Il robo-insetto che si poserà sulla pala eolica più alta del mondo

Telecomandi ponderosi, oggetti carichi di una certa potenzialità immanente, strumenti utili ad assolvere uno scopo. Dotazione assai probabilmente irrinunciabile, prima di un tempo mediamente lungo, nell’equipaggiamento degli addetti alla manutenzione di un settore in cui funambolia, alpinismo e navigazione su veloci lance a motore erano soliti trovar l’incontro, impegnativo altresì rischioso, per garantire un funzionamento idoneo della filiera elettrica dei nostri giorni. Filiera composta in una certa piccola, ma importante percentuale da strumenti in grado di trasformare i venti della Terra in potenziale capacitivo da trasmettere a distanza. Ovvero in altri termini, energia elettrica per le nostre case. Questi telecomandi usati, in un certo qual senso, per dominare tali spazi distaccati dal terreno, i cieli nebulosi che sovrastano le onde fino alla wind farm, ovvero rada foresta di alberi costituiti da cemento, plastica ed acciaio. Giacché il rope team (“squadra della corda”) di addetti alla manutenzione di questo imminente scenario futuro progettato dall’americana General Electric, assieme alla compagnia di ricerca & sviluppo inglese ORE Catapult, nell’ambito dell’auspicabile progetto Stay Ashore! (“restiamo a riva”) tutto dovrà essere tenuto a fare, tranne arrampicarsi ancora sopra il fusto maestro delle circostanze. Bensì usare, con particolare abilità, lo strumento di un drone radiocomandato, inviato delicatamente fino a tale oggetto della loro professione, rilasciando nel momento culmine della parabola un particolare carico robotico sulle sue pale. BladeBug il suo nome, ovvero letteralmente “l’insetto della pala” per come è stato battezzato dall’omonima startup londinese, coinvolta dai giganti dell’energia offshore proprio in funzione delle prospettive, sapientemente disegnate, da una simile creatura composita e volante. Operato il rilascio quindi di una simile entità dotata di sei zampe con ventose, dalla lunghezza di circa 60 cm, essa potrà percorrere l’intero corso obliquo di una o più braccia roteanti, rilevando tramite webcam eventuali crepe, imperfezioni o altri possibili problemi futuri: nessun rischio, pericolo o complicazione. Davvero una soluzione ideale, questa, per assolvere ad un compito che fin dall’epoca della remota genesi delle wind farm negli anni ’80 ha reso più difficile recuperare i costi operativi di questa importante fonte di energia pulita, in cui circa un anno è necessario, in condizioni ideali, per recuperare i costi d’ingresso di un singolo generatore.
Ma le pale girano e con esse il corso della storia, fino al nostro mondo in bilico, in cui ogni quantità importante d’energia prodotta in questo modo conta due volte, corrispondendo essenzialmente a molte tonnellate di carburanti fossili risparmiati, per non parlare delle pericolose emanazioni collaterali allo sfruttamento di questi ultimi.
Proprio per questo GE ha elaborato, in concomitanza con l’oggetto cardine di questo automatismo, ciò che più di ogni altra cosa potrà beneficiare del suo servizio futuro: sto parlando di Haliade X o 12, dove il numero dovrebbe corrispondere, per l’appunto, alla quantità di megawatt prodotti in condizioni ideali dall’imponente edificio roteante, capace di raggiungere i 220 metri d’altezza in cima al tubo centrale in metallo e 107 metri di lunghezza delle sue pale. un vero e proprio gigante che dovrebbe fare la sua comparsa, se tutto andrà come previsto, entro il 2021 in diversi siti nascenti di trasformazione dell’energia del vento, tra cui l’impianto di Dogger Bank in Inghilterra e due nuove wind farm di Ørsted costruite negli Stati Uniti. Benché l’unico esemplare costruito in qualità di prototipo, al momento presente, si trovi presso le banchine del porto di Rotterdam in Olanda a partire dal novembre 2019, dove cartellina alla mano ha già infranto ogni record, riuscendo a generare 262 MWh di energia pulita nel giro di sole 24 ore. Nell’attesa di ricevere, un giorno imminente, l’attesa visita del suo robotico impollinatore.

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Allarme per un missile piccione in avvicinamento

Il senso di accelerazione spropositata fuori dalla scatola oscura stava finalmente diminuendo, benché il fischio del vento non accennasse a calare d’intensità. Come fatto altre migliaia di volte all’interno della sua gabbietta, Jeff scrutò con solenne intensità ogni angolo della sua plancia di osservazione. Gli occhi attenti, il collo proteso, il becco leggermente aperto, nell’apparente tentativo disperato di assorbire il maggior numero possibile d’informazioni. Del resto Jeff sapeva, grazie ai suoi ricordi pregressi, che qualora non fosse riuscito a portare a termine l’importante missione non avrebbe ricevuto, fino al giorno successivo, altro cibo che quello assolutamente necessario alla sua sopravvivenza. Così le piume dorsali, all’improvviso, fecero per sollevarsi tutte assieme, mentre con un senso di trionfo aviario vide palesarsi, tra le nebbie mattutine, la sagoma desiderato dell’oggetto. Largo e piatto, come aveva appreso attraverso i lunghi mesi d’addestramento, con la protrusione verticale di quella che poteva solamente essere una ciminiera. Ma Jeff naturalmente, essendo un semplice piccione, non aveva conoscenza della terminologia specifica. Bensì la sola cognizione, rafforzata con sincera e reiterata enfasi, che colpendo tale cosa ancora e ancora e ancora, a un certo punto avrebbe ricevuto l’agognata soddisfazione alimentare. Così Jeff beccò, e beccò e beccò, la nave che tanto sembrava stesse facendo, per spostarsi dal centro esatto della sua magica finestra sul mondo. E man mano che continuava a farlo, il nemico ritornava proprio dove voleva che fosse, grazie alle azioni pregresse delle onnipotenti entità-umane, sole responsabili di averlo messo in quella strana situazione. Ci fu un momento sospeso nell’arco del tempo, quindi, in cui la scatola sembrò inclinarsi verso il basso, accelerando nuovamente fino a un punto privo di precedenti. E fu allora che Jeff comprese istintivamente, grazie allo strumento dell’istinto animale, che il momento della fine era ormai vicino.
Quanto descritto fino a questo punto, secondo le cronache pregresse, avrebbe dovuto verificarsi idealmente in un momento imprecisato della grande guerra del Pacifico, protrattasi tra il 1941 e il 1945 tra gli Stati Uniti e il Giappone, con un “semplice” piccione urbano nel ruolo di Jeff e possibilmente un incrociatore o corazzata battente la bandiera del Sol Levante all’altro capo dell’ideale arco, tracciato attraverso il cielo, descritto dal velivolo all’interno del quale si sarebbe svolta la scena. Nient’altro che una bomba guidata o missile che dir si voglia (un concetto certamente avveniristico per l’epoca) modello ASM-N-2 Bat, usata in combattimento non prima del 1944, successivamente al rilascio da parte di un quadrimotore Consolidated PB4Y-2 Privateer. Il cui volo avveniva tramite la tecnica dell’aliante, mentre la guida operativa fino al punto d’impatto sarebbe stata il frutto di un primitivo sistema di guida radar, idealmente capace di rilevare i potenziali spostamenti del battello nemico. Se non che i limiti di tale sistema, oltre al costo per singola unità, includevano una precisione stimata a circa il 50%, tutt’altro che ideale nella maggior parte delle situazioni di battaglia. E fu probabilmente proprio la preoccupazione relativa a tale inaffidabilità che avrebbe portato, verso il culmine di tale epoca sanguinaria, le autorità militari ad ascoltare, incoraggiare e infine finanziare un particolare progetto del celebre behaviorista e psicologo dell’Università di Harvard, Burrhus Frederic Skinner…

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J-21, il drago a due code che protesse la Svezia volando al contrario

Sparita era l’epoca in cui difendere un paese poteva trarre beneficio da una serie di princìpi inerentemente diversi da quelli dell’attacco, come costruire bunker, fortificazioni, predisporre in anticipo l’artiglieria. Nel bollente 1941, una Svezia relativamente piccola e indifesa guardò verso meridione, ai territori d’Europa battuti da carri armati e bombardamenti a tappeto, scoprendo una guerra in cui soltanto la disposizione preventiva di strumenti, sufficientemente difficili da contrastare, avrebbe potuto permettere di mantenere intatti i propri marittimi e montagnosi confini. Già, il paese di Stoccolma rimasto intonso, proprio in forza del suo inaccessibile territorio eppure sempre vulnerabile, in ogni momento, a possibili mosse ostili provenienti dall’azzurro cielo. Così in quell’anno fatidico, non più soddisfatti degli antiquati mezzi di produzione italiana e americana che aveva in dotazione, i vertici delle Flygvapnet (Forze Aeree) guardarono all’interno ed in particolare verso la Svenska Aeroplan AktieBolaget, la compagnia che oggi conosciamo soprattutto tramite l’acronimo di SAAB, principale conglomerato nazionale voluto dal governo e attivo all’epoca nel campo della produzione aeronautica e non solo. Entro cui, in un pool di talenti prelevati da una serie di officine indipendenti che avevano proposto prototipi verso l’intera decade degli anni ’20 lavorava un certo ingegnere di nome Frid Wanstrom, di cui Internet non offre particolari informazioni al di là del nome. Ciò che possiamo desumere a suo proposito, tuttavia, era il coraggio di remare contro i presupposti pre-esistenti seguendo sentieri progettuali del tutto inusitati. Vedi quello, per l’appunto, dei primi studi che avrebbe condotto in quei mesi per un monoplano basato sul motore inglese Bristol Taurus, le cui basi principali del design sarebbero state una configurazione a doppia coda e l’impiego di una configurazione a spinta, per offrire la migliore visibilità possibile al pilota e disporre una maggiore quantità di armi nel muso dell’aereo. Idee piuttosto inusuali anche se prese singolarmente, ma che una volta unite avrebbero creato uno degli aerei dalla sagoma maggiormente riconoscibile dell’intero conflitto mondiale. Il J21 o semplicemente Saab 21, come venne deciso di chiamarlo, era tuttavia destinato ad attraversare un periodo di perfezionamento sul tavolo da disegno che avrebbe visto la sostituzione dell’impianto motoristico dapprima con l’americano Pratt & Whitney R-1830 Twin Wasp, un modello radiale, quindi con una versione profondamente riveduta e corretta del più recente Daimler-Benz DB 605B in linea, dispositivo tedesco capace di erogare 1.475 cavalli benché sfortunatamente prono a surriscaldarsi. Fin dal primo volo del prototipo, compiuto non prima del 30 luglio 1943, quindi, la creatura di Wanstrom si pose di fronte agli occhi degli spettatori come un sofisticato e temibile caccia multiruolo, idealmente capace di dare filo da torcere alla maggior parte dei potenziali rivali prima della fine della più grande guerra che il mondo avesse mai conosciuto.
Ciò detto, il primo exploit volante dell’apparecchio si rivelò quasi disastroso, con il pilota sperimentale Claes Smith che, dimenticando di impostare i flap nella posizione e corretta, riuscendo a sollevarsi solo dopo la fine della pista e riportando danni significativi al carrello, dopo aver colpito in pieno la recinzione di una fattoria antistante. Fortunatamente tuttavia, in forza dell’affidabile configurazione a triciclo di detto implemento, il prototipo riuscì ad atterrare senza particolari conseguenze, aprendo la via verso quello che sarebbe diventato, probabilmente, il più iconico e memorabile aereo svedese di tutti i tempi…

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Io, futuristico robot pompiere costruito in Estonia

L’idea che l’essere artificiale debba necessariamente essere costruito a nostra immagine è profondamente radicata nella genesi del concetto originale di robot: dalla genesi del termine, adottato su scala internazionale a partire dal dramma teatrale R.U.R. dell’autore cecoslovacco Karel Čapek in cui si parlava di esseri maggiormente simili a dei cloni, fino alle moderne opere creative che trattano di androidi, come Blade Runner, Terminator o Westworld. L’ideale tecnologico della macchina indistinguibile dall’uomo, tuttavia, si fonda sull’ideale secondo cui forma & funzione risultino inscindibili, connotato da una capacità tecnologica pressoché illimitata. Laddove all’interno dell’effettivo mondo fisico, l’esperienza c’insegna che il tipico agente artificiale dei nostri bisogni o desideri assume normalmente un aspetto configurato sulla base dell’evoluzione, ideale percorso che conduce al perfezionamento delle sue caratteristiche, con soltanto un parziale interesse in merito a quale impressione possa suscitare il suo aspetto. Immaginate, a tal proposito, di trovarvi intrappolati all’interno di un edificio, circondati da un turbinìo di fuoco e fiamme che minaccia ad ogni attimo di togliervi il respiro. Sareste veramente pronti a dubitare delle circostanze, se in quel drammatico momento l’equivalente su scala ridotta di un minaccioso carro armato facesse la sua comparsa oltre la soglia, spruzzando in ogni direzione copiose quantità di schiuma candida come la neve della salvezza?
Lungo una scala da 1 a 10 il nuovo modello della serie Multiscope Rescue di Milrem Robotics risulta dunque 11, in termini di aspetto aggressivo ed anti-antropomorfo. Il che non dovrebbe certamente sorprenderci, trattandosi dell’adattamento civile di uno strumento concepito da principio per un tipo d’impiego esclusivamente militare. Chiamato al momento soltanto “pompiere robotico” dai suoi produttori con base in Estonia ed equipaggiato con un sistema di multipli cannoni idrici a schiuma antincendio forniti dalla compagnia olandese InnoVfoam, questo veicolo a controllo remoto che rientra a pieno titolo nella categoria degli UGV (Unmanned Ground Vehicles) rappresenta la conveniente applicazione di un vasto comparto tecnologico allo scopo che dovrebbe accomunare, nella maggior parte delle circostanze, i pompieri di tutto il mondo: poter spegnere l’incendio senza mettere a rischio la loro stessa personale incolumità. In un video totalmente creato al computer e indicativo del funzionamento ipotetico di questo concept, dunque, il mezzo viene mostrato mentre avanza senza nessun tipo di timore verso il pericoloso incendio chimico, trascinando i lunghi tubi di rifornimento all’interno di un qualche tipo di stabilimento industriale. Pilotato a distanza di sicurezza, dunque, il robot riporta grazie ai suoi sensori la presenza di un perdita di gas, mentre l’operatore, reagendo di conseguenza, orienta i propri getti dove maggiormente se ne sente la necessità. In breve tempo, quindi, la situazione torna chiaramente ad uno stato di quiete, con una quantità minima di danni alle cose e persone coinvolte maggiormente in questo piccolo dramma digitale. Il che rappresenta un tipo di risoluzione che potremmo definire ideale, ancor prima che realistica, benché offrendo alla proposta in questione il giusto beneficio del dubbio, il suo svolgersi secondo tali presupposti non fuoriesca totalmente dal reame di un possibile futuro…

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