L’artista che imbriglia il vento nelle sue sculture

Antony Howe

L’arte di Anthony Howe nasce da una serie di competenze meccaniche straordinariamente personali, che gli permettono d’incanalare il respiro della Terra all’interno di svettanti installazioni metalliche, basate sul principio stesso dell’infinito dinamismo. Nei centri urbani, in prossimità dei luoghi di passaggio e delle piazze, le sue sculture ci ricordano della fluidità del contesto umano, tutt’altro che immanente: un breve attimo nel giardino dei Venti, terreno fertile per la relativa Rosa. Sospeso nel vuoto cosmico, appoggiato su di un sottile strato roccioso posto fra il magma e il gelo più assoluto, il mondo civilizzato potrebbe dirsi il frutto di uno scontro tra forze che tendono a sfuggire dalla nostra comprensione, con estremo impeto e forza generativa. Siamo circondati da mostri invincibili dai nomi antichi, che si scontrano fra loro in una guerra eterna: la fredda tramontana in opposizione all’ostro, levante e ponente che soffiano dai paesi distanti di civiltà agli antipodi, grecale o libeccio, chi vincerà? Sarà meglio, per noi insignificanti ospiti del pianeta, limitarci ad osservare. Mentre i tifoni, gargantueschi, battono le coste del sud-est asiatico e le brezze ostili si congregano nei terribili tornado del Midwest Nordamericano, questo artista ci mostra il lato più mansueto di tali forze, ovvero come l’aria in movimento possa anche creare e modificare strane forme, con gestualità prevedibile, persino ripetitiva. I petali del fiore, senza le sgradite spine. Simili a meduse, planetari e talvolta quasi accidentalmente figurative, con tanto di volto vagamente antropomorfo, le sue creazioni si nutrono di energia eolica creando negli spettatori un senso ipnotico di assennatezza. Alla fine anche la luce, veicolata da pannelli lucidi o specchietti ultra-leggeri, finisce per fare la sua parte.

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L’aereo che atterrava in retromarcia

Convair Pogo

Data: 19 aprile 1954, siamo in piena guerra fredda. Sulla pista militare dell’aeroporto di Brown Field, in California, stava per essere scritto un capitolo poco noto della storia dell’aviazione. Perché fu proprio in quel giorno che il prototipo del Convair XFY Pogo, strano velivolo simile a una freccetta gigante, fece il suo primo spettacolare atterraggio. A marcia indietro. Il tenente colonnello James F. “Skeets” Coleman, tra i più abili piloti della sua epoca, sapeva perfettamente cosa fare. Mesi di avveduti e difficili test di volo, effettuati all’interno di un grosso hangar, con l’assistenza di un cavo di recupero frequentemente utilizzato, l’avevano preparato ad ogni evenienza. Nei documentari dell’epoca si può rivivere la suspense del fatidico momento. Compiuto il breve giro di prova, il colonnello si appresta a rientrare alla base. Riducendo i giri del potente motore, che gli permetteva di raggiungere agevolmente una velocità intorno al Mach 1 (pari a quella del suono) inizia gradualmente a ridurre la quota. All’improvviso, al di sopra della pista, il muso del velivolo si alza verso l’alto, in verticale. Uno stallo, dovuto ad un fatale errore umano? Pare quasi l’inizio di un rischioso loop-de-loop a bassa quota, fermatosi all’esatta metà dal suo completamento. Uno spettatore accidentale, trovatosi in quel posto per una semplice coincidenza, avrebbe creduto nell’imminenza di un disastro. Il Pogo continua a rallentare, salendo a candela. Inevitabilmente, a un certo punto si ferma, come se stesse per precipitare senza più alcuna speranza. E…Resta così, sospeso. È diventato, a conti fatti, un elicottero. Lentamente atterra in un punto esatto, appoggiando infine tutto il suo peso sulle quattro pinne posteriori. Fosse stato prodotto in serie, questo aereo avrebbe rappresentato il primo VTOL con finalità belliche della storia, in grado di utilizzare come portaerei praticamente ogni tipo di nave. Un perfetto precursore del celebre Harrier Jump Jet. Peccato che in tutto il mondo ci fosse una sola persona in grado di pilotarlo.

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Se l’ami davvero, devi dirlo con il bacon

Oscar Mayer

È tutta una questione di priorità. L’anello di fidanzamento, pegno d’amore per eccellenza, presenta molti aspetti positivi: è piccolo, prezioso, indossabile e tradizionale. Ma nei tempi della crisi occorre, talvolta, saper improvvisare. Con questa pubblicità la Oscar Mayer, famosa compagnia alimentare statunitense, sussidiaria della Kraft e specializzata negli affettati di carne, immette sul mercato una nuova serie di confezioni. Potremmo definirle il bacon degli innamorati. The Original Strip (la striscia per eccellenza) viene venduta in una distinta scatola nera di velluto, come un gioiello attentamente lavorato da capaci artigiani dell’arte di affumicare la pancetta. Nella poetica scena di apertura, due giovani in carrozzella si guardano l’un l’altro con passione, quasi incapaci di esprimere a parole i propri sentimenti. Allora lei, con il gesto misurato di chi ha pensato davvero a tutto, tira fuori dalla borsetta il dono miracoloso. Musica trionfale, slogan memorabile: “Say it… with bacon!”. Un successo straordinario. Senza soluzione di continuità, si passa immediatamente alla parte tecnica. Lo scienziato del bacon, tale Phil Roudenbusch, ci elenca gli straordinari pregi del suo capolavoro, la Più Nobile della Carni. I superlativi abbondano, lo stile promozionale sconfina verso quello dei video di aziende come Apple o BMW, risultando la perfetta unione tra eleganza linguistica e una spudorata auto-celebrazione. In qualità di concessione per gli amanti della tecnologia, ci fanno anche vedere come in laboratorio venga testato persino il colore del gustoso prodotto, secondo una precisa scala cromatica graduata. Soltanto il meglio del maiale potrà finire in una di queste sacre scatole. Certo, il diamante è per sempre. Ma il bacon è per pranzo. Scegliere non è poi così difficile.

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Decolla come un fulmine ma pesa 40 tonnellate

JATO

Quando i vichinghi assaltavano le coste della Britannia o della Normandia, tutto l’equipaggio doveva immergersi nella furia della battaglia. Il timoniere sbarcava con gli altri impugnando un pesante scudo e persino il cuoco di bordo affilava le asce e seguiva il suo comandante nel mezzo delle fila nemiche. Giunto il momento della verità, nessuno aveva più un ruolo esclusivo e tutti contribuivano allo scontro. Così è, ancora oggi, per i Blue Angels, la squadriglia acrobatica della marina degli Stati Uniti seguita assiduamente da più di 13 milioni di persone, notevole soprattutto per la maestria dimostrata nell’impiego dei cacciabombardieri F/A-18 Hornet, con cui realizzano coreografici voli in formazione di 6 elementi. E celebri, anche, per il loro variopinto aereo da trasporto, un colossale C-130 Hercules detto Fat Albert, il quale piuttosto che limitarsi a fare da taxi volante per le apparecchiature e gli uomini partecipa anche lui, da protagonista, a ciascuno degli eventi in calendario. Decollando praticamente in verticale, nonostante le sue 35 tonnellate di peso (a vuoto) grazie all’impiego di un’originale serie di razzi ausiliari monouso, i cosiddetti JATO, concepiti per l’impiego in situazioni difficili, con piste troppo corte o carichi eccessivi a bordo. Originariamente, durante la guerra, venivano talvolta montati sugli alianti, per catapultarli subito in cielo senza l’impiego di un velivolo da rimorchio. Nel mondo di oggi tale tecnologia trova uno scopo decisamente più meritevole, quello di far sognare gli spettatori. Superando i limiti della fisica apparente nell’equivalente moderno di una drakkar scandinava, soavemente lanciata tra i mari celesti.

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