L’albero capace di rappresentare una potente multinazionale

Una delle notazioni preferite dai giovani studenti di storia del Giappone è quella relativa all’origine delle zaibatsu, i conglomerati aziendali capaci di trarre nutrimento dalla fertile economia di un paese neo-moderno, per estendere i propri rami come fossero tentacoli affamati in direzione d’Occidente: “Le aziende nipponiche sono DIVERSE, perché provengono dal mondo dell’etica samurai. Così come la politica di quel paese, soltanto in parte appannaggio delle ricche lobby dei mercanti di epoca Edo” Il che può dirsi almeno formalmente vero, in una serie di casi in cui i famosi generali della nazione, trasformatisi in burocrati al termine delle guerre civili, s’impegnarono a fondare questa o quella forma embrionale di un’azienda tutt’ora esistente: Mitsubishi, Suzuki, Yamaha…. Non a caso, ancora oggi, una quantità preponderante di aziende più che secolari proviene proprio da questo tipo di contesto geografico e sociale, il che implica uno specifico approccio comunicativo e simbologia. È piuttosto facile intuire, tuttavia, come una tale generalizzazione dei concetti non possa che fallire nell’applicarsi al caso della Hitachi, la compagnia multi-settore nata come produttrice di batterie nel 1910, ad opera di un ingegnere elettrico di nome Namihei Obaraki e il suo finanziatore Fusanosuke Kuhara, a quel tempo proprietario di una miniera nella prefettura di Ibaraki. Riconvertita all’economia di guerra durante il secondo conflitto mondiale e per questo duramente colpita nei suoi stabilimenti dalle bombe degli americani, per trovare quindi una diversa dimensione come azienda quotata in borsa a partire dal 1949. Solida e resistente alle intemperie, come una pianta alta e orgogliosa, ovvero quella che fu scelta a partire dal 1973 per rappresentarla in molte pubblicità dinnanzi allo specifico pubblico dei suoi clienti giapponesi.
La prima cosa da sapere in merito all’albero della Hitachi, raramente utilizzato nelle comunicazioni internazionali ma molto famoso in patria, è che esso non si trova affatto presso il “sacro” suolo del paese degli Dei, bensì in un luogo che dal punto di vista del presunto nazionalismo locale, dovrebbe essere considerato uno scenario di terribile sventura: l’arcipelago nel mezzo del Pacifico delle isole Hawaii, e per essere più specifici all’interno di un giardino appartenuto a niente meno che re Kamehameha V, al secolo principe Lot (1863-1872) famoso per il suo amore nei confronti delle arti, la musica e la cultura. Il che l’avrebbe portato, negli anni più attivi del suo regno, a costituire un’enclave tanto botanicamente rilevante all’interno della quale preservare la pratica della hula, danza tradizionale particolarmente invisa ai missionari cristiani. La quale viene ancora praticata in spettacoli frequenti all’interno del terreno privato dei Moanalua Gardens, da un certo tipo di maestranze locali e allo scopo di attirare l’attenzione dei turisti, benché almeno nel caso in cui questi ultimi provengano dal Sol Levante, non riesce in alcun modo a competere con la capacità di attrazione e coinvolgimento dello svettante arbusto posto nella radura centrale, semplicemente iscritto nella loro mente fin dai lunghi anni trascorsi davanti ai cartoni animati e la Tv. Un perfetto rappresentante della specie Albizia saman, altrimenti detto albero della pioggia o in lingua inglese monkeypod (baccello delle scimmie) per l’amore dimostrato dai primati, nell’ampio areale della sua diffusione cosmopolita, nei confronti del frutto scuro simile a quello prodotto della pianta dei piselli. Con la quale risulta essere in effetti strettamente imparentato (fam. Fabaceae) pur presentandosi con un aspetto molto più imponente e maestoso.
Stiamo parlando d’altra parte di una pianta ad alto fusto, originaria della zona mesoamericana, tanto ampia ed elegante da aver dato origine alla leggenda dell’inizio del XIX secolo secondo cui niente meno che Simón Bolívar, grande libertador e rivoluzionario dell’America Latina, avrebbe fatto riposare il suo intero esercito sotto le fronde di un singolo esemplare. E benché non sia tutt’ora noto, esattamente, quale manager di medio livello all’interno dell’ormai finanziariamente stabile Hitachi sia rimasto colpito per primo dall’esempio pluri-secolare di Moanalua,  resta un fatto acclarato che esso sia valso alla famiglia Damon, proprietaria dei giardini dall’epoca della fine della monarchia, una quantità di finanziamenti per il suo mantenimento stimata attorno ai quattro milioni di dollari. Davvero niente male, per 25 metri di tronco e un ombrello di fronde dal diametro di 40 metri, capace di prosperare senza particolari interventi da parte degli umani…

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Lakhta Center, la spirale di acciaio e vetro nei cieli di San Pietroburgo

Forse l’avrete sentito nella distanza, durane il corso di quest’estate. Il sibilo del vento costretto a deviare, e il rombo meccanico delle gru, impiegate nell’installazione del complesso sistema modulare, appuntito come la sommità di una lancia, impiegato per coronare il nuovo edificio più alto di tutta la Russia e d’Europa (tredicesimo nel mondo) 462 metri adibiti ad uffici, spazi espositivi, zone panoramiche e sale di rappresentanza. Splendido e solitario, fatta eccezione per il centro congressi alla sua base, come un emblema dinnanzi al golfo di Finlandia, non troppo distante da uno degli stadi dove sono stati disputati gli stessi mondiali di calcio dello scorso giugno…
Quando si osserva la distribuzione progressiva dei grattacieli all’interno di uno spazio urbano, è impossibile non notare una certa somiglianza coi ritmi rigenerativi della natura, per come trovano sfogo a seguito di un incendio nella foresta. Con la città che si sviluppa, dapprima, in maniera per lo più orizzontale (crescita dello strato precoce del sottobosco) per poi trovare il posto, nei suoi quartieri di maggior valore, ad alcuni importanti e svettanti edifici (propagazione degli alberi a grande fusto ) seguìti dalla comparsa, attraverso un percorso che può durare mesi o anni, dei teneri virgulti destinati a colmare lo spazio concettuale intermedio (grandi condomini, centri commerciali, ingombranti uffici governativi…) Sulla base di una tale metafora non può quindi che lasciare stupiti, la lenta crescita a partire dall’ormai remoto 2012, nella zona costiera di San Pietroburgo, di questo monumentale pseudo-cipresso, il più alto che abbia mai fatto la propria comparsa su questa boscosa Terra. Il che lascia soltanto una singola possibilità: che debba essere l’opera, indubitabilmente, dell’infinita creatività umana.
O per essere più specifici, il frutto immanente del commissionamento, ad opera della colossale compagnia russa Gazprom, di un nuovo quartier generale presso la seconda città del paese, e dell’ingegno di almeno due compagnie d’architetti britanniche. La RMJM di Edinburgo e la londinese Kettle Collective, già autrice del magnifico ascensore per barche sul canale della città di Falkirk, dall’iconica forma che ricorda un’ascia celtica, grazie a un’idea del fondatore e attuale capo, Tony Kettle. Ciò detto, nel caso del palazzo di San Pietroburgo la questione diventa più nebulosa, con le due compagnie che si sono scontrate a più riprese, arrivando a minacciare azioni legali, su chi abbia effettivamente il merito di aver concepito l’idea che si trova alla base del Lakhta Center. Che aveva trovato l’ispirazione, in effetti, dallo stesso processo fin qui descritto, con una collocazione concepita originariamente nei pressi del centro storico, di fronte a niente meno che la cattedrale di San Pietro e Paolo, con il suo pinnacolo appuntito da sempre considerato un simbolo della città. Se non che l’UNESCO nel 2016, dimostrando ancora una volta la sua importanza a livello internazionale, non si trovò a minacciare il sindaco di declassare lo stato di patrimonio all’intera capitale di Oblast, se davvero fosse stato compiuto un simile affronto verso il suo patrimonio storico senza prezzo. Parole abbastanza pesanti da far rivedere il progetto, collocando le 670.000 tonnellate di questo gigante, piuttosto, in corrispondenza della zona costiera urbana. Non che ciò sia bastato ridurre il suo fascino, anzi…

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Il profeta che ha visto il futuro dei viaggi aerei canadesi

Quindici minuti dopo il decollo dal LAX (Los Angeles International Airport) la curvatura della Terra iniziò a farsi decisamente più pronunciata. Le nubi distanti, visibili dai finestrini di vetro ultra-resistente, formavano delle spirali vagamente ipnotiche che tendevano verso i due poli. Nel grande spazio dedicato ai sedili dei 75 fortunati passeggeri del volo d’inaugurazione, le luci si fecero momentaneamente più soffuse, lasciando che l’indicatore rosso fuoco delle cinture di sicurezza risaltasse ancor di più nel punto di convergenza prospettica della cabina. Proprio in quel momento, mentre il personale di bordo terminava il suo giro di perlustrazione per controllare che nessuno avesse contravvenuto alla regola, la voce del comandante risuonò dagli altoparlanti: “Signori e signore, grazie per la pazienza. Ora che siamo in quota, il velivolo sta per passare alla modalità pre-orbitale. Siete pregati di sopportare il piccolo scossone. Potrebbe risultare udibile un forte suono in lontananza. Ben presto, potrete mettervi comodi e reclinare i sedili.”  Sul maxischermo frontale comparve un conto alla rovescia di 30 secondi, che rapidamente andò verso l’esaurimento. Raggiunti i numeri a cifra singola, proprio mentre una buona percentuale delle persone a bordo tratteneva istintivamente il fiato, il suono dei motori si fece diverso, quindi cessò del tutto. Un brivido percorse l’ambiente, mentre l’assetto di volo cambiava in maniera impercettibile, quindi ci fu un brusco aumento di accelerazione: ora che l’aereo si trovava oltre i limiti della mesosfera, l’aria si era fatta talmente rarefatta che il sistema di raffreddamento LPM poteva essere spento del tutto. Senza dover più mantenere lo scudo termico creato dai propulsori rivolti in avanti lungo l’intera superficie delle ali, finalmente il Paradoxal poteva dare sfogo alla sua impressionante potenza. Fu in quel preciso momento che, come da programma, il contatore scese a zero. I due motori ramjet rotativi R4E, temporaneamente a basso regime, vennero irrorati di ossigeno liquido, trasformandosi sostanzialmente in dei razzi per astronavi. Il muso s’inclinò bruscamente verso l’alto, in una  traiettoria a parabola puntata dritta verso le stelle, e poi verso l’obiettivo sicuro dell’aeroporto d’arrivo, in terra d’Australia. L’indicatore di velocità a beneficio dei rappresentanti della stampa, a quel punto, aumentò vertiginosamente, fino a 15 volte (Mach) la velocità del suono.
Un volo impressionante. Un volo spettacolare. Ma soprattutto, mostruosamente rapido. Charles Bombardier, l’inventore di questo concept che potrebbe trovare realizzazione entro “i prossimi 50 anni” ha calcolato che il raggiungimento della città di Sydney, a partire dalla costa occidentale degli Stati Uniti, potrebbe richiedere all’incirca un tempo di tre ore, contro le 12 necessarie oggi. Una resa superiore a tal punto, rispetto a quella delle precedenti iterazioni nel campo dei voli supersonici civili, da giustificare una nuova categoria di aeromobile, non più semplicemente super-, bensì addirittura iper-sonica. Molto al di là di quanto promesso, in maniera molto più diretta e credibile, alla recente proliferazione di progetti destinati a resuscitare il mito dell’indimenticato Concorde. L’inventore e folle visionario in questione, del resto, non lavora in alcuna azienda ufficialmente operativa nel campo dell’aeronautica, benché porti il nome di una delle più famose al mondo, e lavora più che altro di (utile) fantasia, grazie al suo incubatore di talenti e scuderia di startup denominato Imaginactive. È una condizione assai particolare, la sua, che tuttavia può essere compresa facilmente attraverso un’analisi delle spontanee pulsioni umane. Charles è il nipote del grande industriale canadese Joseph-Armand Bombardier, che dopo aver fatto la fortuna inventando negli anni ’30 il concetto di gatto delle nevi, pose le basi affinché nel 1986 i suoi eredi potessero acquistare la compagnia Canadair, entrando a pieno titolo nel campo della produzione d’aerei. Ma la vita in azienda, particolarmente se da condurre al vertice, richiede notoriamente una particolare sensibilità e impostazione caratteriale. Ragione per cui, un po’ come l’italiano Lapo Elkann, piuttosto che seguire una via di carriera che era già chiaramente tracciata di fronte a lui, egli decise nel 2008 di costruirsi una sua realtà operativa, lasciando la posizione di consulente tecnico della compagnia di famiglia. Con la differenza che il suo campo operativo preferito, piuttosto che il marketing, era quello dell’ingegneria, come esemplificato dalla laurea conseguita presso la École de technologie supérieure a Montreal, nel Quebec. Sfruttando la quale, ben presto, iniziò a sognare.

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In questi hangar sta nascendo il successore del Concorde

Mach 2,2: 2300 Km/h. Abbastanza per percorrere la distanza da New York a Londra nel giro di 3 ore e 15 minuti. Essenzialmente, attraversare l’Atlantico nel tempo di un (lungo) film. Diciamo Interstellar di Christopher Nolan, o The Hateful Eight di Q. Tarantino. Ovvero investire una porzione del proprio tempo che, molto spesso, è considerata giustificabile per portare a termine una storia di fantasia, ma che può permetterci di sperimentare a pieno gli effetti di un’inversione drastica del nostro effettivo fuso orario. Sperimentando in prima persona gli effetti di una vera e tangibile avventura. Che presto ripartirà da zero, proprio nell’hangar 14 del Centennial Airport, presso Denver nello stato del Colorado.
Cosa c’è alla base di un contratto da 10 milioni di dollari da parte dei giapponesi della JAL e altrettanto da Sir Richard Branson della Virgin Group, per l’investimento iniziale in un progetto che potrebbe anche riuscire a cambiare il mondo? Scotch, pannelli di compensato, polistirolo. Un team affiatato di giovani ingegneri, all’interno di un tunnel del vento, che testano le prestazioni del loro slanciato giocattolo aeronautico. È sorprendente notare come ai massimi vertici della sperimentazione, sussista un atteggiamento simile all’intrattenimento che ricorda molto da vicino quello di un club di acrobati del radiocomando. Il che dimostra l’importanza, fin dalla tenera età, di dedicare il proprio tempo allo svago. Come il cucciolo di tigre che lotta con suo fratello, per imparare a rincorrere l’antilope: costruire è un atteggiamento innato dell’essere umano. Dare forma alle proprie idee. Si tratta poi di un caso per lo più fortuito, eppure per nulla casuale, quando quei pensieri si rivelano talmente utili, in potenza, da trovare qualcuno che possa renderli una velocissima scheggia di realtà. Il punto particolare di questo aereo tutt’ora senza nome, ma che certamente includerà in qualche forma l’appellativo della sua compagnia produttrice, la Boom Technologies di Denver, è proprio questo suo provenire, per una volta, dal mondo più largamente onirico delle nuove generazioni. Piuttosto che da polverosi e prestigiosi dipartimenti di spropositate multinazionali, come le solite Boeing, Airbus o Lockheed. Tutto è iniziato, in effetti, verso del gennaio del 2016, quando le due figure chiave di Blake Scholl (CEO) e Joe Wilding (capo ingegnere) hanno presentato il loro velivolo al programma d’incubazione delle startup Y-Combinator, nel cuore della California tecnologica a Mountain View. Immaginatene quindi voi, l’effetto: in una sala conferenze dove erano passate fino a quel momento una manciata di App, qualche sito web, un telefonino o due, ovvero tutti gli stereotipi di questa seconda decade degli anni 2000, all’improvviso si è profilata la sagoma di qualcosa che potremmo definire, senza un minimo di esitazione, un sostanziale anacronismo. Qualcosa di molto futuribile oppure, vuole il caso, appartenente al mondo del secolo passato. Quando i genitori o nonni della presente generazione, piuttosto che occupare principalmente lo spazio digitale, usavano spostarsi attraverso lo strumento del viaggio fisico, un proposito portato a compimento grazie, il più delle volte, ad una coppia di motori lanciati lassù, nell’empireo delle circostanze terrestri.  Ovviamente, di aerei per il trasporto passeggeri ne abbiamo molti, anche oggi, alti, oblunghi, piccoli e grandi. Ma che possano fare questo, nessuno più, ormai. Provate a chiedere, soltanto qualche anno fa, a un direttore di linea aerea che opinione avesse del volo supersonico: una follia, dai costi impressionanti per l’operatore ed i passeggeri, costretto a decollare il più delle volte con la metà dei sedili vuoti, semplicemente perché non si erano trovate abbastanza persone in grado di permettersi l’esperienza. 10.000, 15.000 dollari per raggiungere un diverso continente. Roba da nulla se sei un sultano, un gerarca russo o il re di un vecchio potentato europeo. Ma persino un direttore d’azienda, nell’epoca del boom economico, si sarebbe trovato in difficoltà a giustificare una simile spesa. Figuratevi nel clima economico attuale. E proprio questo era, fondamentalmente, il problema del Concorde. Oltre alla sua, non del tutto ingiustificata, fama per un grado di sicurezza inferiore a quello di un comune aereo di linea. Ma questo fu anche una parte del suo fascino, per alcuni…
Il punto è che i tempi cambiano, e con essi lo fanno i presupposti. Quello che 48 anni fa costava 10, oggi si può realizzare con 5 appena, o persino 2. Poiché esistono strade alternative, capaci di ottenere lo stesso risultato in maniera molto più semplice e diretta. Cruciale nel piano di fattibilità della Boom è stato fin dal primo momento l’impiego di polimeri a base di carbonio per realizzare la carlinga, piuttosto che il tradizionale alluminio, attraverso un processo di lavorazione che risulta essere al tempo stesso molto meno costoso e più resistente agli stress prodotti dal volo a due volte al velocità del suono. Mentre i motori, piuttosto che degli enormi sistemi a jet dotati di afterbuner, saranno tre grandi turboventole del modello a geometria variabile General Electric J85-21, appositamente potenziate per arrivare a produrre la spinta necessaria. Con il risultato, assolutamente cruciale, di diminuire in modo significativo i consumi, permettendo potenzialmente di offrire un posto al cliente finale a un prezzo in linea con la business class degli aerei convenzionali. Andata e ritorno, qualche migliaio di euro. Adesso si, che s’inizia a ragionare…

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