In un video alquanto memorabile l’esperto di parkour australiano Michael Khedoori procede con agilità spettacolare in quello che potremmo definire un vero e proprio percorso di guerra. Da una stretta superfice all’altra, sopra un mare letterale di estrusioni geometriche, salta innanzi e sotto ed oltre una foresta pietrificata di ottime intenzioni, effettivamente più simili allo scheletro di un grande animale. Lasciato lì ad assorbire l’energia solare un mese alla volta, un anno dopo l’altro, finché il giorno non verrà in cui egli dovrà ritornare finalmente utile, innalzandosi a formare il baluardo del terzo pianeta di un kaijū benefico dell’era Seijin. Godzilla scorporato e replicato a profusione, dalla stessa energia atomica che gli aveva dato i natali. E sebbene sia altamente probabile che la scena in questione si svolga nell’Australia natìa del suo protagonista, c’è soltanto un luogo, tra tutti, in cui un simile principio creativo potrebbe essere condotto fino alle sue più estreme conseguenze, considerato il modo in cui l’oggetto tende a ricoprire circa il 50% dello spazio utile sui sui 35.000 Km di costa.
In un’antica leggenda folkloristica dell’arcipelago nipponico, un colossale pesce gatto giace incatenato ad una pietra tra le tre isole maggiori del Kyushu, Honshu e lo Shikoku. Intrappolato in questo luogo dal dio del fulmine Takemikazuchi, esso trascorre i secoli dormiente, restando immobile ad immaginare tempi migliori. Di tanto in tanto, tuttavia, agitandosi per qualche minuto, scuote la Terra dalle sue stesse fondamenta, causando alcuni dei disastri più terribili che l’uomo abbia mai conosciuto. Inclusi terremoti e maremoti, la condanna senza data di scadenza del popolo più a Oriente di tutta l’Asia. E questo, spiega, almeno in parte, l’amore smodato di costoro nei confronti del cemento armato. Calcestruzzo, cassaforme, bentonite, pozzolana: ogni aspetto possibile ed immaginabile del materiale di edilizia solido per eccellenza, ma soprattutto relativamente pronto ad assorbire forze energetiche di provenienza obliqua o trasversale. Senza spezzarsi, con semplicità procedurale, dando inizio al tragico esito della vicenda. Ma prevenire i crolli non è altro che un singolo aspetto dell’intera questione, quando si considera il tipo e gravità di danni che possono essere creati in modo diretto alla popolazione civile, dall’occorrenza di quel tipo di disastro che viene identificato nella lingua nazionale con il termine di “onda del porto” ovvero in modo più sintetico, tsunami. E chi non vorrebbe poter disporre, in quei brevi e drammatici momenti, della protezione di una costa stessa che sia coperta interamente di quel sacro materiale, capace come l’armatura dei fieri antenati samurai di resistere ad un tipo di danneggiamento e d’invasione, inclusa quella condotta dalle particelle equanime e indivise di un singolo elemento intento a reclamare ciò che un tempo era stato suo, e suo soltanto? Ciò che abbiamo sin qui descritto dunque, per chi non lo sapesse, viene definito in gergo tecnico un tetrapode o “creatura dotata di quattro zampe”. Così come avviene per un’ampia categoria di animali di questa terra, ma anche la caratteristica creatura inventata all’inizio degli anni ’50 dai francesi Pierre Danel e Paul Anglès d’Auriac all’interno dell’avanzato Laboratoire Dauphinois d’Hydraulique di Grenoble, Francia. Quando si giunse finalmente a capire come la protezione delle coste dall’energia corrosiva delle onde fosse conducibile ancor meglio condotta fino alle sue estreme conseguenze dall’impiego di forme geometriche create ad-hoc, ovvero create mediante la manifestazione pratica dell’occhio Platonico e pineale che dir si voglia, capace di comprendere le leggi più fondamentali dell’Universo…
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L’incompleto Marut, Spirito della Tempesta che riuscì a imporsi sull’esercito pakistano
Il 5 dicembre del 1971, un’alba febbrile illuminò la zona desertica in prossimità del posto di confine di Longewala, ai margini del deserto di Thar. Le forze indiane dell’armata del Punjab, manovrando nel miglior modo possibile considerato il breve preavviso del pericolo, si erano schierate in posizione difensiva, mentre due intere divisioni meccanizzate con 40 carri armati, per lo più vecchi Sherman e T-59 di produzione sovietica, avanzavano con difficoltà tutt’altro che insignificanti lungo il fondo accidentato della valle. Con lanciarazzi, mitragliatrici pesanti e fucili anticarro, gli occupanti delle trincee continuavano a sentirsi piuttosto sicuri, pur sapendo che una loro eventuale sconfitta avrebbe avuto un impatto notevole sull’intero quadrante occidentale di una guerra che il loro paese, guidato dall’influente prima ministra ed erede politica Indira Gandhi, aveva tutto l’interesse di concludere in tempi brevi. Così nessuno restò particolarmente sorpreso quando, verso metà della giornata, il supporto aereo lungamente promesso ebbe modo di palesarsi, e piogge di proiettili ed ordigni esplosivi cominciarono a cadere sulla testa degli attaccanti. I carristi pakistani, affrettandosi a puntare le torrette dei loro veicoli in alto, ebbero tuttavia una sgradevole sorpresa: poiché assieme ai previsti Hawker Hunter di manifattura inglese, i cui limiti di manovrabilità a bassa quota erano ampiamente noti ad entrambi gli schieramenti, tre sagome mai viste prima si disposero in formazione per il passaggio a volo radente. Erano dei jet bimotore dall’aspetto particolarmente moderno, con ali a freccia, coda alta e carlinga affusolata, che in prossimità dell’obiettivo rallentavano in maniera vertiginosa, avendo tutto il tempo di prendere la mira coi propri quattro cannoni ADEN da 30 mm, mentre lanciavano razzi Matra e bombe da 1.800 Kg. Quindi, prima ancora che i mezzi corazzati superstiti potessero rispondere al fuoco, prendevano nuovamente quota per svanire indenni all’orizzonte. In breve tempo, l’avanzata della colonna pakistana non poté fare a meno di arrestarsi. Ed ogni ragionevole aspettativa di prevalere, apparve irrimediabilmente compromessa.
Ciò che gli oppositori alla fondazione dello stato indipendente del Bangladesh stavano affrontando a loro stessa insaputa, nel culmine del primo e più breve conflitto degli anni ’70 del Novecento, era in effetti qualcosa di assolutamente innovativo, niente meno che l’HAL-24 Maruto (“Spirito della Tempesta”) il primo jet da combattimento prodotto interamente in Asia fuori dal territorio dell’Unione Sovietica. Grazie alla collaborazione con una figura chiave mantenuta in alta considerazione dall’insigne predecessore di Indira Gandhi e primo leader dell’India successivamente all’ottenimento dell’indipendenza, Jawaharlal Nehru. Il quale pur essendo stato un progressista e grande difensore dei diritti civili, seppe anche agire in base alle logiche del pragmatismo, particolarmente quando accolse con tutti gli onori la figura controversa dell’ingegnere e pilota sperimentale tedesco Kurt Waldemar Tank, in fuga dal suo paese come molti altri colletti bianchi al termine del secondo conflitto mondiale. Ex-nazista per associazione, al minimo, benché il suo coinvolgimento con gli aspetti politici del regime tedesco sia lungamente rimasto poco chiaro, nonché l’inventore di uno dei migliori cacciabombardieri che il mondo avesse conosciuto fino a quel momento: il temutissimo Fw 190, prodotto in oltre 20.000 esemplari a partire dal 1941. Compatto, leggero, potente, versatile, indubbiamente la seconda colonna portante della Luftwaffe assieme al Bf 109. Qualcosa che ogni paese moderno avrebbe aspirato ad avere nel proprio schieramento di velivoli, fatte le debite proporzioni tecnologiche, allo scopo di essere rispettato sulla scena geopolitica di un mondo che non aveva mai smesso di affilare i propri coltelli…
Il gruppo di monoliti che rimette in discussione le capacità ingegneristiche del mondo antico
Tra le diverse categorie di teosofi di un corso della Storia alternativo, sono tutto considerato meno estremi quelli che predicano la pregressa esistenza di un’epoca remota in cui il mondo era popolato da massicce ed avanzate civiltà perdute. Un tempo di culture sofisticate e macchine complesse, per certi versi addirittura superiori a quelle della modernità, ma senza la diretta partecipazione di giganti, stregoni illuminati o visitatori provenienti da altri regni e dimensioni collaterali. E dopo tutto esistono dei luoghi, nel patrimonio archeologico della Terra, che difficilmente possono essere spiegati tramite l’applicazione del convenzionale nozionismo storiografico e filologico dei nostri giorni. Vedi il grande Tempio di Giove in Libano presso la città di Baalbek (ex-Heliopolis) con il suo basamento inclusivo di tre pietroni da 800 tonnellate ciascuno e vedi soprattutto le altrettante pietre ciclopiche, oscillanti tra le 1.000 e 1.650, abbandonate a circa un miglio nella stessa cava calcarea di epoca romana in cui vennero estratti, tagliati e preparati allo spostamento gli ingombranti materiali necessari a costruire uno dei siti più massicci, ed al tempo stesso stranamente poco conosciuti dell’intero repertorio architettonico del primo Impero Romano. Poiché questa è l’ufficiale datazione attorno al I secolo, elaborata grazie alla presenza di alcuni graffiti sulle più alte e irraggiungibili colonne del complesso, di almeno la maggiore parte delle sovrastrutture oggi largamente andate smontate o andate in rovina durante il lungo corso dei secoli pregressi nella turbolenta storia del vicino Oriente. Sebbene come dicevamo, siano in molti a ritenere possibile, se non addirittura probabile, che alcune delle opere più ingegneristicamente complesse furono state compiute millenni addietro attorno ai tempi delle similmente sovradimensionate rovine di Göbekli Tepe nella Turchia sud-orientale, forse più antica struttura mai costruita dall’uomo grazie ai suoi accertati 12.000 anni di età. Al fine di condurre riti assai difficili da immaginare con i dati di cui disponiamo, oppur volendo dare credito all’altra ala più estremista dei sopracitati teosofi, permettere l’atterraggio agevole di potenziali astronavi portatrici di liete novelle interstellari.
Le rovine del complesso dei templi di Heliopolis rientrano a pieno titolo, d’altronde, nella categoria delle opere difficilmente spiegabili proprio perché disallineate da ogni considerazione di tipo pratico, sulle modalità convenzionalmente giudicate ragionevoli nella costruzione di una grande opera di tipo religioso e civile. A partire dall’interrogativo niente affatto privo di fondamento sul perché i Romani avessero deciso di erigere la più spropositata e impressionante delle proprie opere architettoniche qui, ai confini dell’Impero nella regione del Levante, senza evidenti possibili vantaggi per il prestigio della classe dirigente tipicamente incaricata di sancire simili idee. Non è perciò impossibile immaginare l’importante ruolo di un oracolo affine a quello dell’antica Delfi, per la cosiddetta Colonia Julia Augusta Felix Heliopolitana, sebbene ciò non inizi neppure a spiegare l’utilizzo di qualcosa d’inamovibile come il trilithon (trio di pietre) del basamento, ed ancor meno l’esistenza delle loro controparti abnormi perfettamente tagliate e poi lasciate ad un tiro di schioppo dal luogo in cui avrebbero dovuto trovare un più probabile impiego. Quasi come se a prepararle fosse stato qualcun altro, prima che devastanti eventi storici e cataclismici lo costringessero ad abbandonare gli obiettivi finali del suo progetto di partenza…
L’ambizioso progetto che portò tre aerei a volare uniti per la punta delle proprie ali
In una versione alternativa degli anni ’50, dislocata lungo l’asse inconoscibile dei multipli universi paralleli, nessuna guerra fredda ha avuto modo di palesarsi, lasciando piuttosto che il secondo conflitto mondiale scivolasse naturalmente nel confronto armato tra Stati Uniti e Unione Sovietica che in tanti, all’epoca, avevano descritto come una concreta possibilità futura. Nei cieli sopra lo stretto di Bering e al di là dell’Oceano Atlantico, possenti velivoli appesantiti dagli ordigni atomici si erano incrociati verso le loro remote destinazioni, intere città destinate ad essere trasformate in polvere ancor meglio di quanto accaduto nel tragico caso di Hiroshima e Nagasaki, grazie alla devastante successiva invenzione della bomba H, basata sulla fissione dell’atomo d’idrogeno. Ma in quale modo esattamente, potremmo chiederci puntando il nostro telescopio oltre le finestre scintillanti del continuum spazio-temporale, aeroplani come i ponderosi quadrimotori dell’immediato dopoguerra, ovvero gli unici mezzi volanti dotati di una sufficiente autonomia per compiere l’impegnativa impresa, sarebbero riusciti ad oltrepassare le raffinate difese anti-aeree e sistemi d’intercettazione di quei cupi giorni, perfezionate dopo i lunghi e devastanti bombardamenti a tappeto della più costosa guerra conosciuta (fino a quel giorno) dall’uomo? Soltanto per scoprire, pochi minuti o qualche ora dal quesito, la sagoma estremamente chiara e distintiva di una soluzione alquanto ingegnosa: l’unione in volo della ponderosa forma di un almeno un bombardiere Boeing Superfortress B-29, con ai lati due comparativamente piccoli caccia a reazione Republic F-84 Thunderjet ad ala perpendicolare, ciascuno dei quali dotati dell’imponente carico di un singolo, aerodinamico ordigno termonucleare. Mezzi che a uno sguardo maggiormente approfondito, non si trovano affatto in formazione serrata con quella che potremmo definire l’effettiva “nave madre” delle circostanze, bensì letteralmente intenti a compiere l’equivalente aeronautico di una passeggiata tenendosi per mano, dove le braccia sono le rispettive paia d’ali ed il particolare stile d’accompagnamento trova realizzazione grazie ad un avanzato sistema d’interconnessione rotante, simile a una coppia di lance affusolate che ritornano nel fodero predestinato. Situato all’altitudine di qualche migliaio di metri, e spinto innanzi alla velocità di circa 300-400 Km/h. Già perché dal punto di vista del funzionamento pratico, questo assemblaggio di apparecchiature militari “sul campo” stranamente simile a quello di un Voltron, Mazinga o altro super-robot della fantasia nipponica contemporanea, non poteva certo decollare da terra in tale configurazione, piuttosto implementata, grazie all’abilità di ciascun singolo pilota coinvolto, una volta che ci si trovava già in viaggio. Ed in attesa del fatidico momento in cui i due agili e veloci “parassiti” si sarebbero staccati di nuovo in prossimità del bersaglio, per consegnare non visti e non sentiti il carico di morte saldamente incorporato al di sotto della loro carlinga. Una visione che parrebbe sfidare addirittura il nostro allenato senso d’immaginazione, se non fosse che qualcosa di simile fu effettivamente teorizzato, costruito e addirittura utilizzato, per un breve quanto intenso periodo della lunga e articolata storia militare statunitense…