Stanotte, che notte! L’interfaccia brulicante tra i due mondi si è fatta sottile, fino al punto di permettere ai visitatori dell’intercapedine di farsi coraggiosi e crescere di numero, ancora e ancora. Una notte che precipita la situazione, in modo progressivo e inarrestabile, verso l’unanime sostituzione dei Viventi. Poiché pace in Terra, ovvero sotto-terra, può essere concessa a chi ha per lungo tempo combattuto contro l’entropia dei giorni, col fucile e con l’elmetto dato in concessione dalla sua esigente patria, ispiratrice di un conflitto che non può essere dimenticato. Ma a proposito di queste ossa, che dire…
Non che il cimitero storico di Schoonselhof della città di Anversa, ultimo luogo di residenza per 1.557 soldati del Commonwealth periti nel corso del secondo conflitto mondiale, risulti essere in modo apprezzabile del tutto abbandonato e/o silenzioso. Per lo meno da quando, come riportato all’inizio della scorsa settimana sulle pagine del Bruxelles Times, un diverso tipo di visitatore è stato rilevato occupare i suoi prati, le sue pozzanghere, i fontanili ed i ruscelli temporanei risultanti dalle piogge di questi strani giorni. Corazzato e attento ad ogni minimo dettaglio, come reso chiaro dalle lunghe antenne, e molto rapido sopra le dieci zampe, proprio come ci si aspetterebbe dal perfetto gambero dei pantani o Procambarus fallax, 15 centimetri di crostaceo dalle origini americane, invasivo ed adattabile a ogni tipo di situazione climatica. Una volta che gli esperti si sono interessati alla questione, tuttavia, la terribile verità è immediatamente apparsa chiara sotto gli occhi di tutti: poiché graziosamente marmorizzata nei colori bianco e nero, con riflessi azzurri, era la livrea dei piccoli animali. Al punto da far sospettare, verso la più rapida conferma, del trattarsi nella realtà dei fatti di una versione assai più problematica di quella stessa creatura: il P. fallax f. virginalis, più comunemente detto in lingua teutonica marmorkrebs. Idioma preferito scelto proprio per la sua esclusiva provenienza, dall’epoca della scoperta e classificazione verso la metà degli anni ’90, dalla terra di Germania ed in particolare gli specchi d’acqua di città e dintorni, dove qualcuno aveva avuto la disattenzione di liberarsene facendo spazio dentro dentro l’acqua del suo acquario casalingo. Una storia classica, se vogliamo, di creature che una volta riprodotte in numero eccessivo nonostante l’assenza di un partner, devono essere smaltite ma nessuno sembra averne il “cuore”. Passo semplice e spontaneo, verso il primo cursus dell’Apocalisse incipiente: poiché forse non tutti sapevano, oppure gli importava più di tanto di considerare, la maniera in cui l’animale in questione fosse in grado di riprodursi. Non tramite lo sperma conservato dai suoi precedenti incontri, come avviene in molte specie simili, bensì vendo appreso, essenzialmente, il metodo per fecondare con successo le sue stesse uova.
Ora esistono diversi approcci biologici per effettuare la partenogenesi, non tutti altrettanto capaci di produrre un perfetto clone del singolo, autonomo genitore. Quello messo a frutto dal marmorkrebs, tuttavia, rientra a pieno titolo in questa ideale categoria, sfruttando l’artificio della partenogenesi apomittica, per cui la cellula-uovo non sviluppa mai la divisione maturativa (meiosi) con conseguente mantenimento del numero di cromosomi fino ai successivi passaggio fino all’età adulta.
Il che dota queste creature tutte di sesso femminile e non più lunghe di 10-15 centimetri di un genoma sensibilmente più lungo e complesso rispetto a quello degli umani; nonché triploide, una condizione affine a quella del banano commerciale, che viene fatto riprodurre tramite l’applicazione del sistema della talea. Ora valutate, per un attimo soltanto, le implicazioni di una simile realtà; ovvero la maniera in cui tutto ciò possa essere inerentemente ricondotto ad una singola, irrimediabile anomalia.
dal mondo
Animazione 3D mostra l’eccellenza tecnologica di un ponte medievale
Chiaro e fresco, serpeggiante serpe d’acqua nel cuore d’Europa. La Moldava, che partendo dalla Selva Boema confluisce nell’Elba all’altezza di Melnik. Ma non prima di aver bagnato, col suo rapido passaggio, la capitale storica del Gran Ducato di Boemia, città celebre per la sua arte, architettura e magia: Praga, che continua ad essere, attraverso i secoli, una capsula dei tempi che furono, attraverso le risultanze procedurali delle sue corporazioni e gilde ormai parzialmente dimenticate. Verso la costruzione di una serie di strutture come il ponte portato a termine verso l’inizio del XV secolo, soddisfacendo dopo un periodo di oltre 45 anni un mandato fortemente voluto dallo stesso sovrano del Sacro Romano Impero, Carlo IV. Erano le 5:31 del 9 luglio 1357, quando la prima pietra venne posta, soddisfacendo secondo la leggenda un’esigenza numerologica (la data 1357 9, 7 5:31 era infatti un palindromo, leggibile da entrambe le direzioni) finalizzata a rafforzare l’impresa ingegneristica di un’intera generazione. Che attraverso questo efficace racconto ricreato al computer, opera della Società Archeologica Praghese, si rivela essere un letterale concentrato di soluzioni particolarmente interessanti e ben collaudate.
Si parte con la realizzazione di un cassone o cofferdam secondo il metodo Romano, consistente nell’inserimento di una doppia fila serie di pali molto ravvicinati con orientamento perpendicolare al suolo, mediante l’impiego di speciali chiatte dotate di berta, nella forma romboidale di uno spazio ricavato a partire dalle bionde acque fluviali. Cui fa seguito, logicamente, la realizzazione di un terrapieno impermeabilizzante nell’intercapedine, sopra il quale viene montata una tipica ruota ad acqua per il sollevamento ciclico di capienti secchi. Tramite l’impiego di quest’ultima, senza particolari problemi, lo spazio viene allora drenato fino al punto di poter raggiungere il fondale, ove mani non viste pongono le fondamenta del pilone. Un’intelaiatura in assi di legno, sopra cui una forma in muratura simile alla doppia prora di una nave diviene un ulteriore recipiente, colmato di terriccio e sassi, la cui forma idrodinamica dovrà contribuire a deviare la forza e l’impatto delle acque insistenti del fiume Moldava. Una volta raggiunta un’altezza grosso modo corrispondente alla metà della struttura finale, l’opera prosegue mediante l’installazione ed impiego del caratteristico tipo di gru chiamato in latino magna rota (grande ruota) consistente in un meccanismo di sollevamento fatto funzionare mediante la semplice forza umana di una, oppure due persone, fatte correre come criceti all’interno di una sorta di meccanismo ginnico ante-litteram, con un guadagno energetico davvero significativo. Questo metodo, attraverso lunghi e operosi giorni, permetterà quindi la messa in opera della struttura temporanea della centina, l’insieme di sostegni e impalcature lignee utilizzati per sostenere un arco durante la sua costruzione e prima della posa della chiave di volta, sufficiente a garantirne la solidità anche in assenza di cemento o malta di qualsivoglia tipo. Che in effetti nel mondo antico e medievale molto spesso non si usavano, anche in strutture destinate a sopravvivere fino ai nostri remoti giorni. A questo punto, un po’ alla volta il ponte cresce, con pietre quadrangolari prelevate direttamente dalle imbarcazioni di trasporto e disposte in una doppia muraglia, non del tutto dissimile da quella di una cattedrale o fortezza. Ulteriori strati d’inamovibile terriccio vengono così deposti, tra le alte mura, fino all’altezza desiderata, momento in cui si passa all’implementazione della strada, percorribile a cavallo oppure a piedi, che dovrà da quel momento congiungere le due metà della città di Praga, chiamate rispettivamente “vecchia” e “piccola”. Ma non prima che una fondamentale struttura spiovente, disposta sopra la parte esposta dei piloni, possa incrementarne ulteriormente il grado continuativo di resistenza agli elementi. A questo punto chiaramente, visto il tempo trascorso, ogni persona originariamente coinvolta nel progetto sarebbe stata ormai molto anziana o defunta. Come anche lo stesso Imperatore, passato a miglior vita nel 1378, circa 24 anni prima che il ponte recante il suo nome potesse andare incontro alla solenne e tanto lungamente attesa inaugurazione. Per diventare un passaggio obbligato durante l’incoronazione dei suoi successori aprendo un nuovo capitolo, destinato ad arricchirsi di numerosi punti di contatto con le complesse tribolazioni storiche della città di Praga.
Gli insidiosi laghi dell’Australia ricoperta di sale
Quando si considerano gli aspetti orografici del territorio, non si è soliti prendere in considerazione l’entità della minaccia custodita nel particolare rapporto tra gli elementi sotterranei e l’esistente falda acquifera, normalmente raggiungibile soltanto tramite un’approfondita trivellazione, subito seguente alla prima costituzione dell’insediamento umano. E così sarebbe andata, per un tempo ragionevolmente lungo, anche nel più nuovo dei continenti, inteso come terra coloniale dell’impero inglese, presto destinata a trasformarsi nella nazione australiana. La questione si sarebbe palesata, quindi, un po’ alla volta, per la progressiva rimozione di uno stato in essere delle pre-esistenti cose. Ed alberi, cespugli, siepi dalle radici naturalmente profonde. Tali da mantenere un più proficuo tipo d’equilibrio…
Di laghi come quelli che compongono il gruppo effimero che persiste, ormai da tempo, qualche chilometro a sud-est della città di Perth nello stato di WA (Western A.) ve ne sono parecchi disseminati nell’intera regione ed anche oltre, propensi a comparire a seguito di piogge intense e quindi rimanere in essere per tempi sufficientemente lunghi da guadagnarsi un nome. Ma non abbastanza, nella maggior parte dei casi, per comparire sulle guide turistiche internazionali. E così questo particolare cluster, fotografato assai probabilmente via drone e pubblicato periodicamente su diversi social network, finisce per diventare la simbolica costellazione di un’antica serie di cause ed effetti, che con il procedere dei giorni non potrà fare altro che raggiungere le sue più estreme conseguenze finali. Milyunup, Racecourse, Munrillup, Balicup (e molti altri privi di un appellativo) compaiono per questo in asse l’uno rispetto all’altro, come residui molto successivi dell’antico corso di un fiume ormai scomparso, e di una serie straordinariamente varia di tonalità distinte: rosso, arancione, azzurro, persino viola. Le quali tendono a scomparire e ricomparire in base alle condizioni ambientali, qualche volta scambiandosi di posto. Perché conche come queste, a meno di 100 Km dalla costa, sono soliti funzionare come punti di raccolta dell’aria salmastra proveniente dal Pacifico, entro cui nei secoli dei secoli riesce a concentrarsi una quantità di sodio sufficiente a generare una vero e proprio ecosistema. Di alghe alofitiche come la Dunaliella salina, la Dangeardinella saltitrix e molti altri organismi pirrofiti, inclini a pubblicizzare la propria presenza tingendo in modo variegato le accoglienti acque d’appartenenza. E se questo fosse il nesso dell’intera questione, nonché il suo solo effetto, non ci sarebbe poi granché di cui preoccuparsi. Ma l’equilibrio salino del suolo australiano è da sempre una problematica sotto stringente sorveglianza, in modo particolare da quando, verso l’inizio del Novecento, una grande quantità di terreni agricoli iniziarono a diventare progressivamente meno fertili. Prima di essere riconquistati, progressivamente, dall’estendersi dei vasti deserti dell’entroterra. Con una motivazione che potremmo ricercare, ed individuare, proprio nel processo sito alla base della loro stessa implementazione nelle decadi antecedenti. Poiché l’uomo, con intento prevalentemente agricolo, aveva provveduto al disboscamento previa definizione dei terreni destinati alla produzione del suo sostentamento. E sempre l’uomo, continuando a fare quel che gli riesce meglio, ha continuato a costruire tutto attorno vasti insediamenti e veri e propri agglomerati urbani. E per quale ragione in ultima analisi, tutto questo avrebbe mai dovuto essere del tutto privo di conseguenze?
Tra valli cinesi, la stabilità di un condominio custodito dagli spiriti degli antenati
Tra gli alti edifici della vasta Canton, nei pressi di una trafficata strada di scorrimento, sorge una particolare forma di edificio: moderno e funzionale, il tulou (土楼) moderno ha l’evidente aspetto di un’imponente, ponderosa fortezza dedicata al popolo bisognoso di spazi rispondenti al suo bisogno abitativo. Tonda e con pareti spesse, alte a sufficienza da ospitare un totale di ben sei piani. Ed occupata, nella sua parte centrale, dall’ampio spazio di un cortile interno simile a un anfiteatro, dove si affacciano le finestre di un totale di 360 appartamenti, conformi alle caratteristiche di una vasta residenza popolare. Qualifica, quest’ultima, senz’altro necessaria a definire ulteriormente l’oggetto di una simile descrizione, visto il significato letterale del resto del suo nome principale, usato normalmente per riferirsi al concetto di una “casa di terra” costruita in specifiche circostanze territoriali. E sebbene di quest’ultimo materiale non ve ne sia alcuna traccia, nei 13.771 metri quadri della struttura progettata dallo studio Urbanus, essa è in ogni aspetto rilevante simile a qualcosa che potrebbe rientrare a titolo dimostrativo nell’elenco architettonico dell’UNESCO. Perché di tulou cinesi, potreste averne visto uno in epoca recente; all’interno del film live-action della Disney tratto dal racconto popolare della donna-guerriero Mulan, dove ne compariva un valido esempio, collocato tuttavia in maniera non eccessivamente storica in un’epoca riconducibile grosso modo alla dinastia degli Wei (534-550 d.C.) Senza contare come le scene rilevanti, in cui la protagonista veniva mostrata nel contesto abitativo del suo clan, erano state effettivamente girate presso il gruppo di 46 edifici nella regione di Fujian, situati all’opposto lato della mappa rispetto alla supposta ambientazione settentrionale del racconto. Dimostrando tutte le caratteristiche, per gli spettatori più attenti, di una dimora tradizionale dell’etnia degli Hakka (客家 – Popolo Esterno) destinati a costruirli soltanto a partire dal XII secolo e fino al confine dell’epoca contemporanea. Poiché non c’è niente, nel suo originale contesto d’appartenenza, di più efficiente e pratico di un palazzo fortificato: dove tutti ricevono gli stessi spazi, la comunità è protetta da eventuali banditi o intrusi e la vasta area centrale permette di disporre di un luogo d’incontro, utile a pianificare e coordinare le attività del clan. Inteso come “Gruppo familiare in grado di vantare un antenato in comune” quello, per l’appunto, che si riteneva avesse costruito il tulou. Tanto che a voler approfondire l’argomento, gli studiosi non sono neanche d’accordo sulla definizione di cosa, esattamente, indichi quel termine antico, data l’ampia varietà di forme, aspetti e dimensioni. Il tipico “villaggio in scatola” occupato da fino ad 800 persone poteva infatti avere una forma circolare o quadrata, un numero variabile tra i tre ed i cinque piani, sorgere in montagna o in pianura, isolato o circondato da strutture simili e reciprocamente solidale. Questo poiché secondo la tradizione, ogni esempio andava prima valutato con l’attento studio da parte di un filosofo del Feng Shui (風水) l’arte consistente nello studio degli influssi naturali ed elementali sulle scelte abitative del consorzio umano. Così che, integrando in qualche modo mistico la natura stessa del paesaggio circostante, i tulou diventarono un eccellente esempio di coabitazione tra l’uomo e il suo contesto geografico, l’impianto dei propri bisogni, le più valide speranze del suo domani…