Come nasce la perfetta circonferenza della ruota di un carro

Osservando l’artigiano all’opera, in poco tempo si trasforma in una semplice necessità: l’aspettativa, il senso d’impellente e massima realizzazione, che attende a palesarsi nel momento in cui l’oggetto di tanto lavoro potrà dirsi, al volgere di pochi attimi, completo. Ovvero la chiave di volta, in senso metaforico, di un simile arco di tempo che si estende da A a B, che poi sarebbero l’Avvio e la fine, di un simile viaggio dall’acquisizione di un Bisogno, fino al più completo espletamento della sua realizzazione manuale. Così nacque, in tempi antichi, il principale mezzo a nostra umana disposizione per spostare carichi all’interno di un percorso pre-determinato: ciò che gira e nel far questo, trasla in senso orizzontale il carico che deve sostenere: la carrozza. E così nasce ancora, a dire il vero, la sua ruota (in numero di quattro) che è nei fatti risultanza di un lungo processo evolutivo, forse il più importante dell’intero progresso compiuto fin dall’epoca della Preistoria; soprattutto nel caso specifico in cui l’esempio preso a termine di paragone appartenga alla visione di un cosiddetto wrytha o lavorante del legno, da un antico termine in lingua inglese medievale (come esemplificato da termini quali ship-wright, ark-wright o per l’appunto, wheel-wright) che adduce l’ultimo elemento nella “cerchiatura del quadro” per così dire, piuttosto che il più celebre contrario, consistente in un lungo nastro in acciaio fornito potenzialmente da un fabbro. Ripiegato su se stesso e successivamente sottoposto a saldatura, al fine di costituire un tutt’uno indiviso. E sarebbe di sicuro logico venire a immaginarsi, un simile implemento, come misurato al fine d’essere dotato di una singola circonferenza pari al resto dell’oggetto circolare di cui dovrà essere la protezione (tyre ovvero in gergo odierno, pneumatico. Ma non v’è nulla di “pneumatico” nel nostro caso). Quando la realtà dei fatti è che la misura di una tale cosa, per sua massima intenzione costruttiva, risulta essere minore a quella in apparenza necessaria. Proprio per il fine di tenere assieme, con la massima pressione da ogni lato, i singoli pezzi o componenti di un così prezioso approccio alla logistica veicolare. Come fare, dunque, per calzare un tale oggetto fuori dallo schema della semplice evidenza? Se non così: fuoco, fiamme, massimo calore! Prodotto al fine di modificare temporaneamente malleabilità e tensione, della struttura molecolare dell’Anello, per domarlo e incatenarlo, spingerlo all’esterno di quel cerchio ligneo costruito con tanta attenzione. Affinché nessuna cosa, o persona, possa in seguito riuscire a disgregare ciò che un simile Demiurgo, grazie alla sapienza di generazioni, ha costruito.
Il processo noto come tyring della ruota, dunque, si mantiene oggi vivido grazie all’impegno di pochi superstiti dell’Arte, che lavorano principalmente ad opere di restauro, per le rievocazioni storiche o le fiere. Risultando, nondimeno, gli ultimi depositari di un possente repertorio di nozioni, teoriche ed al tempo stesso manuali, la cui importanza per la stratificata struttura della cultura contemporanea risulterebbe, nei fatti, difficile da sopravvalutare. Poiché all’acquisizione dell’intera faccenda, e la sua profonda presa in carico dai nostri processi d’analisi, quel singolo momento succitato, di chiusura e massima liberazione, non è che il punto d’arrivo di una serie lunga e articolata di passaggi, costituendo in tale modo un sentiero privilegiato per comprendere come sapienza e saper fare, tanto spesso, vadano a braccetto. Ed ogni singolo istante, di un qualsiasi valido processo creativo, contenga in se stesso il seme potenziale di un’importante lezione…

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L’enorme casa fatta galleggiare sulle acque di Chesapeake Bay

Gabbiani e pesci, per un attimo, sembrano tacere. Non c’è un singolo battito di pinna, o frullar d’ali: poiché mai, prima di allora, si era visto uno spettacolo di tale caratura. Tetto a cuneo, tre abbaini (ed altrettanti piani) due camini, trasformati in improbabile polena di una vasta nave. Al cui confronto, il magico Castello Errante delle fiabe par soltanto l’antefatto di un racconto da marinai… Per così tanti anni, la forma squadrata e quasi monumentale del vecchio edificio aveva costituito il principale tratto distintivo di Chapel Road a Easton, nella contea di Talbot, stato nordamericano del Maryland. Centro di una piantagione, poi allevamento di bestiame, quindi magazzino e infine casa un po’ dismessa di un fioraio, per un periodo di quasi 50 anni. Nel corso dei quali, il verde lussureggiante in mezzo a cui era stata originariamente costruita aveva lasciato il passo al duro asfalto di una periferia di media intensità, con fast-food, negozi e le tipiche villette a schiera del senso abitativo di quei luoghi. Per anni, anni e anni ci si può abituare a vedere un’ombra ai limiti più estremi dello sguardo, senza rivolgergli null’altro che un pensiero transitorio. Finché un giorno, all’improvviso, ci si accorge che un QUALCOSA è cambiato; dov’è finito il grande oggetto verso cui avevamo l’abitudine di rimanere indifferenti? Com’è possibile che il nostro mondo sia finito sottosopra, all’improvviso, almeno in merito a un’aspetto tanto secondario, ma… PESANTE? Risposte che in perfetta linea con le nostre aspettative, oppure chi può dirlo, andrebbero cercate nella mano umana: quella stessa forza inarrestabile che oltre due secoli e mezzo fa, una tale cosa, l’aveva costruita! Poiché niente può dirsi impossibile, quando sussiste il senso universale della Volontà. Ed un milione di dollari, per stipendiare specialisti inveterati del settore “spostamento casalingo” che appartiene, sin da tempo immemore, alla tipica visione “americana” delle circostanze. Perciò, “La villa di Galloway? Bella si, ma non mi piace il vicinato. Sarebbe possibile, che so, spostarla verso l’altro lato di quella penisola che si compone per metà del Delaware, e l’altra metà, all’interno dello stato che chiama Annapolis la propria capitale?” A parlare: Christian Neeley, un uomo (facoltoso) con una visione, o forse sarebbe può giusto definirla la missione, in grado di cambiare in modo radicale il già citato punto d’origine, così come l’ultima destinazione, presso il lungomare di Queenstown noto come Cheston on the Wye 25 miglia più a settentrione, al fine di trasformarla nel punto d’incontro e coabitazione di ben tre generazioni della propria famiglia, che i casi della vita avevano da tempo indotto ad avviarsi lungo percorsi differenti.
Ora, normalmente, chi si trasferisce all’interno di un condominio invia una comunicazione ai suoi vicini, per scusarsi degli eventuali disservizi causati dai propri lavori di ristrutturazione, oppur l’arrivo dei veicoli che si occupano del trasloco. Ben più difficile, piuttosto, il caso di qualcuno che deve avvisare ogni abitante della zona limitrofa, per deviazioni al traffico e complicate manovre di carico/scarico portuale. Ma sarebbe certamente riduttivo, immaginare di ridurre una vicenda tanto affascinante al mero aspetto finale di una tanto complicata migrazione. Poiché è qualche volta il viaggio stesso (via mare) a custodire il nesso e il nocciolo della questione…

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L’espediente logistico dei camion che si alzano per salutare il Sole

Moderna cavalletta di metallo che s’innalza, le sue zampe quasi perpendicolari al suolo. Una testa temporaneamente priva di occhi, scesi prima di effettuare il gesto e dare l’ordine: “Capo, siamo pronti. Sollevare!” Quale verso può seguirti, nel tuo lungo viaggio verso il cielo? Che pensieri ti accompagnano al momento in cui sarai di nuovo libera, dal peso e dal bisogno, dallo stato di suprema servitù procedurale? C’è in effetti un sentimento, che prende l’origine all’interno del “cervello” rimovibile di simili creature (colui o colei dotato/a, per sua autonoma immanenza, di due gambe, di due braccia… E così via a seguire) e che matura dal momento esatto in cui la coppia di esistenze si ritrovano a collaborare, ricevendo da una terza parte il carico alla base della loro operazione. Che può essere di molti tipi, ma il peggiore, da molti punti di vista, è quell’ammasso indivisibile, o Zeus non voglia che si tratti di biomassa (orribile, maleodorante. Benché un ottimo concime) o ancora oggetti piccoli e persino granulari, fluidi simili alla sabbia; roba, insomma, che una volta dentro al tuo cassone non sarà poi tanto rapida a lasciarlo.
Già perché la cavalletta, in molti tendono a chiamarla un autoarticolato. Ed il momento che sto descrivendo è la Consegna: quando l’eventuale stress accumulato, in una guida lunga centinaia, oppur migliaia di chilometri, deve trasformarsi nella forza necessaria per portare a termine l’ultima delle sfide: manovrare col velante, con il cambio ed i pedali, finché il mostro insettile non venga messo in posizione. Affinché la natura, se così siamo disposti a definirla, possa compiere il suo corso pre-ordinato. Ora mettere qualcosa dentro, ovvero dare da mangiare alle creature di quel mondo, non è mai difficile. Mentre arduo tende a risultare, sopratutto per quelle cose che non possono fare affidamento su un sistema digerente, tende a volte a risultare l’escrezione. Il che in ultima analisi, non è certo condizione necessaria nella vita del trasportatore! Quando esiste, sul pianeta Terra, quella forza che può compiere il miracolo sostituendosi a noialtri, le persone. Già, la forza che governa sopra tutte le altre: che dicono si chiami Gravità.
Ecco dunque la ragione, di una simile Fatica: quelle “zampe” sono parte, a conti fatti, di un dispositivo. Idraulico, possente, fatto tutto di metallo. Che una volta preso il camion dalle redini del suo padrone, sfruttando l’energia che viene da una serie di motori elettrici, lo sollevano fino a un’angolazione di 60, 65 gradi. E poi lo scuotono, con poderosa enfasi, facendo fuoriuscire tutto il contenuto del suo corpo cubitale. Semplicemente magnifico, a vedersi! E stranamente sconosciuto, fuori dal proprio settore tipico di appartenenza. Che può includere, a seconda dei casi, il trasporto di segatura, carbone, pietrisco e altri materiali da costruzione, pneumatici, grano e addirittura frutti della terra come le patate o rape, indelicati per definizione, privi di un qualsiasi filtro dai detriti fino al termine ultimo della filiera. Detriti che finiscono, tutti assieme, entro il silo o nastro trasportatore situato sotto quello che potremmo definire, in lingua inglese, come Truck Dumper o Hydraulic Dumper. Oppur nel nostro idoma, lo Scaricatore. Imparare a conoscerlo, è dovere…

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Le turbine a gas che ritenevano di poter vincere la 24 ore di Le Mans

Nell’approccio alle operazioni finanziarie comunemente definito Top-Down Economy, l’investitore osserva la situazione generale per fare le sue scelte in base ai trend di tipo trasversale, piuttosto che prendere in considerazione la condizione dei singoli titoli o il successo e l’insuccesso delle aziende. Ciò potrebbe portarlo, nello specifico, ad acquistare solamente titoli ad alto rischio, mancando d’inserire nel suo portafoglio la “base solida” di obbligazioni, fondi o simili strumenti di supporto… Ossia decidere di spingere a fondo ogni qualvolta sembri di essere su un rettilineo, piuttosto che considerare l’approccio ragionevole che può venire dal naturale pessimismo umano. E se dovessimo pensare a quei piloti, nella storia dell’automobilismo competitivo, che sembrerebbero aver vissuto la propria intera carriera su di un presupposto simile, sarebbe difficile non dare spazio al nome americano di Ray Heppenstall, colui che nel 1968 sembrò decidere che se il turbo era abbastanza grande, non c’era semplicemente alcun bisogno di altre componenti del motore! Accendendo (letteralmente) quella serie di processi mentali e operativi che lo avrebbero portato, entro la fine di quei campionati di gare sanzionati dalla SCCA e FIA, al volante della Howmet TX (Turbine eXperimental) una macchina capace di ululare come un lupo alla ricerca del suo branco… Mentre si appresta a sorpassare i suoi rivali, senza neanche l’ombra di un cambio di marcia.
Spesso citata nei repertori antologici come uno veicoli più distintivi della sua Era, questa è stata l’automobile, più d’ogni altra, ad aver dimostrato che comprimere ed espandere dei fluidi all’interno del ciclo di Joule-Brayton poteva costituire una metodologia valida, oltre che nella motorizzazione aeronautica, anche alla creazione di sistemi per lo spostamento stradale. Rappresentando, nei fatti, l’unica rappresentante della sua categoria ad aver mai vinto una gara ufficiale (anzi, due) prima di doversi arrendere al flusso irrimediabilmente convenzionale della storia tecnologica a quattro ruote. E progettata con un certo senso di affinità al regno delle cose che volano nei Cieli, in un certo senso, lo era sempre stata, vista la provenienza dei suoi due motori, presi in prestito direttamente dal progetto per un elicottero militare della Continental Aviation & Engineering, poco dopo che l’appalto venisse inaspettatamente spostato altrove. Il che, naturalmente, non sarebbe certo bastato per aprire la pista ad un simile progetto rivoluzionario, se l’ideatore Heppenstall non avesse potuto disporre, in aggiunta alla sua mente visionaria, di almeno un paio di conoscenze nei luoghi giusti: primo, il vecchio amico Tom Fleming, parte del consiglio di amministrazione dell’eponima compagnia metallurgica Howmet, in grado di convincere il suo capo che la sponsorizzazione di un team automobilistico avrebbe potuto costituire, in quel momento, una mossa scaltra nel panorama competitivo del marketing di quel settore. E secondo, il costruttore e carrozziere Bob McKee della McKee Engineering di Palentine, Illinois, uno dei pochi tecnici che avrebbero potuto dare forma (ed un volante, pneumatici…) al suo strano sogno, benché non fosse mai stato in effetti totalmente privo di precedenti. Già il manager del team STP Andy Granatelli aveva provato in effetti, nel 1967, a far competere nell’Indy 500 un veicolo spinto unicamente da un grande turbo, così come la Lotus 56, all’inizio del ’68, era scesa in campo nella stessa gara per il tramite del progettista Maurice Philippe. Anche la Chrysler, nel frattempo, aveva iniziato pochi anni prima a dare in leasing temporaneo esemplari della propria rivoluzionaria Turbine Car. I quali tuttavia mancarono di fare breccia nell’interesse del grande pubblico, così come le controparti competitive, per una ragione o per l’altra, mancarono sempre di riuscire a vincere le proprie gare. Ma le cose, apparve chiaro fin da subito, stavano finalmente per cambiare…

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