Secondo una leggenda delle origini del Cristianesimo nell’Europa settentrionale, un monaco di nome Willibrod raggiunse sul finire del VII secolo una landa remota, oltre la costa della Germania e costituita da un arcipelago di due isole, complessivamente non più grandi di quattro chilometri quadrati. Qui egli ebbe ad incontrare un popolo nativo, selvaggio e retrogrado, che venerava un pozzo ed una misteriosa mandria di bovini. Allorché ispirato da Dio in persona, egli bevette l’acqua del pozzo e si nutrì della carne delle mucche sacre, il sant’uomo ebbe a suscitare il senso critico degli abitanti; poiché se lui poteva commettere dei tali sacrilegi e sopravvivere all’ira degli Dei, invero al mondo doveva esistere un Potere più grande. Incontrastato, di fronte a qualsiasi altro. In un’altra versione della storia, ambientata qualche decennio dopo, Willibrod sbarcò appena in tempo per salvare un ragazzo che doveva essere sacrificato al mare tramite il sollevamento della marea. Convincendolo a convertirsi appena in tempo, il che avrebbe impedito all’acqua di salire abbastanza da riuscire ad annegarlo. Un vero e proprio miracolo dunque, che avrebbe contribuito in seguito a renderlo santo, ma anche a far cambiare il nome di questo piccolo satellite del Vecchio Continente da Fositeland, proveniente da Forseti, Aesir della giustizia norrena, ad Heiligland in Alto Germanico, ovvero Terra Sacra. Destinato poi ad elidersi in Heligoland nel tedesco moderno, ed ancor più brevemente Helgoland per i parlanti di lingua inglese. Idiomi corrispondenti ai due popoli che più di ogni altro avrebbero combattuto, sofferto e discusso diplomaticamente per le rispettive competenze in merito, causa l’importanza strategica che questo particolare luogo, più di molti altri, si sarebbe trovato ad avere.
Dal punto di vista geologico sia l’isola principale, che la sua vicina e più piccola Dune, risultano composte da roccia sedimentaria di colore rosso, appoggiata su uno zoccolo dello stesso sostrato candido, e qui invisibile, che altrove giunse a costituire le bianche scogliere di Dover. Con un profilo rialzato rispetto al livello dell’oceano, tale da garantire la presenza di almeno un alto, residuo faraglione costiero detto Lange Anna, “L’alta Anna” che oggi parrebbe nell’ultima fase della sua esistenza, essendo destinato entro una manciata di generazioni a precipitare nuovamente negli abissi che lo avevano un tempo generato. Lungamente trascurate fino all’inizio dell’epoca moderna, causa l’esistenza di molte alternative vie d’accesso alla foce dell’Elba e gli altri fiumi della costa tedesca, l’arcipelago di Helgoland iniziò ad entrare nel mirino della grandi nazioni nel XIX secolo, quando durante le guerre napoleoniche l’ammiraglio Thomas MacNamara Russell lo conquistò per Giorgio III del Regno Unito, ottenendo conseguentemente un documento redatto dalla Danimarca, del cui territorio le due isole facevano nominalmente parte in base alle divisioni dei distretti marittimi settentrionali. Fu l’inizio, essenzialmente, della fine per la landa dove “Non esistevano banchieri né avvocati, e nessun crimine. Dove le tasse non esistono e i traghettatori non chiedono mai la mancia.”
Il parco tubolare ed altre piazze del divertimento create dal pionieristico architetto cileno
Un luogo dei sogni è il punto di transizione tra il mondo materiale e lo spazio dell’immaginazione, dove la fantasia sembra trovare una corrispondenza pratica ed interattiva, al di là di considerazioni implicite sul funzionamento e lo stato normalmente prevedibile delle circostanze latenti. In tal senso, per chi ha il compito di dare forma ai suoi pensieri, l’artista, lo scrittore, il costruttore architettonico, la labile membrana tra tali spazi contrapposti può essere rapidamente sollevata, prima che tutti gli unicorni, le chimere ed i grifoni possano tornare a disperdersi nella foresta. O addirittura fare un passo innanzi, ritrovandosi a esplorare in carne ed ossa quel particolare mondo. Fatto di… Poligoni sapientemente interconnessi. Forme semplici, traslate nello spazio pubblico di un accogliente piazzale a Guangzhou. O almeno questo è che ciò costituiva in origine, prima dell’intervento di Marcial Jesus con il suo studio situato a Shanghai di 100 Architects, realtà professionale specializzata nella messa in opera di luoghi all’aperto in cui adulti e bambini possano convergere, scoprendo con immediatezza quante cose abbiano (ancora) in comune. Così all’ingresso di una zona nello spazio residenziale, dall’appariscente pavimentazione blu cielo, figurano disegni a pattern ripetuto con quadrati e cerchi di uno schema iconico, in cui a distanze calibrate sorgono degli “alberi” del tutto artificiali. Costruiti, come gli altri arredi circostanti, con l’approccio e il materiale che danno il nome all’opera: Wired Scape. Laddove il wireframe costituiva in campo informatico un’antica tecnica particolarmente utilizzata nei videogiochi in cui schemi variopinti venivano mostrati da più angolazioni mediante il calcolo matematico dei vertici all’interno di uno spazio virtuale, anticipando le funzioni della grafica tridimensionale. Mentre nel presente caso, l’idea è interpretabile in maniera molto più letterale. Di tubi/fili che costituiscono nei fatti arrotolate chiome, cespugli sferoidali, ornamenti per gli scivoli che sembrano presi in prestito direttamente da un acquapark. I colori contrastanti e l’eleganza delle proporzioni riescono, intuitivamente, a fare il resto. E c’è qualcosa di surreale, quasi magico nella presenza di un’area-giochi simile all’interno di uno spazio urbano pesantemente cementificato. L’oasi di ristoro che recupera gli spazi dedicati al sentimento, pur restando l’esclusiva risultanza di gesti e soluzioni artificiali messe in opera esclusivamente dalla mano dell’uomo. Poiché chi, meglio di noi stessi, può comprendere su questo pianeta il concetto presumibilmente universale del “gioco”? L’esercizio della mente in grado di creare i presupposti per la crescita che resta ininterrotta ad ogni predisposta età della vita. Riuscendo a generare, spesse volte, nuovi eclettici distretti della mente…
L’Ilyushin Il-20, dissennata idea sovietica di posizionare il pilota sopra il motore
C’è sempre un momento, nella vita di un progettista aeronautico, in cui la linea ideale della spinta innovatrice e quella garantita dalla conoscenza dei modelli sembrano convergere in un punto estremo, eccezionalmente distante dalle convenzioni coéve. Spesse volte, questo accade in un momento prossimo alla fine della carriera, quando ormai i membri delle successive generazioni sono subentrati nella posizione di preminenza un tempo occupata dai loro maestri. Ma particolari circostanze, situazioni contingenti o necessità percepite possono contribuire ad accelerare il tragitto delle persone. Nel 1948, il rinomato costruttore di aeroplani Sergey Ilyushin era una di queste persone. Ero del Lavoro, detentore di svariate medaglie d’onore nonché due volte vincitore del premio Stalin, in modo particolare per aver creato tra le altre cose l’eccezionalmente utile aereo d’attacco al suolo Il-2 Sturmovik dal grande carico esplosivo e le molte bocche da fuoco, che lo stesso leader sovietico aveva chiamato “Essenziale per gli sforzi dell’Armata Rossa, quanto lo sono il pane, l’aria o l’acqua.” E chiamato sul finire della Grande Guerra Patriottica a creare un’iterazione alternativa della stessa idea: il più leggero ed agile Il-1/Il-2l, una versione più leggera e meno armata di quello che sarebbe stato soprannominato il carro armato volante, idealmente utile ad intercettare le formazioni di bombardieri nemici. Mansione nella quale si rivelò essere, in ultima analisi, meno efficiente dell’allestimento di partenza, e che avrebbe visto in seguito deviare l’attenzione del bureau di Ilyushin verso il progetto Il-10, una versione più veloce, maneggevole nonché resistente di quel grande classico dei giorni del conflitto europeo. Su decreto governativo dell’11 marzo 1947, tuttavia, venne determinato che fosse possibile andare oltre, costruire un qualcosa di persino superiore su questi tre punti che costituivano la filosofia progettuale di una classe di velivoli considerati nulla meno che fondamentali nella dottrina militare del tempo. Il risultato sarebbe stato, sotto l’occhio incredulo di molti, l’Il-20 soprannominato Gorbach (il Gobbo). Ecco un volto, per usare un tipico modo di dire, che soltanto il proprio padre costruttore avrebbe potuto amare, concepito in senso meramente utilitaristico e la piena consapevolezza che non sempre il senso comune potesse custodire l’effettiva soluzione dei problemi pratici latenti. Questioni come quella data per scontata fino a quel momento, secondo cui giammai un pilota posto nella posizione tipica avrebbe potuto avere una visibilità ideale per poter vedere ed identificare i bersagli nemici prima d’iniziare il fatidico momento della picchiata finale…
Nasce, nutre, vive ancora: l’eterna zuppa che occupa una pentola per più generazioni
Poco oltre le porte di Brest, città costiera nella Bretagna di Enrico IV re di Francia, un’accogliente istituzione era solita mostrare l’uscio spalancato fino a tarda sera sotto l’insegna di un pentolone. Nei pressi del tenue lucore, per chiunque fosse incline a prestare orecchio, i suoni conviviali di persone intente a raccontarsi le proprie giornate, il tintinnio dei boccali di birra adagiati con variabile attenzione sul bancone di frassino antico. E l’occasionale viaggiatore, proveniente dal porto o l’entroterra, stanco ed affamato ma egualmente certo di non essere lasciato a digiuno. Giacché La Marmite Perpétuelle, un nome di taverna non troppo raro in quel contesto culturale e cronologico, sapeva bene come fare onore al proprio appellativo, mantenendo un fuoco sempre acceso al pari del tempio delle vestali nell’Antica Roma. E sopra di esso, il piatto indiscutibilmente più utile ed amato per i membri delle classi meno abbienti fin dai tempi di Eridu: la versatile, sempre pronta zuppa costruita con ingredienti variabili, capaci di convergere nella creazione del sapore sublime. Allorché racconta una leggenda, con versioni alternative sia in Europa che l’Estremo Oriente, di come in certi luoghi l’acqua cotta e il proprio contenuto non venissero mai totalmente sostituiti. Salvo rari casi, e andando ad aggiungere giorno per giorno tutto quello che poteva capitare sotto mano al cuoco: verdura, pane, cereali, carne di ogni animale immaginabile e non sempre o necessariamente identificato… Per un tempo che poteva essere misurato in settimane o mesi, piuttosto che giorni e nei casi maggiormente significativi, semplicemente non giungeva ad un coronamento dell’ultima ora. Ma proseguiva oltre iterazioni successive del ciclo delle quattro stagioni, ancora e ancora. Venendo tramandato ai figli e figlie assieme all’atto di proprietà dell’edificio che soleva racchiuderlo tra le quattro calorose, profumate mura.
È questo il tema della zuppa perpetua e tutto ciò che ne deriva, un sistema di cucina iterativo in cui la consumazione di un pasto non corrispondeva più ad uno specifico momento o ora del giorno. Ma soleva prolungarsi in modo esponenziale, con un manierismo non dissimile da chi lavora con il lievito madre, i batteri dell’aceto o altre colonie di microrganismi incaricate di dar seguito al magico processo di fermentazione. Capovolgendo essenzialmente l’obiettivo finale, visto come scientificamente parlando, al di sopra dei 55 gradi nessun abitatore del mondo microscopico possa riuscire a sopravvivere, prevenendo in questo modo alterazioni più o meno pericolose dei singoli componenti della gestalt gastronomica suprema. E quel sapore…