Se la logica è il tuo credo, non seguire il gatto nello strano mondo delle proporzioni animali

Camminando lungo il fiume della notte insonne, mi trovai sui margini di un misterioso edificio. Cos’è dritto, cosa obliquo? Ed in che modo i sogni si distinguono dalla realtà di questa luce sfarfallante? Chiusi gli occhi e aprendoli di nuovo, un lieve miagolio guidò lo sguardo verso l’essere agile, ma immoto. Miao? Se proprio insisti. Miaao: dicendo questo ed agitando la sua coda serpeggiante, il gatto m’indicava l’unico sentiero a mia disposizione. La porta della quotidiana sussistenza, ovvero il semplice punto d’ingresso di un supermercato, nella dimensione tipica di un mondo a dimensione felina. Allora qui notai l’insolita questione! Per ciascun passo innanzi che tracciavo, il bosco si piegava e richiudeva tutto intorno. Semplici cespugli diventavano dei monumenti. E gli alberi, colonne in grado d’oscurare il cielo stesso. Eppur l’interno prometteva luce, pace, un senso di pacifica accoglienza. Varcata quella soglia d’improvviso poco più alta delle spalle, mi sembrava di aver acquisito un nuovo senso di me stesso. Per cui barattoli, bottiglie, frutta, bibite, insalata, pane, caramelle assumevano d’un tratto proporzioni adatte. Immaginando, finalmente, di poter trovare un qualche tipo di risposta o spiegazione, mi voltai verso le casse; lui era lì. In attesa. Miao (Buongiorno!) Meow (Il mio nome: Mr. Nice) Nyan (Benvenuto all’altro Mondo) Wang, wang: (Seguimi, se vuoi scoprire cos’ha costruito il mio Padrone).
Anni dopo il mio risveglio o almeno è in questo modo che mi sarebbe sembrato, nel diverso spazio semi-onirico che fluttua tra le pagine d’insostanziale etere del Web, avrei scoperto di chi egli stava miagolando. Niente meno che Xing, di Xing Zhilei Ama Armeggiare (爱鼓捣的邢志磊 – Ài gǔdao de Xíngzhìlěi) l’eponimo canale Internet, nato presumibilmente sul social cinese BiliBili per poi propagarsi su Douyin (nome originale di TikTok), Instagram, Facebook e persino in versione anglofona doppiata nell’ubiquo catalogo YouTube/iano, diventato celebre per l’eccezionale qualità delle sue miniature. Col che non intendo, chiaramente, illustrazioni a un manoscritto medievale bensì validi modelli di effettivi spazi architettonici, in scala 1/3 o 1/2 (i soffitti misurano, in media, attorno al metro e quaranta) per mettere davanti al pubblico la realtà tangibile di mini-appartamenti, mini-supermercati, mini-parcheggi con tanto di mini-Tesla Truck ed innumerevoli altre facezie dell’alterazione di ogni proporzione acclarata. Un’idea nata, a quanto narrano i pochi articoli disponibili online, dal desiderio di sua moglie di far conoscere il proprio negozio di accessori per animali.
E chi non ha mai pensato, almeno una volta, di usare per il marketing una fedele riproduzione di quanto vede o incontra nel corso delle proprie memorabili giornate metropolitane? Specie quando si può fare affidamento, oltre al gatto, su una serie di modelli da inserire nel contesto di una simile creatività selvaggia, tra cui un simpatico Shiba inu, un paio di criceti, varie tartarughe, due bambini (perché no) e persino un ragno saltatore nella sua dimora chtonia, per meglio propinare al pubblico l’assurda illusone ricorsiva di un sistema di matrioske o scatole cinesi…

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Catarsi nel Caucaso: la tragedia del maestro che precipitò dal tetto del monastero

La conoscenza approfondita della storia di un luogo nel corso del Medioevo è frequentemente la diretta risultanza del lavoro di un cronista, personalità istruita che a vantaggio dei contemporanei e la posterità ulteriore, fece impiego delle proprie conoscenze per tradurre in una cronaca la dettagliata memoria dei trascorsi di un popolo, un paese, una famiglia. Lavoro che fu compiuto, per quanto riguarda l’Armenia dall’XI al XIII secolo d.C, dal vescovo metropolitano ortodosso Stepanos Orbelian, discendente dell’omonima e prestigiosa famiglia di feudatari della provincia di caucasica di Syunik. Che si misero al servizio, nel 1177, del nipote del re della Georgia, il principe Denma, durante la ribellione contro il sovrano usurpatore Giorgio III Bagration. Destinata a naufragare nel sangue e la severa punizione di quest’ultimo, nonché l’esilio dei suoi più fedeli sostenitori. Ma i signori di Syunik sarebbero tornati in patria la generazione successiva, per assistere la figlia del re Tamar e il suo successore nonché nipote, Giorgio IV Lasha contro l’invasione del Turchi Selgiuchidi, il che valse a Liparit III Orbelian la qualifica di viceré di Georgia e tutti i suoi domini. Seguì un’epoca di ricchezza e prosperità nella provincia, capace di riflettersi in quell’epoca dal forte sentimento religioso nella costruzione di splendidi edifici ecclesiastici, svettanti chiese e notevoli monasteri. Il più celebre dei quali, senza ombra di dubbio, sarebbe rimasto nel millennio successivo quello di Noravank, situato a 122 Km dalla città di Yerevan dentro un angusto canyon scavato nell’arenaria dal fiume Amaghu, vicino al villaggio di Yeghegnadzor. Un complesso architettonico indicativo delle tecniche costruttive dell’epoca, usato anche come residenza e mausoleo della famiglia a partire dal completamento della chiesa cruciforme di Surb Karapet, dedicata alla figura di Giovanni Battista.  Ma le cui vette più elevate, in più di un senso, sarebbero state raggiunte nel 1339 con l’adiacente santuario dedicato ad Astvatsatsin (la “Santa Madre di Dio”) struttura alta 26 metri costituita da due piani, dalla forma di un rettangolo sormontato da una croce greca. Dietro le cui svettanti mura, aguzzando la vista, un osservatore ideale di quel panorama potrà scorgere una piccola khachkar, la tipica croce decorata con bassorilievi dei luoghi sacri e cimiteri Armeni, così istantaneamente diversa dalle altre contenute entro il perimetro del monastero, proprio perché umile nell’aspetto e semplice nel progetto artistico di colui che dovette crearla. Si tratta, molto chiaramente di una tomba, dedicata a niente meno che Momik, il leggendario scultore, architetto e illustratore di manoscritti del XIII secolo, la cui ultima creazione fu proprio la chiesa di Astvatsatsin. Ed il cui completamento, secondo una leggenda collegata all’ultimo periodo della sua vita, non avrebbe mai avuto l’occasione di vedere. Causa il tradimento supremo, subìto proprio per il tramite di colui che gli doveva maggiore riconoscenza…

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Il colpo di cannone che, due millenni dopo, distrusse il monumento simbolo dell’antica Grecia

La natura stessa della guerra è tale da evocare un diversificato sovrapporsi di profili di condanna, presupposti distruttivi e larghi propositi di annientamento. Per cui maggiormente una cosa ci è preziosa, per lo meno in linea di principio, tanto più diventa il più invitante bersaglio dell’artiglieria o i bombardamenti. Proprio PERCHÈ risulta essere umanamente basilare, perfettamente condivisibile, il sentimento di chiunque avrebbe avuto l’intento di preservarlo. L’abbiamo visto succedere ripetutamente in questi ultimi tragici anni tra Europa e Medioriente, con la continua qualificazione a validi obiettivi di scuole, ospedali, condomini largamente abitati. Ma si tratta di una storia vecchia quanto la civilizzazione stessa, che nel susseguirsi delle epoche ha portato a indicibili miserie, sofferenza e svariati casi l’imprevista distruzione di opere insostituibili del patrimonio più che mai tangibile dei nostri stimati antenati. L’Impero Ottomano, a tal proposito, aveva nel XVII secolo d.C. l’encomiabile reputazione di conservare, proteggere, persino restaurare i monumenti presenti nei propri territori di conquista. Avendo, al massimo, l’occasionale tendenza a trasformare chiese o antichi templi in luoghi di culto adibiti alla pratica della religione musulmana. Ciò detto, l’ignoto generale del Sultano che nel 1687 aveva ricevuto il compito di proteggere la provincia di Morea (chiamata Peloponneso sin dai tempi delle poleis greche) durante la sanguinosa guerra contro la potenza mediterranea di Venezia operò in tal senso un singolare stratagemma, per cui la storia avrebbe avuto il compito di condannarlo in eterno. Non potendo disporre di un luogo migliore ove piazzare la propria Santabarbara, costruì dunque un deposito di munizioni nel punto più alto della propria capitale, la millenaria città di Atene. Il quale niente affatto casualmente si trovava in corrispondenza dell’acropoli stessa e la struttura, allora straordinariamente integra, di uno degli edifici più importanti e lungamente celebri del Mondo Antico, risalente all’ancestrale 432 a.C, quando Pericle l’aveva fatto costruire come simbolo e riserva aurea della potente lega di Deli. Trasformato in chiesa di Maria durante il Medioevo, ed ingrandito con ridotte e bastioni nei periodi di guerra, come fortezza dalla collocazione privilegiata, prima che i cosiddetti infedeli ne facessero, successivamente alla conquista del 1456, una moschea con tanto di minareto. Ma ciò che avveniva al piano terra non rifletteva la sua funzione ulteriore nascosta nel solaio pieno di polveri e ordigni di varia natura, della quale il generale Francesco Morosini accompagnato dal suo inseparabile gatto, destinato a diventare l’anno successivo il doge incontrastato della Serenissima, fu pienamente al corrente per fattori di contesto ed informazioni ricevute militarmente. Fu così del tutto inevitabile da un certo punto di vista, nonché perfettamente evitabile da altri destinati a rivelarsi un miraggio lontano, che del tetto ligneo dell’antico tempio di Atena parthenos (vergine) venisse fatto un legittimo bersaglio di guerra. Di quel tipo altamente predisposto alla detonazione che, raggiunto da un qualsiasi tipo di esplosivo, sarebbe saltato in aria con roboante e devastante deflagrazione. Il che avvenne, puntualmente, nel modo in cui sareste pronti ad immaginarvi…

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Il bianco tempio arabeggiante che costituisce uno dei luoghi più sacri dell’Induismo tradizionale

Candida è la luce che risplende, all’alba ed al tramonto, riflettendosi contro le cupole del vasto palazzo marmoreo che domina la piazza di Janakpur, una delle principali città della provincia di Madhesh nel paese più alto del mondo nonché capitale dell’antico stato nepalese di Mithila. Un’entità culturale distinta, persino oggi, la cui importanza in Nepal è stata lungamente collegata a una particolare storia narrata nel poema epico del Ramayana; poiché proprio questo sarebbe stato, in base alla narrazione, il luogo di nascita di Sita Mata, figlia della Madre Terra e consorte di Rama, manifestazione in forma umana del Dio Vishnu. Ritrovata in un campo nei solchi dell’aratro (proprio a questo fa riferimento il suo nome) da niente meno che il sovrano Janaka contemporaneo del sovrano Dasharatha di Ayodhya, la cui saggezza e probità erano note in lungo e in largo nel subcontinente indiano. E fu proprio qui, dove oggi sorge l’imponente Mandir Janaki, che la giovane donna dimostrò la propria eccezionale forza, tendendo come nulla fosse il pesantissimo divino arco di Shiva, custodito nell’armeria reale. Al che il suo proprietario terreno, colpito da tale impresa, decretò che solo chi avrebbe potuto fare lo stesso, sarebbe stato degno di sposare colei che da quel giorno adottò come fosse del suo stesso sangue. Ma Rama seppe fare anche di più, spezzando in tre parti l’arma e il resto, come si usa dire, è storia. O per meglio dire, leggenda?
Molti anni dopo questi eventi, nel 1657, il sant’uomo Shurkishordas giunse in questo luogo guidato da una premonizione. Il che lo avrebbe portato a scovare, sotto un sottile strato di terra, una statua d’oro della divina Sita, il che avrebbe ricordato ai suoi contemporanei il collegamento della città di Janakpur con la protettrice dell’umanità intera. Il che diede inizio ad un fervente culto, ed ulteriori due secoli a venire, alla costruzione di uno dei più spettacolari templi del Nepal, opera di una regina straniera. Sto parlando di Vrisha Bhanu dello stato di Tikamgarh, in India, e del suo Janaki Mandir, ultimato nel 1910 dopo 14 anni di lavoro, nella speranza che la Dea l’avrebbe ricompensata con la nascita di un figlio. Il che non sarebbe giunto a verificarsi dopo il suo decesso, in seguito la quale il consorte sposò sua sorella, mentre lo spettacolare luogo di culto avrebbe potuto costituire un punto di riferimento religioso d’importanza crescente nell’intero secolo successivo. Architettonicamente insolito, con la sua commistione di elementi del barocco Moghul e accorgimenti tradizionali di matrice Koiri Hindu, il palazzo si presenta come infuso di un fascino vagamente arabesco, connotato dai molteplici colori ed elementi statuari tipici della tradizione Rajput. Ma ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui le sue mura, lungi dall’essere la mera meta di un pellegrinaggio o punto di riferimento cittadino, risultano profondamente incorporate nel tessuto culturale locale, supportando un’ampia quantità di stimate tradizioni pubbliche…

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