L’apparente precarietà del primo condominio fluttuante di Singapore

Immaginate di fare il vostro passaggio in taxi nella parte meridionale di una delle principali città stato dell’Asia, mentre vi state spostando dall’aeroporto internazionale al vostro hotel, svettante punto di riferimento con vista sui Gardens by the Bay: tre torri rettangolari, con una grande piscina sopra, che le unisce creando la più memorabile delle balconate. Ma ben prima che il celebre Marina Bay Sands possa comparire al centro del vostro campo visivo, poco dopo aver attraversato una delle principali zone portuali della città e mentre l’autista risale una strada di scorrimento verso un quartiere di parchi, piste ciclabili e villette a schiera, scorgete un’improbabile forma al di sopra dell’orizzonte. In grado di presentarsi come un convenzionale palazzo residenziale a sei piani, stranamente sospeso a mezz’aria ad un’altezza comparabile a quella di un grattacielo di medie dimensioni. Mentre il veicolo continua a salire, quindi, inizia a palesarsi l’effettiva realtà: sotto quel condominio ce ne sono altri due identici, posti in posizione obliqua, e sotto quelli altri due… E così via, fino alla costituzione di un letterale cumulo di unità abitative, accatastate l’una sull’altra in maniera non dissimile dai blocchi di una partita a Jenga. Con gli occhi spalancati, fate la domanda all’autista, il quale come la maggior parte degli abitanti di Singapore parla perfettamente la lingua inglese. Egli sorride, quindi con tono d’ovvietà enuncia: “Ah, quello? È soltanto “the Interlace.” Very nice, isn’t it?”
Ed è una vera fortuna che il vostro viaggio nella città del leone con coda di pesce (mascotte urbana dal 1964) abbia avuto modo di compiersi adesso, piuttosto che in un’epoca antecedente al 2013, anno di completamento ed inaugurazione di questa originale opera dell’architetto di origini tedesche Ole Scheeren, nato nel 1971 e diventato, nel corso delle ultime decadi, uno dei principali rappresentanti della corrente post-moderna e contemporanea. In cui le forme abitative, piuttosto che uniformarsi a un modello, devono rappresentare ogni volta una differente storia, configurata sugli effettivi bisogni e gli elementi periferici di contesto. Il quale, figlio d’arte e già progettista di mobili all’età di soli 14 anni, si è poi laureato studiando a Karlsruhe, Losanna e presentando la sua tesi a Londra, ma non prima di aver vissuto un anno sabbatico viaggiando con lo zaino in spalla attraverso la Cina, un’esperienza che gli ha permesso di conoscere gli aspetti più particolari e specifici di questa vasta cultura. Con il risultato di riuscire quindi a esprimerla, in maniera certamente innovativa, tramite un’interpretazione estremamente personale del concetto di vita comunitaria, uno dei fondamenti della megalopoli dei nostri giorni. Questo particolare complesso di appartamenti, costruito per inserirsi nel programma della HDB (Housing and Development Board) degli edifici con partecipazione pubblica concessi ai privati con la formula dell’affitto dei 99 anni, rappresenta in un certo senso il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato con la sua prima e più famosa opera in terra d’Oriente, lo svettante grattacielo della tv di stato cinese a Pechino. Una struttura dalla forma ad anello posto verticalmente di cui parla con entusiasmo durante la sua conferenza TED del 2015, concepita per sovvertire il “concetto gerarchico” di un palazzo che sorge semplicemente dal terreno per svilupparsi verso l’alto, laddove trovarsi più in alto vorrebbe dire, nelle sue stesse parole, “sentirsi superiori agli altri”. E pur essendo sensibilmente più piccolo, con i suoi 80,761 metri quadri utili contro i 389.079 di quello che tutt’ora rappresenta, nei fatti, uno dei più vasti edifici costruiti nella storia dell’uomo, appare evidente come il suo complesso di appartamenti di Singapore rappresenti un’evoluzione ulteriore del concetto, in cui non esiste più un singolo ultimo piano ma una pluralità di essi, ovvero nella fattispecie 31, uno per ciascun ideale mattone dell’affascinante struttura dal modulo ripetuto. Costituita allo stesso tempo dai suoi spazi pieni e nei vuoti che si formano naturalmente, dall’intersecarsi degli angoli vicendevolmente imperniati tra di loro, nell’allusione a una sorta di geometrico albero delle meraviglie. Un’amore per la natura che riemerge, quindi, da alcune delle stesse funzionalità più originali dell’edificio…

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Il perfetto restauro della sirena da nebbia di Sumburgh

Dipinta di un rosso intenso che vorrebbe riportarla all’antico splendore. Come componente primaria di un progetto dal costo complessivo di 5,4 milioni di sterline approvato nel 2011, che ha incluso il totale ripristino delle mura e delle componenti tecniche del suo complesso, oltre alla costruzione di un centro visitatori completo di materiale didattico e divulgativo. Difficilmente sarebbe possibile immaginare un viaggio altrettanto valido nel passato auditivo di un luogo. E un suono più nostalgico di questo….
È sorprendente pensare quanto tardi, nella storia degli spostamenti via mare, si è potuto disporre di sistemi adatti a ogni clima per la segnalazione dei pericoli ai naviganti. Il faro di Alessandria, la torre di Ercole ad A Coruña, i bastioni illuminati di Ostia e Laodicea: tutti sistemi molto efficienti nel porre il fuoco vivo ad un’altezza e un luogo di potenziali scafi incagliati o arenamenti senza possibilità di scampo… A patto che, ovviamente, fosse possibile scorgerli con lo sguardo. Il che era facile di notte, meno facile durante il giorno e completamente impossibile in caso di nebbia. Pensate, di contro, con quale facilità una nube formatisi per l’accumulo di umidità all’altezza del suolo può bloccare persino la luce dell’astro solare, e quanto sia possibile invece contrastarla mediante l’impiego di fonti di luce create dall’uomo. Anche scegliendo di fare riferimento a sistemi contemporanei, come fari stroboscopici allo xenon o altri avveniristici marchingegni, in determinati frangenti l’avvistamento di un faro può risultare impossibile. Il che, in un’epoca in cui non esisteva la navigazione GPS, poteva voler dire “soltanto” un naufragio oppure due l’anno. A meno di trovarsi nel profondo nord britannico, oltre il braccio di mare che separa l’isola più grande dall’arcipelago sub-artico delle Shetland, dove in estate le correnti d’aria provenienti dal meridione vengono raffreddate dall’acqua, generando un quasi costante stato di foschia. Creando i presupposti di un luogo ideale, nel 1819, per collocare uno dei nuovi edifici di segnalazione ideati e perfezionati da Robert Stevenson, l’ingegnere civile nonno dello scrittore Robert L, autore de L’Isola del Tesoro. Era questa un’epoca in cui imbarcarsi su navi e galeoni era diventato un agire comune, sebbene ancora condizionato dai pericoli di una fenomenologia meteorologica ancora largamente misteriosi, le cui variazioni improvvise potevano avere un costo in termini di vite umane comparabile a quello di un moderno disastro aereo. E tutto quello che si poteva fare per proteggersi, era affidarsi a soluzioni tecnologiche in grado di rompere con il passato.
Pur essendo meno famoso del capolavoro di Stevenson, il faro di Bell Rock costruito a largo tra le onde del Firth di Tay, la torre di Sumburgh Head poteva vantare alcune delle stesse notevoli prestazioni tecniche. La lanterna all’ultimo piano, alimentata in origine con olio di paraffina, era fornita di una grande lente di tipo Fresnel, la maggiore montata in condizioni normali nel territorio di Scozia. Struttura ottica creata da Augustin-Jean Fresnel della Commissione Fari francese, che permetteva di concentrare la luce attentamente collocata in corrispondenza del suo centro e proiettarla in un singolo raggio al di là della scogliera. A tal fine era ovviamente fondamentale che la lanterna fosse sempre in movimento rotatorio galleggiando in un bagno di mercurio, per non trasformare l’intero implemento nell’equivalente moderno dell’arma di Archimede per incendiare le navi. La distanza raggiungibile da un simile fascio, in condizioni ideali, era di 23 miglia (37 chilometri) ma le condizioni ideali, come dicevamo, da queste parti tendevano ad essere piuttosto rare. L’occasionale incidente navale continuò dunque a verificarsi, nelle giornate di nebbia, almeno fino al 1905, quando l’amministrazione locale pensò finalmente d’importare una nuova invenzione, largamente utilizzata nel territorio dei distanti Stati Uniti: la sirena da nebbia, o Foghorn. Attrezzatura immaginata per la prima volta da Robert Foulis, uno scozzese emigrato in Canada, e che dunque per la prima volta, in questa occasione, stava facendo il suo ritorno in patria. Il concetto di segnalazione auditiva in caso di poca visibilità era largamente noto nell’ambito navale coévo, benché per lo più connesso all’impiego del sistema tradizionale del cannone caricato a salve, il quale risultava decisamente poco pratico in un contesto come quello di Sumburgh Head, in cui la necessità era quella di continuare a farsi sentire per un’intera mattina, o giornata, al fine di prevenire l’eventualità più temuta. Mentre le campane, il più delle volte, non riuscivano a propagarsi al di là dell’effetto isolante delle particelle di nebbia. Il nuovo edificio dunque, abbinato alla residenza di un secondo guardiano che avrebbe lavorato di concerto assieme a quello del faro, fu fornito di una coppia di motori collegati ad altrettanti grossi serbatoi. E per il tramite di questi ultimi, alla cosa più prossima a una tromba dell’Apocalisse che fosse stata mai udita dalla variegata popolazione di volatili migratori, approdati in maniera (assai) temporanea sulla costa più cacofonica dell’intero territorio shetlandese…

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Gli alberi che strisciano sul Meridiano di Ferro

Prendete per un attimo in considerazione, se vi va, la difficile esistenza del bonsai giapponese. Alberello costretto a crescere in maniera limitata, per l’effetto delle attente manipolazioni del giardiniere, e talvolta portato ad assumere forme completamente fuori dalle aspettative comuni: diagonali, orizzontali, ad angolo, con rami contorti che s’intrecciano e annodano tra di loro… Quale impossibile, o almeno improbabile alterazione della strada più semplice preferita dalla natura! Eppure, vi sono dei luoghi. In cui persino in forza di un tale preconcetto, per l’effetto delle semplici forze che ci condizionano tutti allo stesso modo, qualcosa di simile può avvenire. Su una scala decisamente diversa. Si tratta dello spettacolo di una terra che ci ha chiesto con insistenza, attraverso gli anni, di essere visitata in prima persona…
Sette isole, nient’altro che questo, fatta eccezione per la collezione di scogli ed altre piccole rocce emerse, a largo nel mare Atlantico, non troppo distanti dagli estremi confini del deserto del Sahara. Ed una in particolare, tra queste: El Hierro, la terra (dai monti composti di) pietra e ferro. Nota fin dal tempo degli antichi per gli affioramenti di preziosi minerali, dovuti alla forte attività vulcanica pregressa, e relativamente recente, di questa intera regione. Ma anche per il fatto stesso che il geografo ed astronomo Tolomeo, già nel secondo secolo d.C, l’avesse identificata come punto in cui far passare il meridiano 0 dello sferoide  terrestre, una soluzione scelta a durare nel tempo poiché consentiva di avere coordinate numericamente positive per l’intero continente europeo. Stiamo parlando, per intenderci, della più occidentale di tutte le Canarie, facenti ufficiosamente parte del territorio spagnolo fin dalla spedizione di Jean de Béthencourt del 1402, che sottomise e fece vendere come schiavi molti rappresentanti delle popolazioni aborigene locali. Incluse le pacifiche tribù dei Bimbache, abitanti del più remoto dei luoghi, abituati a vivere con un’economia di sussistenza sotto l’egida legale della famiglia del loro re. Il cui stesso fratello, secondo una leggenda, si alleò e fece da interprete ai coloni europei, velocizzando un processo comunque inesorabile della storia. Fu pressoché allora che, per la prima volta, gli spagnoli notarono un importante presagio sulle coste dell’isola: un’intera foresta che pareva inchinarsi, come il suo popolo, alla maestà di Enrico III di Castiglia, andando contro la loro stessa natura di arbusti con cento e più anni di età.
Sarebbe in effetti possibile affermare, senza deviare eccessivamente dalla verità dei fatti, che la terra di El Hierro sia stata creata e venga costantemente resa abitabile per l’effetto dei venti. I possenti Alisei provenienti dal nord-est, capaci di trasportare l’umidità che permette l’esistenza di una biosfera accogliente, in questo luogo piuttosto secco a causa della sua natura geologicamente vulcanica e piuttosto recente, per non parlare della latitudine quasi perfettamente corrispondente alla linea di demarcazione del Tropico del Cancro. Correnti d’aria senza tregua capaci di formare la condensa che grava sull’isola, nelle mattine d’inverno, carica di nebbia vivificatrice, ma anche di colpire con forza le zone più esposte del territorio, causando modifiche importanti al loro aspetto passato, presente e futuro. Come nel caso del famoso Sabinar della Dehesa, ovvero per usare una terminologia italiano, il ginepraio della vasta pianura erbosa della parte nord-est del triangolo formato da El Hierro, i cui principali abitanti vegetali, costituiti da piante appartenenti alla specie dei ginepri fenici (Juniperus phoenicea) sembrano emergere dal terreno per molto meno dei 5-8 metri che normalmente li caratterizzano. Questo perché si trovano sviluppati, in maniera marcatamente atipica, lungo un senso per lo più orizzontale. Per chi dovesse osservare un simile spettacolo con un occhio aperto alle ipotesi più sfrenate, potrebbe persino sembrare che l’intero gruppo di alberi si sia addormentato in un singolo magico momento, per effetto dell’incantesimo di uno stregone o ninfa, restando in attesa della prossima rotazione della grande ruota delle Ere. Dal punto di vista biologico tuttavia non si tratta di un miracolo, bensì di un esempi da manuale di plasticità fenotipica, ovvero la capacità di un organismo di adattarsi ai fattori ambientali, senza perdere necessariamente i tratti evolutivi acquisiti in precedenza. Il che significa che questi alberi sono si, dei ginepri e tutti gli effetti, ma anche delle creature completamente diverse dai loro simili continentali, il cui legno si è fatto flessibile e i processi di distribuzione della linfa non devono più contrastare la forza di gravità. Qualcosa che sembra, contrariamente alle aspettative, aver migliorato le loro condizioni di salute, visto il rigoglio esibito nonostante una metà abbondante della loro chioma, per inevitabile della loro posizione, finisca per crescere senza mai poter ricevere direttamente la luce del sole. Con un’esibizione di tenacia che sembrava riprendere quella degli antichi abitanti locali, capaci di istituire strutture sociali complesse in un luogo in cui la natura era stata tutto fuorché clemente, consentendo principalmente il solo allevamento degli animali, alla base di un’economia di baratto che venne completamente distrutta dall’arrivo degli spagnoli….

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Il canto indiano che sostituisce il tamburo

Nella storia della musica del genere di origini afro e latinoamericane hip hop, spesso maggiore importanza è concessa al ritmo, alle rime e al messaggio della canzone. Quasi come la composizione in se stessa venisse dopo, rispetto alla sveltezza ed al concetto permeabile della poesia verbale, giungendo a considerazioni commerciali quasi incidentalmente, e nel caso di taluni artisti, dopo parecchi anni di tentativi. Perciò sono molti, tra i più grandi autori del rap, a vantare almeno un’exploit celebre in cui il numero di parole al minuto viene drasticamente aumentato, fino al raggiungimento di una sorta di “iperspazio vocale”. In molti avranno tutt’ora presente, ad esempio, la canzone di Eminem del 2013 “Rap God”, in questa figura di spicco del mondo discografico degli anni 2000, liberandosi di ogni limitazione, tornava alle origini della sua creatività, investendo l’ascoltatore con un treno quasi inafferrabile, eppure assolutamente chiaro, di frasi ironicamente autocelebrative. E se vi dicessi che persino questo, non fu pressoché nulla, rispetto all’antica corrente musicale indiana del Konnakol? Che trasformando il significato con una sorta di stenografia uditiva, i praticanti di questo genere possono raggiungere una rapidità letteralmente sconosciuta ai velocisti aurali di qualsiasi altra corrente musicale?
In principio era il suono: un sibilo continuo, il fischio senza tempo della Creazione. Modulato e variabile, un prodotto alterno delle onde del mare, del canto dei volatili, il verso delle tigri tra gli alberi della foresta di Giddalur. Quindi venne il desiderio di trasformarlo in musica, separandolo e definendolo, grazie all’impiego di appositi strumenti. E infine, l’incomparabile modulo della voce umana. Anche meglio del respiro fatto passare attraverso i flauti o le trombe; più squillante dello strofinìo di centomila archetti;  persino più ridondante del rullo di un gigantesco tamburo. Quello simbolico, da cui l’espressione materiale, popolare nell’India classica così come altrove, di uno strumento concepito per sviluppare il ritmo ancor prima della melodia. Affinché i musicisti di queste terre potessero elaborare, attraverso infinite sperimentazioni, l’espressione forse più sofisticata di una simile arte, l’ordito su cui intessere la trama delle canzoni dedicate al più vasto ventaglio dei sentimenti e l’espressione della realtà. Che è fondamentalmente una misurazione matematica d’interconnessioni tra le note, eppure, ancor prima di questo, il susseguirsi diretto tra il succedersi dei momenti. Prima, dopo e durante: tāl e ragam. Anche nella tecnica di notazione alla base di questa singolare forma d’arte, originaria della parte sud del paese, questi sono i due principi alla base di tutto, vagamente corrispondenti ai nostri “ritmo” e “melodia”. Eppure, entrambi differenti in maniera significativa, come in una sorta di espressione parallela, e per certi versi assai più complessa, della stessa identica idea. Nessuno sa esattamente quando ebbe inizio l’usanza di immortalare su carta le espressioni musicali dell’area carnatica mediante l’impiego di sillabe prelevate direttamente dai mantra e i canti di preghiera della religione induista, ma sappiamo che il tāl (o tala) ebbe origine almeno all’epoca del regno semi-mitico di Yaksha (500 a.C. ca.) quando il succedersi delle note iniziò ad intrecciarsi in una sequenza complessa che permetteva di alterare il modulo, intrecciarlo e superare i limiti stessi della consequenzialità temporale. Per il concetto di ragam (o raga) in senso moderno e contemporaneo occorre invece fare riferimento all’opera di Bharata Muni, studioso del teatro e musicologo che nel III secolo a.C. scrisse il trattato Natya Shastra, nel quale effettuava una sperimentazione empirica, con conseguente analisi, dell’effetto gradevole o meno di determinate condizioni di note. Nasceva così la consapevolezza formale, di primaria importanza in determinate correnti filosofiche indiane, che la semplice espressione musicale potesse influenzare o “colorare” (questo il significato letterale della parola) gli stati d’animo umani. Eppure, il ragam è molto più di questo, rappresentando anche una sequenza o un tema di note, sul quale l’artista è invitato a improvvisare o proporre una sua personale interpretazione, al fine di effettuare una dichiarazione artistica dei propri intenti. Anticipando di qualche millennio, in questa maniera, alcune delle caratteristiche alla base del jazz e dell’hip hop dei nostri tempi.
Ascoltare gli artisti del Konnakol all’opera tuttavia, come questi due eccezionali Vidwan B. R. Somashekar Jois e Kumari V. Shivapriya, oltre a costituire un’esperienza conoscitiva del più remoto passato, è anche un balzo ad occhi chiusi nell’inconoscibile ed incomprensibile dopodomani. Ovvero acquisire la cognizione, lungamente rimasta in condizione ipotetica, che la musica non sia soltanto un linguaggio universale, bensì il superamento stesso del concetto generico di linguaggio…

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