Scintille sulla pista che conduce oltre l’Olimpo delle automobiline iperspaziali

Un’atmosfera tesa nella stanza, quasi elettrica. Quel suono sibilante e quell’odore tipico di plastica bruciata. Il gruppo di persone concentrate fino all’inverosimile, con stretti tra le mani una variegata e stravagante serie di filocomandi. La grande pista, costruita al centro dell’ampio spazio a disposizione, percorsa nella sua interezza da una serie di fessure parallele di un colore diverso e in grado di seguire ogni curva, ciascun rettilineo. Ma nessuna traccia, a un’occhio meno che allenato, di veicoli su ruote intenti a gareggiare… Dove sono le macchinine? Possibile che stiano tutti recitando solamente un ruolo all’interno di una ricostruzione digitale dei tempi ormai trascorsi? D’un tratto, si ode un suono di plastica che urta il metallo; un piccolo oggetto variopinto, materializzandosi a ridosso della sponda del circuito, rimbalza rovinosamente sul terreno. Uno degli addetti alza il braccio a segnalare l’incidente, i concorrenti smettono di premere i rispettivi pulsanti. Sette piccole automobili aerodinamiche, come per magia, compaiono in punti diversi del circuito, momentaneamente ferme per permettere il recupero della collega uscita dal suo alloggiamento. Passano uno, due secondi prima che sia stata messa nuovamente in carreggiata. Il giudice abbassa il braccio. Le automobili scompaiono di nuovo. Apoteosi.
Il che rientra d’altra parte nella norma per questo particolare tipo di sport motoristico da camera, identificato nell’idioma anglosassone con il binomio di slot car. Ma che noi italiani particolarmente se non iniziati, siano soliti semplicemente definire pista per i modellini o pista elettrica per bambini. Laddove la realtà dei fatti ci dimostra come questo possa essere un giocattolo soltanto a giorni alterni, all’interno di un ideale calendario in cui si possa dipanare una competizione tra hobbisti consumati, ovvero uomini e qualche donna che abbiano voluto dedicare lunghissime ore al perfezionamento e la realizzazione del più perfetto ideale coerente ad una tale prassi tecnologica di base. Fatta risalire normalmente al 1912 ed alla compagnia produttrice di trenini elettrici statunitense Lionel, che pensò bene d’inserire nei propri cataloghi una soluzione basata su piccoli binari sopraelevati. In cui il partecipante al gioco potesse non soltanto mettere in movimento il proprio automezzo o una coppia di questi, ma anche controllarne e regolarne la velocità mediante l’impiego di un semplice comando poggiato a terra. Il prodotto ebbe un successo relativamente contenuto, tuttavia, ed è possibile che l’inizio della grande guerra abbia contribuito alla sua uscita di produzione. Ci sarebbe voluto così fino agli anni ’50 perché ai club di corsa britannici con piccoli veicoli alimentati a benzina venisse in mente di provare a utilizzare quello stesso principio traferito all’interno di una rientranza metallica all’interno della pista stessa, da cui prelevare corrente mediante l’uso di una spazzola sotto il telaio, ricreando il concetto originario all’interno di un contesto già diretto a una competizione di abilità individuale. Così ciascun concorrente venne dotato di un comando da tenere in mano, mentre la personalizzazione delle auto diventava un componente niente meno che primario per riuscire a prevalere contro la concorrenza. Furono gli anni d’oro di questo particolare passatempo, mentre all’altro lato dell’oceano si affermava la compagnia di modellini Scalex, creatrice della linea Scalextric, capace di correre lungo quel tipo di piste mantenendo nel contempo l’aspetto in scala di vere automobili ricostruite nei minimi dettagli. Il che avrebbe portato all’affermazione di una cognizione pubblica internazionale, secondo cui le piste elettriche dovessero impiegare preferibilmente una scala di 1:24 o 1:32, con la seconda preferita negli ambiti concorrenziali in quanto più adatta al raggiungimento di velocità particolarmente elevate. In breve tempo, club dedicati alla pratica di questo particolare passatempo iniziarono a fare la loro comparsa al primo piano dei pub, nei centri commerciali, nei cinema, dentro gli edifici di raduno municipali… Il che corrispondeva alla possibilità di andare oltre, all’interno di ambiti più vasti e funzionali di quanto fosse mai possibile realizzare tra le mura della propria residenza. Da qui all’evoluzione pratica del concetto di partenza mancava veramente poco, mentre l’idea del realismo estetico passava gradualmente in secondo piano. Fu quindi la ricerca della massima efficienza, tenuta di strada e velocità, a risultare capace di creare il concetto iperbolico della saettante wing car

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Piccola finestra sui sistemi per riuscire a stringere il bullone gigante

Problemi come questo furono una componente principale, fin dall’inizio, dell’interfaccia operativa sistematica tra il mondo industriale e coloro che costituiscono, al tempo stesso, i suoi arbitri e utilizzatori umani. Poiché nostra è la dicotomia tra l’ambizione e la condiscendenza, rispettivamente nei confronti di quanto è desiderabile ottenere in determinate circostanze, rispetto ai limiti fisici e mentali inerenti nel contesto tangibile dell’esistenza. E non vi è funzione maggiormente rilevante, di quella che collega il risultato perseguibile al margine d’errore latente. Prendiamo, per esempio, il caso della flangia: caratteristica strutturale di un tubo. Se non altra componente lineare di un impianto, che dovendosi trovare saldamente collocato saldamente in posizione, si troverà ad allargarsi perpendicolarmente in un disco finale; ragionevolmente traforato, ad intervalli regolari, da una serie di fori perfettamente tondi. E dentro di essi cosa mai potremmo prevedere prevedere, se non gli elementi che provvederanno a cementare l’ideale assemblaggio avvitandolo una serie plurima di volte, ancora e ancora, finche neanche in benché minimo refolo d’aria (per non parlar dell’acqua) possa uscire da una minima quanto indesiderabile fessura latente? Il che significa, signori, olio di gomito… Senz’altro, ma anche un certo grado di continuità e coerenza, come ebbe famosamente a rilevare l’impiegato del servizio idrico di New York J. H. Sharp nel 1931, frustrato dallo stringimento più che mai variabile, e purtroppo spesso insufficiente, nei diversi siti rilevanti della rete sotterranea urbana per la semplice ragione che anche utilizzando leve o moltiplicatori di forza, i nostri muscoli non sono stati concepiti per determinare in maniera scientifica quanto possa essere “abbastanza” in un contesto che fuoriesce largamente dalla nostra percezione naturale del mondo. Ecco qui che scaturì l’idea, destinata a un lungo seguito e processo evolutivo, della prima chiave dinamometrica manuale. Ovvero a quel tempo, nulla più che una chiave di manovra del tipo anglosassone (la tipica wrench) ma dotata di un complesso meccanismo di misurazione con deviazione della leva d’appoggio, per assegnare un numero alla resistenza del bullone di turno, indipendentemente dalla soggettiva percezione del suo utilizzatore. Il che poteva certamente funzionare, in una larga serie di contesti, ma che dire dell’evoluzione progressiva delle aspettative che potremmo al giorno d’oggi ricondurre ad una simile esigenza? Pensate a tal proposito al fissaggio di un albero di trasmissione tubolare di una centrale idroelettrica, di un grande motore navale o agli elementi strutturali di ponte sospeso. Tutte situazioni in cui la scala della forza necessaria, assieme alla sua precisione in fase di montaggio, si trovano semplicemente ad una scala largamente al di sopra dalle cognizioni precedenti. Ed è qui che l’energia muscolare umana, sostanzialmente, esce totalmente fuori dal quadro in essere. Lasciando il posto a tre diversi approcci: un pistone, la pressione, il calore interno. Ciascuno corrispondente ad una particolare tipologia di strumenti.
Cominciamo dunque il nostro elenco dall’attrezzo noto come chiave a torsione, che forse il più diffuso, ma non necessariamente versatile, dei tre approcci che andremo a citare. Quello consistente nell’impiego di un meccanismo a cassetta, ovvero finalizzato a ricoprire e circondare il bullone, coadiuvato da un raccordo corrispondente esattamente alla misura del componente, necessariamente collegato a due tubi di raccordo per l’immissione, a seconda dei casi, di fluido idraulico o aria ad altissima pressione. Tutto questo al fine d’indurre il moto in un cilindro dotato di una camma, che pur facendo avanti e indietro, può soltanto spingere innanzi l’ingranaggio esterno alla brugola, così da stringere (o allargare) il bullone. Simili strumenti, d’altra parte, devono per forza essere voltati dall’altra parte, nel caso in cui si debba stringere piuttosto che allargare, o viceversa…

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Sul finire di un’epoca, il doppio volo dell’enorme casa Russia dei cieli

In un giorno indefinibile in prossimità dell’equinozio, verso la metà del penultimo decennio dello scorso secolo, Lev aprì silenziosamente la botola sotto la sala di controllo dietro il sedile del copilota, mentre i colleghi restavano completamente concentrati sui rispettivi ruoli in quel momento di cruciale importanza. Un ultimo sguardo fuori dal finestrino gli permise d’inquadrare, dunque, il punto principale e la questione di quel giorno di gloria solenne: la bombata fusoliera dello spazioplano, a pochi metri dal corpo del pesante aereo da trasporto Antonov An-225 Mrya, agevolmente definibile come il velivolo più imponente al mondo. E all’altro capo della strana formazione, a una distanza impossibilmente ridotta, un altro identico gigante, come nel riflesso proiettato sulla superficie di un lago. Tuttavia non c’era neanche un attimo per meditare, o abbinare acute metafore al prospetto dei propri ricordi. Mentre l’impressionante stato di accelerazione continuava a esacerbare il possente magnetismo gravitazionale in senso retrogrado, minacciando d’interdire, e rendere del tutto impossibile qualsiasi movimento. Con un cenno all’indirizzo del capitano Viktor, che si era voltato per un attimo nella sua direzione, Lev inserì prima una gamba e poi la seconda nell’angusto cunicolo metallico, apprestandosi a fare ciò che nessun altro aveva mai potuto immaginare: camminare all’interno di un’ala sinistra, poi una piattaforma di lancio centrale ad oltre 10.000 metri di altitudine e 2.000 Km/h… Dopo circa una decina di secondi, mentre procedeva curvo dento il suo pertugio, le vibrazioni raggiunsero l’apice, ma lui sapeva molto bene di non potersi fermare. Soltanto la supervisione diretta di un membro umano dell’equipaggio, secondo le procedure stabilite dal controllo missione, avrebbe infatti potuto confermare i valori corretti nella serie di pannelli dei 34 motori presenti sul duplice mostro Antonov AKS, inviandone conferma presso entrambe le cabine di comando ai lati dell’iperborea questione. Raggiunta la sala intermedia, scorse rapido la quantità di dati presentati all’indirizzo del suo sguardo lungamente addestrato. “Tutto in ordine” segnalò alla sua destra premendo un pulsante rosso che si accese per confermare la ricezione del messaggio. Le sue labbra di mossero da sole, mentre immaginava di dire “Pronti al lancio”, premendo un tasto identico all’altro lato dello stesso pannello, interconnesso con un lungo filo lungo un’ala destra, fino a una seconda cabina di pilotaggio del tutto identica a quella da cui era partita. Finalmente soddisfatto, Lev si rannicchiò a quel punto nell’apposita cuccetta fortemente ammortizzata al fine di assorbire il colpo. Molto difficilmente, d’altra parte, 600 tonnellate potevano staccarsi da un dispositivo volante, senza arrecare un qualche tipo di notevole contraccolpo. Non che i progettisti avessero potuto pianificare la missione sulla base di esperienze pregresse. Giacché nessuno, prima di quel giorno, aveva mai tentato di portare a termine qualcosa di paragonabile, men che meno i rivali americani all’altro capo di un sempre più distante pianeta Terra.
3…2…1…Accensione! Un conto alla rovescia piuttosto breve, a dire il vero. Siamo d’altra parte abituati a metodologie per dare inizio a un possibile tragitto verso l’orbita che partono generalmente nella stessa maniera: lo svettante razzo posto verticalmente, solenne e immobile come una cattedrale. La sovrastruttura della rampa che si sposta a una distanza di sicurezza, una volta che gli uomini hanno preso posto assieme al carico che sono stati incaricati di trasportare a destinazione. E poi, una volta che il terreno si allontana, primo e secondo stadio che si staccano, o razzi ausiliari destinati a fare la stessa fine; mentre un qualche tipo di velivolo riutilizzabile prosegue, indefesso, oltre i limiti di un’atmosfera originariamente destinata a contenere fino all’ultimo dei nostri sogni ed aspirazioni future. Laddove questo stesso termine preliminare di OOS, avrebbe dovuto significare nell’idea dei progettisti niente meno che Одноступенчатый Орбитальный Самолё, ovvero: Aereo Orbitale a Stadio Singolo. Come conseguenza ed ulteriore perfezionamento, sulla strada di un possibile miglioramento prestazionale, dell’originale ensemble costituita dal Buran OK-1.01 ed il suo razzo Energia; molto più comunemente (e prosaicamente) definito come lo “Space Shuttle Sovietico”. Perché non ci sono, oggettivamente, tanti approcci aerodinamici possibili per riuscire bucare la stratosfera. Tutt’altra storia rispetto all’effettiva creazione di una metodologia di lancio, a quanto pare…

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Chi mangia nel Mazaalai, un ristorante da 2500 coperti nel basso deserto del Gobi

Diffusa in talune culture è la percezione che gli assetati nel deserto, trascorso un sufficiente numero di giorni, dovrebbero accettare qualsiasi acqua gli venga offerta, non importa quale possa esserne la provenienza. Una metafora perfettamente adattabile, negli attuali anni di tribolazioni economiche, alle più significative tipologie d’investimenti provenienti dall’estero, non del tutto scevre di problematiche logistiche, etiche e sociali. Vedi luoghi come i cinque giganteschi pozzi verticali, il più profondo dei quali di 1,3 Km, scavati nella regione di Khanbogd 235 Km ad est da Dalanzadgad, capitale della provincia di Ömnögovi. Proprio là dove il “buon” vecchio Cinggis, col cappello, la barba e un’imprevista inclinazione a galoppare fino ai più remoti angoli del globo, era solito far scavare i propri sottoposti. Che non erano, come potreste forse immaginare in questo periodo dell’anno, minuti elfi ma mongoli armati di picconi, intenti a tirare fuori il meglio da quella che tutti conoscevano da tempo come Oyu Tolgoi, la “collina turchese” per le strisce color bluastro che campeggiavano tra gli affioramenti rocciosi destinati alla fusione e conseguente fucinatura. Eppure attraverso i secoli, questa fonte principalmente di rame non sarebbe mai diventato un polo minerario di primaria importanza; dopo tutto, c’è soltanto una quantità limitata di pentole e tegami di cui possa aver bisogno il più grande condottiero militare della storia umana. Una situazione, naturalmente, incline a mutare con l’inizio dell’epoca moderna ed ancor successivamente, alla progressiva diffusione dell’energia elettrica e la produzione elettronica contemporanea. Quando non soltanto quel particolare metallo, ma anche i cari vecchi oro ed argento, borati, alluminio e biossido di titanio, hanno visto aumentare il loro valore inerente, non per mere convenzioni del mercato globalizzato bensì l’effettiva utilità primaria nella progressione di effettivi processi produttivi dei nostri giorni. Qualcosa d’incline a permettere, da un lato all’altro dei continenti, la rivalutazione di particolari punti di partenza geografici, per rinnovate valutazioni relative al concetto largamente imprevedibile della prosperità comparativa di un popolo e la sua nazione.
Ecco dunque l’arrivo dell’anno 2003, quando squadre sufficienti a far funzionare ben 18 trivelle esplorative giunsero qui da ogni principale multinazionale del settore su esplicito invito del governo locale, costituendo temporaneamente quello che potremmo agevolmente definire come il più notevole polo di prospezione nella storia dell’estrazione mineraria. Così che da trovare, molto prevedibilmente ed in tempi sufficientemente brevi, quello che già le istituzioni locali avevano sospettato almeno a partire dagli anni 50 dello scorso secolo: ricchezze e abbondanza inimmaginabili. Così come i problemi che, di li a poco, ne sarebbero immancabilmente derivati.
Le impressionanti cucine del Mazaalai, ristorante fatto costruire dal conglomerato Rio Tinto che gestisce la miniera per rifocillare i suoi più di 5.000 dipendenti, sono amministrate dalla compagnia Support Services Mongolia, che ne ha saputo fare un vero miracolo di efficienza e produttività. Così come appare dal dettagliato ed affascinante video prodotto dal canale Artger, importante fonte divulgativa sullo stile di vita degli abitanti di questo distintivo paese d’Asia. All’interno di enormi sale dall’aspetto ragionevolmente spoglio, un letterale esercito di cuochi e camerieri si muove tra plurimi calderoni e massicce pentole, dislocando ingredienti dalla provenienza ed utilità culinaria di almeno una dozzina di culture differenti. Ed è qui, se vogliamo, che inizia il problema; poiché presso il sito di Oyu Tolgoi come in molti altri simili luoghi al mondo, sebbene a una scala 10 volte superiore, una buona parte della forza lavoro è proveniente da paesi esteri e viene pagata di conseguenza, dovendo fare affidamento su competenze ingegneristiche impartite all’interno di sistemi universitari dal più alto grado di competenza tecnologica, o quantomeno instradata all’impiego in realtà aziendali dalle particolari esigenze. In altri termini, un impiegato estero guadagna in media da 3 a 10 volte più di quelli assunti localmente. Ragione da cui probabilmente deriva la necessità particolarmente sentita dall’autore del video di far comparire un membro dello staff mongolo che elogia, con una certa rigidità (comprensibilmente agitato) “L’opportunità che gli è stata data di partecipare a un progetto tanto notevole ed importante” potendo così aiutare i suoi connazionali a “modernizzare le condizioni di vita” in un paese ancora troppo legato al suo antico modo di sopravvivere ed alimentarsi, anche in funzione della sua collocazione geograficamente remota. Così come il sito ufficiale della compagnia, a proposito della miniera in questione, ha sentito di dover inserire una FAQ su pagamento delle tasse e contributi pensionistici evidentemente finalizzata a rassicurare l’opinione pubblica internazionale…

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