola, sul gruppo Facebook e sui vari blog nominativi del paese. La situazione, ecco, si faceva grave. Nei luoghi rurali, raggiunti da un segnale debole, si finisce per trovarsi legati al ripetitore del proprio gestore telefonico con un sottile filo serpeggiante. Ogni albero, palazzo e orso di passaggio costituiscono un ostacolo da superare, aggirare in qualche modo, al fine di raggiungere gli amati spazi virtuali. Porte o finestre della casa diventano le prese d’aria di un respiro sempre più affannoso, in cerca di quell’ossigeno ristoratore, l’enciclopedica via d’accesso per l’inter-mente digitale. E non c’è niente che sia primario a questo mondo, tranne il desiderio. Così, dovunque spuntano le antenne, empi obelischi acciaiosi, ricolmi d’escrescenze fungoidali e gongolanti, estetica devastazione dei paesaggi naturali. Qualcuno, con ottime intenzioni, cerca di mimetizzarle. Le tinge di verde, costruendole affusolate, come fossero cipressi. Non che questo basti ad ingannare l’occhio umano, ricco di discernimento. Chi mai scambierebbe una di quelle.. “Cose” per un vero albero? Soltanto colui che, ingenuamente, l’avrebbe fatto in ogni caso. Proprio perché, dotato dell’intelligenza del bisogno, guarda il contesto e non le forme. Lo sciocco. Il variopinto, l’operoso e caustico picchio delle ghiande americano (Melanerpes formicivorus) ispiratore, col suo insistente verso, del cartoonoso Picchiarello (alias Woody Woodpecker).
Questa è la storia di un tecnico antennista, con il mandato gestionale di una specifica antenna a microonde, che si recò sul posto, richiamato al suo dovere dalle numerose lamentele ricevute. Che salì sopra la sua scala, trovandosi davanti al favoleggiato attrezzo telematico, stranamente inefficace. E lo aprì!
Stati Uniti
Sotto il segno dell’aerografo spaziale
Centinaia di migliaia d’atomi d’idrogeno, polvere di stelle, dozzine di pianeti variopinti spruzzati gaiamente sulle superfici. Che New York fosse prettamente multiculturale, questo si sapeva, ma del suo lato galattico si parla molto poco. All’ombra degli svettanti grattacieli, tutto intorno ai colonnati della celebre Grand Central Station, fra una traversa e l’altra della pantagruelica Fifth Avenue, oltre i banchetti del gelato e dei panini, l’osservatore attento scorgerà delle finestre, bianche, in un primo momento, e poi subito rosa, viola, gialle o bluastre come nebulose siderali. Portali, ovvero fogli di carta lavorati per pochi minuti. Sono l’opera degli artisti della strada, espressionisti dell’aerografo, che con tecnica semplice (ma efficace) riproducono le astruse meraviglie dell’Universo più remoto. Nel campo della creatività grafica ci sono due registri contrapposti. Da una parte il regno dei metodi, dello studio conoscitivo e dei modelli. Poi, dall’altra, l’improvvisazione pura. Lontani dai musei e dalle gallerie d’arte della tradizione, giovani come questo si guadagnano dei dollari applicando vernice, spostandola di lato, imbrigliandola tramite l’apposizione di coperchietti rugginosi. Perché sminuire questa tecnica? Si tratta di un’invenzione comunicativa, come tante altre, che permette di produrre immagini tendenzialmente simili tra loro, però indubbiamente gradevoli, decorative. Se quel che conta è il solo risultato, questi quadretti della spray paint art sono difficili da criticare, facili da appendere a parete. E in fin dei conti, il merito che hanno, più che nell’ambito del prestigio misurabile, rientra in quello della filosofia. Miliardi di secoli nel nostro passato, con botto fragoroso, secondo le simulazioni e la teoria dei fisici, la materia si espanse in ogni direzione, costituendo galassie, stelle, pianeti e altri astri rarefatti. Non con calma, frutto dell’ingegno, ma tramite il sentimento della folgorazione, l’ineffabile casualità, si giunse all’attuale stato delle cose. Rappresentando il cosmo, si dovrebbe pensare a tutto ciò, includerlo nell’arte del momento. Il graffitaro, come questo suo vicino concettuale, l’artista galattico della mini-bomboletta, dedicano il tempo al solenne immaginare, piuttosto che al materialistico creare. Quest’ultimo gesto, a causa delle implicazioni tipiche di quel mezzo espressivo, si compie in due, tre, quattro minuti. E per giunta, all’incontrario.
Di spiriti maligni e droni spiritosi
Il problema non è mai la morte in quanto semplice concetto, che come dicevano gli epicurei: “[…] non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi”. Per chi di astrazione sa come sopravvivere, prosperando, la paura di simili questioni è condizione del tutto superabile, superficiale. Ben più amletico, piuttosto, sarebbe liberarsi della Morte. Quella sinistra figura in bianco e nero, proprio lei/lui/esso, candido teschio, mantello cupo e rovinato, magrezza da top-model con sfoggio d’occasionale falce acuminata, ricurva spargisangue dal sicuro effetto spaventoso. Soggetto classico di leggende medievali, vetrate funebri e solenni miniature, la sua figura ci perseguita da lungo tempo, turpe mietitrice, a tratti spietata, altre misericordiosa, sempre catartica e liberatoria. Di questi tempi ci pensiamo raramente, ma lei si annida nei tombini di strade trafficate, a disposizione degli attraversatori disattenti; nelle foreste di parchi battuti da un forte temporale, sotto l’albero più alto, bersaglio di fulmini funesti; sorvola la città, invisibile per tutti, tranne quei pochi “fortunati”. E qualcun’altro. Come le vittime di questo scherzo di Halloween, messo a punto dal comico americano Tom Mabe, famoso per molte candid camera e burle telefoniche di vario tipo.
L’atmosfera, in questo caso, colpisce subito per l’originalità: non c’è una situazione strana, il solito buffio doppio senso, oppure una delle mille altre scuse usate dai goliardi più iconici del web. Soltanto un personaggio, IL personaggio, che… Si aggira, con musica inquietante, volando. Perché naturalmente la Morte non cammina, fluttua. Colei che all’epoca di Abramo era stato un angelo, tra i guerrieri celti un corvo e per gli aztechi vagabondava nel cielo notturno, mangiandosi le stelle, non ha mai perso le sue ali. Al massimo, gli ha affiancato delle pale d’elicottero (telecomandato) usate per aggirarsi, con più disinvoltura, tra macchine e palazzi. Vuoi mettere giungere da dietro, sopra un paio di malcapitati joggers, alitandogli metaforicamente sulla nuca? L’effetto è assicurato. Sia glorificato il drone, strumento di un simile sollazzo. Peccato solo che quel grido ricorrente, ciliegina terribile di questo allegro video, sembra sia stato aggiunto in post-produzione. O forse meno male: non si sa mai, cardio-permettendo, ci serviva pure quella vera…
Le armonie vulcaniche di Holton Rower
La vernice che impreziosisce le tele degli autori, oppure le case e i mobili dei costruttori, è uno strumento difficile da controllare, tendenzialmente disinteressato ai nostri molteplici bisogni. Va mescolata, ben disposta col pennello, sfumata e lasciata ad asciugare mediante l’impiego di metodi particolari; guai, a chi dovesse trattarla senza l’adeguato senso di rispetto. Quel fluido ribelle, colando a destra e a manca, farebbe i suoi spietati comodi, a danno dell’ambiente circostante. Lo capiscono la panchina scolorita, il muro screpolato, l’automobile arrugginita…E i loro sfortunati utilizzatori, soggetti ai crismi dell’imprecisa copritura. Chiunque apra quel barattolo, evocatore del genio semi-liquido pigmentato, deve farlo a suo rischio e pericolo, con limiti di tempo e potenzialità. Non si cancellano gli errori. Dieci minuti, oppure 10 ore, non importa: esaurita l’alchimia, tutto torna fisso minerale, sedimento fragile, impossibile da plasmare. Finisce, insieme all’ipotesi dell’arte. E ogni lasciata è persa, senza fune di recupero, nel perenne regno del rimorso e del colore. Perciò, da tradizione, si studia molto a lungo, onde poter stendere un progetto, oppure un disegno, prima di operare. Soprattutto sarebbe questa, secondo molti, la vocazione del pittore. Ovviare con l’ipotesi, correggere prima del tempo, applicar la tempera, l’olio, il pennarello soltanto con l’opera già fatta (nella sua mente). Per creare, nel mondo fisico, un regno della perfezione.
Questa configurazione visuale sarebbe dunque il grande merito dell’Accademia, intesa come scuola classica di matrice antica, pura, dedita nella ricerca del sublime. Nonché, talvolta, uno fra i limiti più stringenti, tra tutti quelli posti alla creatività dell’uomo. Perché l’arte che realmente rappresenti la natura, per sua stessa definizione, dovrebbe prescindere da limitazioni di genere e contesto. Come ogni altro processo generativo, sia o meno lo sfoggio d’intuizione, manualità ed esperienza tecnica applicata, oppure, persino, in assenza volontaria di tali elementi. Come insegnava la dottrina del Taoismo, a volte la saggezza è l’inazione (wu-wei). Lasciando che le cose prendano l’iniziativa, se ne può restare affascinati.