“Per comprendere meglio il nostro punto di vista, immaginate questa stravagante, ridicola torre che domina Parigi come una cupa ciminiera, schiacciando sotto la sua barbarica imponenza Notre Dame, la torre Saint-Jacques, il Louvre, l’Arco di Trionfo… Tutti i nostri monumenti scompariranno. E per vent’anni, vedremo ergersi come una macchia d’inchiostro l’odiosa colonna di metallo rivettato.” Sarebbe risultato ferocemente persuasivo e dialetticamente enfatico il celebre comunicato redatto dal Comitato dei Trecento, il gruppo d’artisti, poeti, architetti uniti contro la costruzione di quello che sarebbe risultato al suo completamento di gran lunga il più alto edificio della Terra. Così come i metri della sua struttura per una cifra che in molti, non essendosi ancora trovati a contatto con la dialettica altrettanto persuasiva di Gustave Eiffel, ritenevano semplicemente folle, irrealizzabile, del tutto spropositata. Ma l’ingegnere che veniva, letteralmente, dal basso essendo il figlio nato in zona rurale di un ex soldato di origini tedesche ed una carbonaia possedeva aspirazioni prossime alle azzurre propaggini dell’Empireo celeste, un luogo dove avrebbe posseduto, un giorno, la sua più celebre residenza. Già perché contrariamente a quanto molti potrebbero tendere ad immaginare, l’accordo tra la città di Parigi e colui che avrebbe costruito il suo simbolo imprevisto in occasione dell’Esposizione Universale del 1889 prevedeva che Eiffel stesso mantenesse non soltanto il diritto creativo, ma l’effettivo possesso del metallico mastodonte per l’intero periodo dei vent’anni successivi, ragion per cui egli non poté resistere alla tentazione di mantenere, non lontano dall’alta e artificiale vetta sopra il Champ-de-Mars e lo stesso ponte d’osservazione dedicato ai visitatori, uno spazio esclusivo riservato al suo esclusivo utilizzo. La “stanza segreta” della torre, come l’avrebbe definita la stampa sempre pronta a enfatizzare stranezze o singolarità. Un appellativo che si sarebbe rivelato calzante almeno per qualche anno, vista la discrezione mostrata dal progettista, forse preoccupato dell’insorgere di un nuovo giro di proteste indignate. I che non si sarebbe in seguito realizzato, possibilmente in funzione dell’intercorsa accettazione da parte del pubblico del nuovo punto di riferimento, pur lasciando il passo ad un sfilza d’incidenze parimenti problematiche: la soverchiante quantità di richieste, scritte dall’alta borghesia e la nobiltà, di affittare quello spazio fiabesco, ove trascorrere anche soltanto poche ora, possibilmente in piacevole compagnia. Possibilità sempre destinate ad infrangersi dinnanzi ad un fermo diniego del suo possessore, che ne avrebbe presto fatto il luogo più esclusivo di tutta Parigi, se non la Francia o persino, perché no, l’Europa intera…
architettura
La strana torre costruita per agevolare il perfezionamento della relatività einsteniana
Qualsiasi torre costituisce, fondamentalmente, un tipo di edificio concepito per collegare la terra al cielo. In nessun caso tale descrizione può essere maggiormente calzante di quello della Einstenturm di Potsdam, costruita fondamentalmente attorno alle necessità logistiche di un apparato, che fu il progetto di uno tra i primi sostenitori del più grande fisico dell’era Contemporanea. La cui conformazione estetica concepita dal promettente architetto espressionista Mendelsohn, idealmente, avrebbe dovuto rappresentare una suggestione in essere degli aspetti mistici o evidenti interconnessi a tutto quello che sarebbe cambiato, da quel momento, per non poter mai più ritornare lo stesso. Fu dunque assai probabilmente demoralizzante, quando nel 1924 in seguito all’inaugurazione ed una visita guidata organizzata appositamente per il wunderkind della scienza tedesca nonché prestanome suo malgrado della torre facente parte dell’Istituto di Ricerca Leibniz, l’allora quarantacinquenne scienziato all’apice della carriera abbia famosamente reagito con freddezza definendola soltanto con un termine: “…Organica”. Forse le particolari e dirompenti scelte operate dal creatore non piacquero eccessivamente Albert Einstein, i cui gusti in campo architettonico parevano essere maggiormente conservativi. Lo stesso Erwin Finlay-Freundlich, committente dell’edificio, dovette in seguito ammettere il fallimento del suo progetto, quando si rese conto di come neanche il telescopio solare contenuto all’interno avrebbe potuto provare l’effetto batocromo di quei raggi, causa interferenze inerenti nella stessa atmosfera del pianeta terra. Il che si rivelò del resto meno importante, nel quadro generale delle cose, di quanto si potrebbe tendere pensare quando nove anni dopo, con l’ascesa al potere di Hitler sia l’architetto che entrambi gli scienziati dovettero affrettarsi a lasciare il paese, causa discendenza ebraica e nel caso di Freundlich, anche una moglie della stessa etnia. Un caso particolarmente drammatico di fuga dei cervelli (altamente motivato) ma che avrebbe lasciato indietro, per ovvie ragioni, il simbolo destinato ad ulteriore incomprensioni di quella collaborazione breve, ma oltremodo significativa nella storia dell’architettura europea. Questo perché Erich Mendelsohn, nei suoi oltre 10 anni di pratica prima di costruire la torre, aveva già elaborato uno stile altamente personale che sarebbe diventato uno dei pilastri fondamentali dell’Espressionismo architettonico, soluzione ibrida tra il razionalismo dominante nella propria epoca che non accantonava le pulsioni romantiche antecedenti, incorporando nella progettazione degli edifici elementi concepiti per rompere la convenzione, ed al tempo stesso emozionare in qualche modo gli osservatori. Così l’Einstenturm, che prima delle carenze di materiali causate dalle conseguenze della prima guerra mondiale avrebbe dovuto utilizzare soltanto l’innovativo materiale del cemento rinforzato, si presenta come un succedersi di forme geometricamente sorprendenti e interconnesse tra loro, come una sorta d’albero magico o quello che in molti hanno tentato di associare all’organo genitale maschile. Colpa, più che altro, della cupola emisferica di zinco sulla sommità, incorporata al fine di ospitare le delicate lenti dell’apparato di osservazione solare…
Le prussiane mura del baluardo formidabile sulla Montagna d’Argento
Dall’apice del potere raggiunto dalle monarchie europee sarebbe derivato il loro stesso e imprescindibile disfacimento. Poiché cosa poteva essere maggiormente desiderabile, per il titolare del diritto divino a governare, che un’intera nazione unificata sotto il riconoscimento identitario di una bandiera, un inno, un emblema? E nel contempo aggiungere, attraverso manovre di tipo diplomatico e militare, il maggior numero d’individui possibili al di sotto della propria egida autoritaria, allargando strategicamente la portata dei propri confini. Una tattica per cui la Prussia era già famosa attorno alla seconda metà del XVIII secolo, principalmente grazie all’operato di un singolo monarca: Federico II di Hohenzollern detto “il Grande”, figura illuminata, promotore di (un certo tipo di) giustizia civile, autore anni prima del trattato Anti-Machiavel, in cui si descriveva il dinasta come un paladino al servizio del popolo, mansione cui occorreva subordinare ogni aspirazione di accumulo di privilegi personali senza un perché. Ma anche il fiero generale che condusse con successo le tre campagne in Silesia, per strappare i territori dell’odierna Polonia al predominio austriaco, in quanto ritenuti parte imprescindibile della cultura ed il diritto esplicito del suo paese. Un sanguinoso percorso destinato a concludersi soltanto nel 1786, con significative perdite da ambo le parti e la sospirata vittoria attribuita ai colori dell’Aquila Nera, ma non prima che il grande artefice politico decise di operare affinché nessuno potesse togliergli ciò che si era tanto faticosamente saputo guadagnare. Il che comportava all’epoca, come nella maggior parte delle situazioni analoghe, il passaggio obbligato della costruzione di opere difensive, per cui sarebbe stato scelto nel caso specifico un sistema relativamente atipico nella sua cruda efficienza: una singola, gigantesca fortezza di montagna, che fosse la più grande e moderna mai costruita in Europa, destinata ad ospitare una guarnigione minima di 4.000 soldati. Un’opera tanto gargantuesca ed impegnativa, da risultare in effetti capace di cambiare l’intera prerogativa e ragion d’essere di una comunità pre-esistente, l’allora piccolo villaggio di Srebrna Góra. Così chiamato, con un termine binomiale significante Montagna d’Argento, per le vicine miniere sul massiccio eponimo, un importante luogo d’approvvigionamento per la zecca statale. Destinato tuttavia ad essere completamente eclissato a partire dal 1764, per l’istituzione dei massicci cantieri completi di segheria, multiple fornaci e strade d’importanza logistica significativa, destinate al trasporto di materiale procurato per lo più localmente da utilizzare per le incombenti, plurime mura costruite a oltre 600 metri d’altitudine dal livello del mare. Capaci di costituire, senz’ombra di dubbio, il più grande progetto civile o militare che la Silesia avesse conosciuto fino a quel particolare momento della propria storia…
La strada per Ait-Ben-Haddou, volto cinematografico del Medioevo nordafricano
Lungo l’antica strada carovaniera tra Marrakech e il deserto del Sahara, sopra una collina prospiciente il fiume Ounila, esiste un luogo fuori dal tempo ed oltre i confini del mondo, dove la storia sembra convergere in un impossibile sovrapporsi di date ed eventi. Qui la tragedia del capotribù Lot e la schiava che aveva sposato, l’amata Ildith, avrebbe raggiunto il culmine con la disubbidienza di quest’ultima nei confronti di un comandamento divino, così da essere trasformata in una statua di sale. Tra queste anguste strade Gesù di Nazareth avrebbe predicato il suo messaggio, fino a subire la sua ultima tentazione. E proprio qui il Gladiatore che noi tutti ben conosciamo, al termine dell’ennesima battaglia avrebbe pronunciato le celeberrime parole “Non vi siete divertiti? (Ancora?) Vi sarebbe passato Alessandro Magno nei suoi viaggi verso il grande Oriente in cerca di riposo dalla lunga marcia tra le sabbie di un ostile deserto. E lo stesso avrebbero fatto anche i crociati, alla ricerca del Regno dei Cieli. Mentre in epoca decisamente più recente, il suo dedalo di strade si sarebbe trovato nel mirino degli avventurieri che inseguivano la mistica Pietra del Nilo. E poco dopo in quello dell’agente speciale con licenza di uccidere 007, durante un pericoloso tentativo di catturare il trafficante d’armi statunitense Brad Whitaker. Mancano soltanto gli alieni di Guerre Stellari, intenti a suonare tamburi e strumenti a fiato nella polverosa taverna di un pianeta bi-solare.
Luogo dei sogni e d’infinite battaglie dunque, di traversie, combattimenti e imprevedibili scoperte. Dove la percezione moderna della storia si dipana in un’infinità d’immagini ed inquadrature, rese manifeste grazie alle salienti telecamere di Hollywood, e non solo. Il suo nome completo: ksar Ait-Ben-Haddou, l’insediamento fortificato proveniente dal bisogno di proteggere le carovane in viaggio tra destinazioni distanti. Destinato a diventare, a secoli di distanza, un importante sostegno addizionale all’economia e il turismo di un’intera regione. Stiamo parlando, per essere chiari, del Marocco meridionale dove ben pochi altri punti di riferimento possono vantare la capacità di mettere in mostra con pari completezza il distintivo aspetto e la completezza mai contaminata della vera architettura storica di quel paese, un suggestivo sistema basato sull’impiego di mura di terra, mattoni di adobo e solide strutture lignee, nascoste dietro pareti dalle pochissime finestre, onde meglio preservare la temperatura degli spazi interni dal feroce sole a meridione del bacino mediterraneo. Eventualità rara proprio perché tale tipologia di materiali, senza una costante e laboriosa opera di manutenzione, persino in questo clima secco vanno incontro al proprio disfacimento anche a seguito di un singolo ciclo stagionale. Per scomparire quasi totalmente, trascorso un paio di decadi da loro sostanziale abbandono. Ed è perciò proprio grazie al suo importante ruolo cinematografico che l’insediamento di Ait-Ben-Haddou sopravvive, integralmente ricostruito con fondi locali coadiuvati dallo stato stesso. Grazie a un’organizzazione puntuale che i suoi stessi originali costruttori, a cavallo dell’anno Mille, difficilmente sarebbero potuti giungere ad immaginare…