Da lungo tempo è il simbolo della piccola città di Kalyazin, situata nella regione di Tver nella Regione Centrale della Federazione Russa. E viene da pensare che se tutto fosse andato come da programma, il grande monastero della Trinità e chiesa di San Nicola costruito inizialmente nel 1694, non sarebbe stato altro che una parte relativamente anonima del vasto patrimonio storico e culturale di queste popolazioni inclini a rendere del tutto manifesta la propria fede in Dio. Costruendo tramite collette, spesso coadiuvati dalla nobiltà locale, vasti luoghi di culto e dichiarando tramite proclami di “Ricostruirli nelle epoche future, se un qualche tipo di disastro o evento bellico dovesse portare alla caduta di queste mura.” Visione assai difficile da perseguire in questo caso costruito sotto l’egida del margravio Makariy Kalyazinsky, visto come il fiume stesso, presso le cui rive campeggiava, sia stato intenzionalmente fatto tracimare nel 1939, su ordine specifico di Joseph Stalin e con l’obiettivo di formare il bacino con diga idroelettrica di Uglich, a discapito di un vasto tratto di territorio antistante. Lasciando che questa espressione di un’originale intento architettonico celebrativo, assieme a 530 case, la Chiesa di Giovanni Battista, la Chiesa della Natività, la Chiesa del Cimitero della Santa Croce e altre, così come grandi gallerie commerciali, andassero letteralmente sommerse con buona pace di chi credeva che il comunismo e la religione ortodossa potessero collaborare nell’accrescimento della società contemporanea. Se non che qualcosa d’incredibile, si poteva dire addirittura un miracolo, si sarebbe presentato in quell’infausto culmine del gran disastro agli occhi dei fedeli raccolti nelle proprie preghiere notturne. Quando al sorgere del nuovo sole, un’ombra ebbe ragione di trovarsi proiettata sulle acque splendenti di un tale increspato oceano lineare: era quella della torre in stile classicista (che si rifaceva all’epoca antecedente a Pietro il Grande) così costruita nel 1796-1800, al fine di costituire il campanile del monastero. Un elegante edificio dell’altezza di 74,5 metri, grosso modo equivalente ad un palazzo di 22 piani, che adesso campeggiava in assoluta solitudine, alla maniera di una torre magica sopravvissuta all’inondazione del continente atlantideo. Il che in linea di principio non era COSÌ strano, giusto? Dopo tutto lo slargo fluviale in questione aveva una profondità di 5 metri in buona parte della sua estensione, appena sufficiente a ricoprire una metà del primo piano dell’aguzzo punto di riferimento. Se non che il resto del complesso, come negli altri luoghi soggetti a un comparabile destino, era stato preventivamente demolito dai genieri dell’Armata Rossa in qualità di odiato simbolo del potere imperiale, oltre al preciso intento di facilitare la navigazione. E non ci volle poi tanto a lungo, a questo punto, perché le guide turistiche cominciassero a proporre una lunga serie d’ipotesi su cosa, effettivamente, avesse contribuito al salvataggio di un simbolo tanto ingombrante…
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Primo e ultimo comandamento isolano: tu non salirai sulla scala del paradiso hawaiano
A partire dallo scorso aprile, letterali decine di persone allo stesso tempo hanno iniziato a tentare l’impensabile. Non solo ignorare innumerevoli cartelli di divieto come fatto in precedenza, ma lanciare corde con arpioni oltre la cima di alberi maestosi, dietro il recinto di una chiesa in un tranquillo quartiere residenziale. Per poi arrampicarsi, con tutto l’impeto degli esploratori di zone off-limits, fino al residuale inizio di una vecchia e arrugginita struttura lineare di metallo, ormai parzialmente smontata. Nient’altro che l’inizio di un serpeggiante, discontinuo sentiero da 3.922 scalini, molti dei quali già rimossi, fino a qualcosa d’impossibile da sperimentare altrove: una squadrata casamatta sulla sommità della verzura infinita. Ove gli occhi scorgano la superstrada sottostante. Ed al di là di quella, nubi e picchi strabilianti, fino al mare.
Nel sistema folkloristico e religioso dei popoli polinesiani, con particolare riferimento alle comunità riuscirono a perpetrare il proprio insediamento presso l’arcipelago selvaggio delle Hawaii, sussiste una lunga storia di tabù e divieti categorici, strettamente imperniati nel tessuto sociale delle successive generazioni. Tra questi, uno dei più radicati è l’accesso a particolari montagne, residenze ideali della moltitudine di spiriti ed entità divine, in buona parte derivate da quattro esseri supremi, Kū, Kāne, Lono e Kanaloa. Quando nuovi residenti, gli occidentali provenienti dalla terra ferma a partire dal XVIII secolo, si dichiararono esenti dal codice comportamentale del kapu (legislazione tribale) ciò provocò dunque un senso d’incombente disagio e preoccupazione. Poiché dove il sacro è subordinato alla transitoria percezione di quanto possa essere considerato utile, nulla di buono può accadere; vedi il caso verificatosi sopra la catena di rilievi Ko’olau, presso l’isola di Ohau, a partire da qualche mese dopo il dicembre del 1941. Nel momento in cui la guerra contro i giapponesi diventò del tutto inevitabile. E con essa, la necessità di costruire un nuovo tipo d’impianti di comunicazione che potessero raggiungere una flotta oltre la curvatura del globo terrestre. Il che prevedeva in modo pressoché inerente, all’epoca, l’implementazione di un singolo sistema possibile, l’alternatore Alexanderson di onde radio con modulazione di ampiezza (AM) così chiamato dal nome del suo inventore. In altri termini un potente generatore, collegato a lunghissimi cavi destinati a svolgere il ruolo di antenne, idealmente fatti scendere da torri dell’altezza di svariate centinaia di metri. O dirupi di paragonabile entità, qualcosa di decisamente più facile da reperire nel principale arcipelago vulcanico del Pacifico settentrionale. Da qui l’idea di costruire la stazione radio di Haiku, così chiamata dal nome del massiccio roccioso sottostante, affinché le cime risultanti potessero essere ancorate alla valle posta innanzi ad esso, oltre uno strapiombo accessibile soltanto tramite l’impiego di tecniche d’alpinismo avanzate. Gli addetti ai sondaggi del CINCPAC (il Comando del Pacifico) e del BuDocks (Bureau dei porti e cantieri navali) inviati al fine di pianificare l’opera, con operazioni istituite a partire dal maggio del 1942, si affrettarono perciò a facilitare l’accesso alla vetta mediante l’uso di chiodi permanenti e corde assicurate al versante. Che gradualmente vennero sostituite da scale a pioli. Ed in seguito, una vera e propria scalinata di gradini metallici, con tanto di corrimano…
Le oltre 7.000 stanze tra le nubi per la colorata Monte Carlo della Malesia
Si tende normalmente ad assegnare gli stereotipi sulla base dell’esperienza pregressa. Così non percepiamo nulla di anormale nell’affermazione: “L’albergo più grande del mondo si trova a Las Vegas.” Peccato che assegnare un simile primato alle 7.115 stanze del Venetian sarebbe stato si, corretto tra il 2006 e il 2015, come conseguenza di una corsa agli armamenti che ricorda vagamente quella per l’altezza dei grattacieli. Con la singolare differenza che nel caso di strutture ricettive vaste, ma non eccezionalmente elevate, risulta sempre possibile procedere in un secondo momento all’ampliamento strutturale così come fatto nel deserto del Nevada, aggiungendo ali, piani e addirittura interi edifici. Il che ha permesso ad uno storico rivale da quel particolare punto di vista di riemergere e riuscire ad elevarsi, nuovamente, sulla vetta di una delle istituzioni turistiche più eccezionali dell’intero ambiente globale. Nonché le meno conosciute, almeno fuori dal suo particolare contesto nell’Estremo Oriente, di nuovo a causa dei rigidi ruoli indissolubili dalle assodate percezioni del senso comune. Ed in effetti non molti dalle nostre parti, immagino, avranno sentito parlare dell’altopiano di Genting. Ed il suo albergo più importante, il First World Hotel & Plaza nato con l’esplicita intenzione di superare in ampiezza le strutture comparabili al momento della sua originale inaugurazione: quando contava all’apertura nel 2001 “soltanto” 6.118 stanze, prima della ristrutturazione intercorsa 14 anni dopo, che l’avrebbe portato all’attuale record assoluto di 7.351 ospitate dietro le caratteristiche mura del complesso, decorate da una pletora di strisce multicolore. Che potrà mai essere superato? Che nessuno vorrà mai riuscire, effettivamente, a superare? Poiché la domanda lecita a questo particolare punto tende a diventare cosa ci sia, esattamente, ai 1.800 metri del Monte Ulu Kali nella catena Titiwangsa, situato ad appena una cinquantina di chilometri a nord della capitale Kuala Lumpur, per poter riuscire ad attirare tali quantità di persone. Un casinò: risposta che di nuovo, potrebbe sorprendere considerato come ci troviamo in uno dei più importanti paesi a maggioranza musulmana dell’Asia Orientale, per questo soggetto al divieto categorico del gioco d’azzardo ed ogni attività connessa alla commercializzazione delle scommesse. Ovunque, ma non qui… Campeggiano in effetti numerosi cartelli, all’ingresso degli edifici limitrofi e molti dei recessi maggiormente popolari del tentacolare resort montano, ove si riporta il divieto categorico d’ingresso ai devoti della religione islamica. Unica concessione richiesta, al famoso fondatore di questa città eminente, dall’allora Primo Ministro Malese, Tunku Abdul Rahman, nell’idea di creare un sito per questo tipo di attività indiscutibilmente haram che potesse risultare responsabile dal punto di vista della morale pubblica di quel paese. Il che ha fatto dell’altopiano di Genting da molti punti di vista una sorta d’enclave, e di colui che seppe porne le basi l’eroe di molti, anche e soprattutto considerata la sua provenienza da un contesto limitrofo, la Cina. Sto parlando dell’uomo d’affari Lim Goh Tong e la travagliata vicenda della sua complessa vita…
La storia vera della banca che fu costruita coi mattoni consegnati all’ufficio postale
In ogni articolato frangente dell’esperienza umana, riverbera l’imprescindibile commento: il diavolo risiede nei dettagli. O in altri termini, il demonio è colui che andando contro il senso comune, si occupa di localizzare, evidenziare e risolvere i dettagli. Piccoli o grandi problemi, capaci d’inficiare la realizzazione di ottimi propositi o magistrali aspettative. Il succo, dopo tutto, era questo: per William Horace Colthorp, fondatore e futuro direttore della prima filiale della Vernal Bank, nell’omonima cittadina in una valle del remoto Utah, il costo di costruzione del saliente edificio risultava TROPPO elevato. Durante la fatidica estate del 1916, la compagnia fornitrice della Salt Lake Pressed Brick Company aveva fissato una tariffa di consegna dei circa 15.000 mattoni da impiegare per l’esterno del palazzo ad una cifra capace di raddoppiare, persino triplicare la cifra investita nel loro acquisto. Questo perché Vernal, distante dalla ferrovia, richiedeva al fine di raggiungerla un sinuoso tragitto di tornanti tra picchi montani, capace di mettere in difficoltà e usurare la maggior parte degli automezzi utilizzati allo scopo. C’erano a questo punto, soltanto due possibilità: utilizzare dei mattoni meno resistenti e piacevoli allo sguardo, acquistati presso una piccola fabbrica locale; oppure, adattarsi, improvvisare, superare l’ostacolo. Allorché Colthorp, da scaltro uomo d’affari quale doveva necessariamente essere, collegò i puntini di un’utile risvolto logistico del gennaio di tre anni prima. Quando l’USPS (Servizio Postale Statunitense) aveva lanciato, con grande fanfara della stampa e il passaparola del proprio bacino d’utenza, il nuovo servizio, del Parcel Post, offrendo l’opportunità di spedire, pressoché ovunque in uno degli allora 48 stati, pacchi del peso unitario di 5 Kg, aumentati a 20 entro agosto del 1913 e addirittura 30 l’anno successivo, salvo una permissiva qualifica di carichi giudicati “Eccessivamente pesanti o inusuali”. Una mossa compiuta con il fine d’incentivare il commercio a distanza ma che si sarebbe rivelata gesto salvifico nei confronti di tutte quelle comunità, come Vernal, che risultavano condizionate da collocazioni remote o impossibilità ad accedere ai servizi di approvvigionamento convenzionali. Si rivela a tal proposito come la ridente cittadina oggi composta da 10.000 abitanti stesse per l’appunto sperimentando in quegli anni un boom edilizio senza precedenti, facendo affidamento sugli instancabili postini per ricevere direttamente presso i suoi cantieri utili materie prime, quali chiodi, cemento, intonaco e pietre di volta. Ma nessuno aveva mai pensato di agire fino ad allora su una scala paragonabile a quella che si stava profilando nel frangete. E nessuno avrebbe mai potuto farlo in seguito, per la maniera in cui le regole sarebbero state cambiate proprio in funzione di quanto stava per accadere. Colthorp prese infatti accordi con la fabbrica, per incartare ciascun singolo mattone e posizionarli in gruppi di dieci all’interno di pratiche scatole di legno. Per un peso di ciascun contenitore leggermente inferiore ai 30 Kg consentiti, ed un prezzo di consegna calcolato per singolo oggetto pari a 7 centesimi, perfettamente abbordabile considerata l’importanza del progetto finale. Ciò che venne dopo, si sarebbe rivelato salvifico, ma anche condizionato da svariate connotazioni obliquamente definibili come “infernali”…