Tra gli esploratori europei che hanno compiuto i propri viaggi nel XIX secolo annotando dati di rilievo in merito a geografia, abitanti e culture lontane, probabilmente il più ingiustamente trascurato dagli storici è il francese Charles Huber, che percorse l’intero territorio d’Arabia tra il 1880 e il 1884. E probabilmente avrebbe continuato a farlo in seguito, se non fosse morto quello stesso anno sulle coste del Mar Rosso, assassinato da comuni criminali con il probabile quanto banale scopo di una rapina. Suoi gli studi in merito al sito Nabateo di Mada’in Salih ed a lui viene attribuito, forse in modo apocrifo, il ritrovamento della stele di Tayma, oggi custodita al museo del Louvre, parte di una serie di iscrizioni in lingua aramaica che influenzarono notevolmente la percezione della storia ebraica nella principale penisola del Medio Oriente. Tra le contingenze comparativamente di minor rilievo presenti nei suoi diari, figura tuttavia una pietra considerevolmente più grande, ancora oggi non lontano da quell’oasi situata 400 Km a nord della città di Medina, la cui caratteristica principale risulta essere un tratto morfologico decisamente inusuale. Alto sei metri, largo 9 e con un peso attorno alle 120 tonnellate essendo composto di arenaria, il macigno di Al Naslaa sfida d’altra parte la sua stessa definizione singolare, essendo stato suddiviso in un’epoca pregressa in due metà approssimative, mediante la presenza di un taglio tanto esatto e privo d’irregolarità da far pensare subito all’intervento dell’uomo. Tesi avvalorata ulteriormente dagli apparenti “basamenti” vagamente paraboloidi e dalla presenza di una serie di petroglifi con soggetti equestri scavati mediante l’utilizzo di uno scalpello, oggi ritenuti antichi almeno di quattro millenni e potenzialmente collegati alle usanze di popolazioni di cui la storia scritta non ebbe l’occasione di fare alcun tipo di menzioni. Individui, o gruppi sociali che dir si voglia, comunque necessariamente dotati di un’organizzazione del lavoro particolarmente avanzata e strumenti alquanto tecnologici, se è vero che persino oggi un’opera come la pietra in questione risulterebbe tutt’altro che semplice da portare a termine, senza l’impiego di grossi macchinari da cava o persino un qualche tipo d’avveniristico laser militare. Generazioni successivi di archeologi e geologi, da quel momento, si sono succeduti nel tentativo di scoraggiare i teorici del senso comune, pronti a ipotizzare la partecipazione al progetto d’ipotetiche civiltà aliene o viaggiatori del tempo, dando adito a sottotrame tipiche di moltissimi romanzi di fantascienza che d’altronde, avrebbero potuto essere applicate a qualsiasi altro sito insolito situato in altre regioni del mondo. Un tendenza al ricamo concettuale destinata solamente a crescere, successivamente all’introduzione di Internet e la creazione di spazi dedicati letteralmente all’elucubrazione di ogni sorta di controcultura o approcci alternativi alle nozioni irrisolte. Tanto da indurci, persino adesso, a un tuffo avventuroso tra quelle che potremmo definire, in mezzo alle altre, le ipotesi maggiormente degne di essere prese seriamente in considerazione…
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Il bastone millenario che controlla il livello dell’acqua nelle fondamenta della cattedrale anglicana
Quanto può essere importante, davvero, una singola mattonella? Quali misteri possono nascondersi sotto un elemento geometrico misurante appena 30 centimetri di lato? La risposta è come sempre che dipende da quello che c’è sotto. E quanto sia profonda, in senso pratico, la contorta tana del metaforico bianconiglio. Che sapeva anche notare, per sua fortuna: poiché non è raro sotto il suolo, in una miriade di possibili località alternative, che sussista uno strato latente d’acqua pre-esistente. La cosiddetta falda acquifera, che può essere un pericolo o una risorsa. Soprattutto il primo caso, per coloro che pretendono di costruirvi sopra una qualche cosa che sia destinato ad attraversare intonso le generazioni a venire. Soprattutto quando la struttura in questione pesa, approssimativamente, attorno alle 73.000 tonnellate di legno e pietra. Abbastanza, nella maggior parte delle circostanze possibili, da essere propensa a sprofondare. Miracolo divino, dunque, o prodezza dell’ingegneria medievale? La cattedrale della “nuova” Salisbury, così chiamata per distinguerla dal sito del vecchio insediamento romano, in seguito abitato dai normanni dopo la venuta di Guglielmo il Conquistatore nell’XI secolo, il cui figlio e successore diede infine l’ordine, nel 1092, che venisse costruita un’imponente chiesa ove condurre riti in base a linee guida non del tutto riconducibili a quelle della distante Roma. Edificio destinato a restare un unicum per appena due secoli, finche il vescovo Herbert Poore, possibilmente a causa delle sue difficoltose relazioni con i militari della vicina fortezza, non chiese il permesso di spostare il principale edificio di culto cittadino. Ipotesi dapprima accettata dal sovrano, quindi rimandata fino al subentro del nuovo ecclesiastico e fratello Richard Poore, di cui si narra che lanciando una freccia in modo casuale verso i pascoli antistanti il centro cittadino, colpì esattamente un cervo di passaggio. E proprio in quel punto, come si trattasse di un prodigio, venne deciso di posizionare la prima pietra. Era il 28 aprile del 1220 e non ci sarebbe voluto molto per rendersi conto di aver commesso un fondamentale errore. Poiché la brava gente di Sarum, nei primi anni dell’insediamento, aveva scelto per ragioni agricole di procedere al drenaggio di un’intera palude. Le cui acque ormai sepolte in invisibili profondità, avevano al momento cominciato a riemergere come diretta conseguenza dello scavo per le fondamenta necessarie. L’imponente nuova cattedrale di Sarum dunque, come la gente aveva cominciato a chiamarla, rischiava d’inabissarsi ancor prima che le sue mura cominciassero ad alzarsi in modo significativo verso il cielo. Se non che gli sconosciuti progettisti, lungi dal perdersi d’animo, deciso piuttosto d’impiegare una soluzione alquanto avveniristica, persino col senno di poi: la deposizione d’ingenti quantità di ghiaia, prima di procedere nell’espletamento delle proprie ambizioni architettoniche. Così che l’intero edificio, mano a mano che il progetto procedeva innanzi, si trovasse da ogni punto di vista pratico a “galleggiare” sopra tale zattera frammentata ed incomprimibile, resa stabile dal proprio peso inusitato. Giacché questo fu probabilmente il primo caso pratico in cui venne scoperto in che misura, realmente, l’acqua stessa potesse contribuire alla stabilità strutturale di un agglomerato di materiali edilizi. A patto, s’intende, che le quantità in gioco fossero costanti nel tempo, ovvero che in funzione dell’aumento o diminuzione dell’umidità rilevante, qualcuno potesse intervenire al fine di mantenere dei valori costanti. Un proposito di per se impraticabile, prima di aver preso le opportune precauzioni procedurali…
26 milioni di mattoni e le circostanze in grado di rendere immortale un ponte
“Fui costruita senza l’utilizzo di tecnologia moderna” esordisce l’immagine memetica della Via Appia Antica su Facebook, condivisa dall’uomo medio che non riesce a smettere di pensare all’Impero Romano “E sono ancora esattamente come il giorno in cui mi hanno inaugurato.” Seguita dal controllo per comparazione di una strada contemporanea: “Ingegneri laureati hanno firmato il mio progetto.” E qui, l’asfalto ricoperto da crepe e difformità e buche: “Guardatemi adesso.” Ah, i bei tempi andati! La realtà d’altronde è che costruire una strada fatta per durare non è necessariamente difficile a patto di seguire determinate linee guida. Giacché il senso comune, un tempo fondamento delle professioni tecniche di tipo più diverso, è perfettamente in grado di farci capire cosa può resistere per decadi, generazioni o persino secoli a venire. I problemi cominciano, di loro conto, quando le infrastrutture iniziano ad essere impiegate DAVVERO. Quante tonnellate di veicoli attraversano, oggigiorno, un importante punto di collegamento tra due province? E quanti solevano farlo prima dell’invenzione dei veicoli a motore? Una domanda che diventa tanto maggiormente significativa, nel momento in cui un degno svincolo conduce all’inizio di un ponte. Ove la massa soverchiante si trova ad essere affiancata dalla stessa forza di gravità, nel tentativo di rovesciare le aspirazioni e aspettative dei costruttori alle origini della contingenza. Considerazione non semplice da soddisfare. E che porta talvolta all’estensione delle tempistiche necessarie alla risoluzione di un particolare problema.
Ad esempio: era almeno dall’inizio del XIX secolo che nello stato tedesco della Sassonia si era percepito il bisogno di costruire una ferrovia in grado di collegare Lipsia ad Hof, e per suo tramite Norimberga. Una missione almeno in apparenza impossibile, a causa della profondità e ripidità della valle del fiume Göltzsch, da cui nessuna locomotiva a vapore avrebbe potuto risalire nello stesso modo in cui era discesa. E un ponte, che avrebbe dovuto essere alto 78 metri e lungo 574, appariva semplicemente al di là della portata dell’ingegneria corrente. Questo almeno finché osservando le strutture comparabili costruite nelle successive decadi in Inghilterra, Francia ed altri paesi d’Europa, alla compagnia ferroviaria Sassone-Bavarese non venne in mente di indire un concorso. Era il 27 gennaio del 1845 quando per l’offerta di 1.000 talleri al vincitore, ben 81 aspiranti progettisti si presentarono di fronte a una commissione guidata dal rinomato professore di architettura di Dresda, Johann Andreas Schubert, andando tutti incontro ad rifiuto per lo più categorico. La ragione era presto detta: di fronte alla necessità di dare la certezza che tali proposte potessero durare nel tempo, egli non poté offrire tale garanzia in tutta coscienza per nessuno dei casi vagliati. Finché in parte esasperato, in parte ispirato dalla situazione, non consigliò di dividere il premio tra quattro delle idee migliori. Prima d’impiegarle come punto di partenza per la SUA idea di come dovesse essere costruito il viadotto del Göltzsch. Il che avrebbe finito per richiedere ulteriori mesi di calcoli e approfondimenti, visto l’approccio totalmente innovativo da parte di Herr Schubert di un processo di sua esclusiva invenzione. Quello che oggi siamo soliti chiamare analisi strutturale, o calcolo statico delle forze in gioco…
L’antico imperatore che fece tagliare a pezzi una montagna per onorare suo padre
Pietra. Pietra enorme che svettante, forma un’ombra sull’alto versante. Pietra cuboidale dagli spigoli aguzzi. Ed i residui abbozzi. Pietra gigante. Pietra importante. Chi ha trovato questa pietra nella parte centro-settentrionale dell’antico paese unito, poi diviso, poi unito, invaso e infine liberato? Nessuno, nel senso che il pesante dono per chi l’ha voluto è frutto di un intento umano. L’estensione di un bisogno largamente arbitrario, riassumibile nell’ordine costituito dal preciso intento di colui che aveva l’assoluto potere. Yongle, l’imperatore della “Gioia Infinita” (永樂) direttiva che in alcun modo doveva necessariamente concretizzarsi per i suoi fedeli soggetti. Particolarmente coloro che furono inviati, a partire dall’inizio del XV secolo, presso l’antico sito e cava di Yangshan: in buona parte lavoratori deportati dalle province più distanti dell’impero, ma anche la povera gente reclutata tra il popolo della vicina Nanchino, criminali comuni e l’occasionale detrattore politico, semplicemente inammissibile in un’epoca in cui il Mandato Celeste veniva interpretato come un letterale pilastro dell’esistenza civile su questa Terra. Così come sanzionato dalla schiera d’intellettuali confuciani, amministratori ed eunuchi di corte che avevano accompagnato l’ascesa al potere di un tale augusto personaggio, al secolo Zhu Di, sostituendosi all’aristocrazia guerriera di suo nipote e predecessore sul Trono del Drago, l’imperatore Jianwen. Dopo una feroce battaglia entro i confini della città nota al tempo come Beiping, ove si distinse tra gli altri il suo importante servitore e futuro esploratore dell’intera Asia meridionale, Zhang He. Ma ciò che non viene altrettanto spesso ricordato è come, oltre ad ampliare sensibilmente i confini della propria rete di tributari, Yongle avesse al tempo stesso investito parti considerevoli delle proprie ricchezze nella costituzione d’importanti opere pubbliche in tutta la Cina. Come strade, ponti, magazzini, la svettante e in seguito distrutta (poi ricostruita) pagoda della Torre di Porcellana nella sua nuova capitale a Nanchino. Tutte opere che giunsero a beneficiare dell’antica cava marmorea, originariamente istituita dalle dinastia precedente. E che dire della stele alta otto metri presso il Mausoleo Ming Xiao della Montagna Purpurea? Creata da un pesante monolito sorretto dalla scultura di una tartaruga immortale. Dedicata doverosamente a suo padre e fondatore della dinastia Ming, l’imperatore Hongwu, benché si trattasse nella realtà dei fatti di una mera riduzione necessaria del progetto di partenza! Che avrebbe dovuto raggiungere, idealmente e nei disegni preparatori commissionati dal supremo dinasta, i 73 metri paragonabili alla moderna Statua della Libertà escluso il plinto, per di più occupati da un massiccio insieme di tre blocchi di materiale calcarei, con un peso complessivo misurabile attorno alle 30.000 tonnellate. Ovvero circa trenta volte quello dell’obelisco di egiziano di Aswan, rimasto incompleto per l’impossibilità fisica di spostarlo dalla cava in cui era stato intagliato. Ma chi avrebbe avuto il coraggio di prevedere un simile esito al cospetto del notoriamente spietato, spesso irragionevole o impaziente Imperatore della grande Gioia?