Un nuovo brivido percorre i freddi spazi tra le case del villaggio di Malakhovo vicino Pskov, nella Russia europea settentrionale. “Sono arrivati, finalmente! Gli Ariyergard stanno per immergersi nella palude!” Come, chi? Quelli “della Retroguardia” un gruppo di appassionati cercatori, ex-militari in congedo, sportivi ed archeologi in erba, forniti di tutte le risorse necessarie, sia in termini di know-how che dal punto di vista più prosaicamente finanziario, per ripescare un tipo assai particolare di ponderoso dinosauro, che caplestava queste stesse lande circa una sessantina di anni fà. La Preistoria: uno stato mentale, ancora più che un’epoca cronologicamente definita. Basta, dopo tutto, un periodo di feroce barbarismo, in cui l’uomo ridiventa la creatura in lotta per il territorio, contro agenti ostili provenienti da quell’altra parte, perché si frapponga un muro divisorio tra quello che era, ciò che sopravvive limpido e indefesso. Ciò dicevano gli anziani dell’oblast, a chiunque transitasse nel remoto Malakhovo. Insieme a un’altra storia, così strana, e al tempo stesso stranamente tipica di questi luoghi. Recitata in modo enfatico dal vecchio Vasiliy, oppure Boris, o ancora quel vulcano di Anatoly: “Le tracce, le ricordo molto bene. Segni di cingoli, vicino al bassopiano paludoso, che avanzavano sicuri verso il tratto più pericoloso. Dove le nostre capre vanno a scomparire, risucchiate via nel buio dell’oblio. Il segno di qualcosa di grosso che…Entrava. Per non uscire mai più. E poi, le bollicine d’aria. Proprio lì, per circa un mese, quando andavo a fare scampagnate da ragazzo; come di un grande recipiente gradualmente intento a riempirsi…” Indubbiamente, molto strano. Per quello che sappiamo dei dinosauri sommersi, fuoriusciti ad esempio dai pozzi di catrame di Rancho Las Breas vicino Los Angeles, della loro forma sopravvive sempre molto poco. Appena qualche osso sbiancato dalle epoche, che difficilmente potrebbe contenere l’aria sufficiente a far le bolle per diverse settimane. Nè del resto, qui stiamo parlando di creature come le altre. Un portavoce storico della Prima Divisione Carristi della Turingia, successivamente alle dure avventure vissute verso la seconda metà del 1941, scriveva in questo modo: “Quei [carri armati russi] erano davvero qualcosa di mai visto prima. La nostra compagnia fece fuoco alla distanza di 700 metri, senza ottenere nessun risultato. In breve tempo, ci ritrovammo a 100 metri, continuando a mandargli contro tutto quello che avevamo. Ma le nostre migliori munizioni non facevano che rimbalzare contro quelle solide armature! Il nemico ci stava oltrepassando senza nessun tipo di problema, puntando dritto contro la fanteria, del tutto inerme ed indifesa.”
Proprio così. In nessun altro momento della storia dell’uomo, dei mostri (meccanici) sono stati tanto prevalenti come quando le fabbriche sovietiche sfornavano a regime uno scafo dopo l’altro di pesanti ed economici T-34 o gli inamovibili titani d’acciaio della serie KV. Tanto che l’esercito della Wehrmacht tedesca, impegnato nella fallimentare operazione Barbarossa, pur essendo pienamente cosciente della propria superiorità strategica ed operativa, trovandosi di fronte a tali cingoli sapeva di doversi ritirare o tentare vie d’approccio alternative: il tipo di armi montate a bordo dei Panzer III e IV semplicemente non sortivano effetti di alcun tipo. Ed è quindi davvero comprensibile, come per i nostalgici (a torto o a ragione) di quella che oggi viene in certi ambienti definiti la Grande Guerra Patriottica, il ritrovamento di una queste creature sia un’occasione entusiasmante, meritevole di grande impegno personale. Per citare il più avventuroso degli archeologi, con frusta e cappello come accessori: “Quel [carro armato] dovrebbe stare in un museo!” E se mai c’è qualcuno che aveva preso in particolare antipatia il nazionalismo tedesco di allora…Oltre ai serpenti, s’intende?!
È una scena piuttosto epica, complice la colonna sonora, e davvero coinvolgente: il sommozzatore degli Ariyergard riemerge dalla fangosa propaggine del Lago dei Ciudi, confermando la testimonianza dei locali. A questo punto, giunge sulla scena il fido trattore dell’organizzazione, un potente bulldozer Komatsu D375A-2, occasionalmente preso in affitto dalla compagnia AS Eesti Polevkivi. Si stendono ed assicurano i cavi, inizia il rombo dei motori. Gradualmente, qualcosa si comincia a intravedere…
ingegneria
La soluzione tecnica del ponte volante
Mentre premi l’acceleratore e pensi: si, sono un veicolo che traccia la sua linea nello spazio definito da un percorso, che conduce da A a B. Un’entità continuativa, nel tempo e nello spazio, connotata dal procedimento umano di far funzionar le cose in un modo che possa definirsi vantaggioso. Perché ciò che si sposta, inerentemente produce (movimento? Sentimento?) Ed è in questa visualizzazione geometrica, l’astrazione a fondamento della stessa civiltà. Perché nella realtà dei fatti, non esistono disposizioni longilinee di un conglomerato di materia. Non importa che siano atomi, metri quadri d’asfalto, oppure singoli granelli di una spiaggia senza fine, tutti gli elementi materiali dello spazio misurabile sono essenzialmente questo: una serie disordinata di punti. Che dovranno singolarmente ospitare gli pneumatici di un’automobile soltanto per una manciata d’istanti, qualche secondo al massimo, prima che questa bruci carburante sufficiente a ritrovarsi altrove. Perché, allora, disseminare i nostri preziosi spazi di strutture permanenti, brutture grigiastre che permangono, anche trascorso quel momento della verità? La ragione è in realtà di tipo puramente pratico: nella maggior parte dei casi, non è possibile fare altrimenti. Ancora non esiste un tipo di strada che può “arrotolarsi” o “sprofondare” dopo l’utilizzo, restituendo la campagna ai suricati ed ai cerbiatti della germanica Schwarzwald. Mentre nel caso specifico del ponte, ecco…
Fucine fiammeggianti spinte a funzionare con la forza delle fiamme e del vapore, torreggianti ciminiere che tracciano pennacchi deleteri; verso la fine dell’800, l’intera Europa stava attraversando un periodo di tremendi cambiamenti. Per la prima volta, da che l’umanità era esistita, l’entità del lavoro svolto non era più direttamente proporzionale al numero di persone coinvolte in un’opera civile (volontariamente o meno) ma una risultanza della quantità di materiali e risorse immese dentro quelle fabbriche del mondo. Bastava, così, che un uomo giungesse a corte con un sogno sufficientemente convincente, perché il progetto ricevesse la firma corretta, e gli ingranaggi cominciassero a girare. Individuo fortunato costui che, in questo nostro ennesimo caso, aveva il nome di Alberto Palacio ed almeno un punto estremamente positivo sul curriculum, l’aver studiato a lungo in qualità di discepolo, alle dipendenze del celebre architetto Alexandre Gustave Eiffel. Che giusto pochi anni prima, in un epico 1889, aveva portato a termine quella torre, costruita con finalità del tutto temporanee, che di lì a poco si sarebbe trasformata in simbolo di tutti i francesi.
Che fare, dunque, da amministratori di una delle regioni più importanti per i commerci marittimi di allora, la Biscaglia della Spagna settentrionale? Ingenti risorse finanziarie + il bisogno di costruire infrastrutture nuove = urge un telegramma al costruttore più in voga, o in alternativa, la figura più simile a disposizione. Ovvero, guarda caso, proprio Palacio. L’oggetto e il contenuto di questa saliente comunicazione, a quanto possiamo facilmente immaginare, evidenziava la necessaria messa in opera di un nuovo ponte sul fiume Nervión, che attraversando la città di Bilbao finiva per agire più a valle come anti-economica divisione tra le due comunità contrapposte di Portugalete e Las Arenas. Ma un simile tributario dell’Oceano Atlantico, fondamentale via di transito per i natanti, non poteva certo essere bloccata con una struttura statica, a meno che fosse in qualche modo in grado di lasciar passare le navi. E si era ancora ben lontani dal disporre degli approcci, oggi dati per scontati, dei ponti mobili a sollevamento azionati da varie tipologie di argano. Così il sapiente ingenere, aiutato da un collega francese di nome Joseph Arnodin, decise per l’occasione di rendere finalmente reale il progetto che aveva aleggiato, da un periodo di circa vent’anni, tra i diversi municipi europei soggetti a simili necessità. Oggi si ritiene che il primo a concepirlo fosse stato l’inglese Charles Smith, che l’aveva proposto per le città di Hartlepool, Middlesbrough e Glasgow, ottenendo sempre una risposta negativa. Tutto è più difficile, quando non si dispone di una fama conclamata. Si trattava di quello che oggi viene definito un ponte trasportatore, o in alternativa, del cosiddetto traghetto volante. Che poi sono due modi per dire che c’era una gondola, ovvero un letterale tratto di strada sradicata da terra, sospeso con dei cavi di metallo (o pali di sostegno) e fatto transitare, grazie all’uso di un motore, da un lato all’altro di un binario posto in alto. Con sopra tutto il carico di gente, veicoli e/o animali eletti al ruolo di attraversatori. Certo, a noi moderni, vedendo una simile complessa soluzione, potrebbe venire da esclamare: “Bello, ma quanto potrà mai essere efficiente, da un punto di vista economico?!” Molto più di quanto si potrebbe credere, questa è la risposta.
La ciambella che potrebbe rivoluzionare la fusione nucleare
Ci sono ben poche macchine a questo mondo, intese come sistemi complessi mirati alla risoluzione di un problema, che possano definirsi senza il timore di smentite, straordinariamente, radicalmente impressive: conglomerati ineccepibili d’ingegno e precisione tecnica, una visione omnicomprensiva dei dettagli e del tutto. Tra queste, figura certamente l’ultima realizzazione del concetto di uno stellarator, inventato negli anni ’50 dal fisico americano Lyman Spitzer, più volte assemblato con variabile successo, dapprima all’Università di Princeton dallo stesso professore, poi presso quella di Wisconsin-Madison a dimensioni maggiorate, infine in un laboratorio della prefettura di Gifu, in Giappone, dove come dal nome dell’oggetto, gli scienziati si prefiguravano di replicare almeno in parte “I processi che si verificano dentro al nucleo di una stella!” Ma mai con la ponderosa e presumibile potenza del Wendelstein 7-X, il coronamento di oltre 10 anni di ricerche (con qualche contrattempo) da parte dell’istituto Max Planck per la Fisica del Plasma di Greifswald, in Germania, il quale, se tutto continuerà a svolgersi secondo i piani, procederà alla prima accensione entro la fine della presente settimana. E il mondo, della scienza o meno, dovrebbe trattenere il fiato. Perché? Ve lo dico subito: se l’esperimento riesce, come senz’altro ritenuto probabile da un’ampia fascia delle personalità coinvolte, questo mostro metallico costituirebbe, nei fatti, il primo reattore a fusione nucleare in grado di produrre un’energia maggiore di quella necessaria a farlo funzionare. In quale quantità, non ci è dato di saperlo. Ma basterebbe anche un surplus di entità trascurabile, magari sufficiente per accendere una lampadina o duecento, a cambiare radicalmente il corso futuro dell’ingegneria applicata a questo punto fermo possibile del nostro immediato futuro. Perché tale corrente elettrica, nei fatti, proverrebbe da una fonte totalmente pulita, eternamente rinnovabile, inesauribile e quasi totalmente priva di controindicazioni.
Una commistione di elementi che mai avevamo ritenuto possibile, questa, almeno finché non fu scoperto ancora in precedenza (si parla degli anni ’30, con ricerche finalizzate alla creazione della bomba termonucleare) che non soltanto la fissione distruttiva dell’atomo, con il suo pericoloso bagaglio di emissioni e scorie radioattive, ma anche la sua giunzione forzata in strutture conglomerate e complesse di nuclei multipli e neuroni, risultava nei fatti inefficiente, ovvero soggetta al rilascio di una certa quantità di potenziale di calore, più che adeguato alla generazione dell’elettricità. A questo punto il problema era “soltanto” capire come indurre un tale processo in maniera continuativa ed efficiente, ovvero che potesse essere sostenuta senza soluzione di continuità. E sono stati molti, i tentativi sia teorici che pratici fatti nel campo in questione, incluso quello dell’ipotetica fusione fredda, la sostanziale utopia ipotizzata inizialmente da Friedrich Adolf Paneth e K. Peters, che consentirebbe il verificarsi del fenomeno attraverso una catalisi spontanea dei muoni nucleari. Ma nella realtà dei fatti, soltanto un approccio diametralmente opposto ha funzionato: l’impiego brutale di sistemi di riscaldamento di potenza inusitata su una miscela di gas, in grado di superare i 100 MILIONI di gradi grazie all’impiego delle microonde, campi elettromagnetici di risonanza o l’introduzione di particelle ad alto potenziale d’energia. Ciò perché in simili condizioni, in cui manca la forza gravitazionale di una stella ma sussiste un calore di diverse volte superiore, le particelle di materia si trasformano in una sostanza dalle particolari caratteristiche, definita plasma in quanto, come avviene con gli additivi contenuti nel sangue umano, vi persiste una commistione indistinta di elettroni, ioni ed innumerevoli altre componenti largamente ignote. Tale brodo è tuttavia talmente sottile ed intangibile che, nei fatti, non esistono pareti in grado di contenerlo. In parole povere, metterlo dentro a un recipiente di cemento armato, dello spessore di molti metri, sotto terra, oppure in una fantascientifica gabbia di titanio energizzato, avrebbe lo stesso effetto che lasciarlo libero nell’aria di un campo fiorito. L’unica speranza di trovargli un impiego strutturato passa, dunque, tramite la forza dei magneti.
La grande macchina per fare il ponte
Costruire un ponte è un problema tecnico dei più complessi, che in determinati ambiti costituisce, addirittura, l’antonomasia del gesto ingegneristico applicato ai trasporti. Ma l’idea classica, dell’ingegnere che disegna e calcola i valori determinando accuratamente il metodo più adatto a costruire una strada a molti metri dalla terra, il fiume o il mare, non è che il primo passo di un processo che trova l’espressione materiale nell’effettiva messa in posizione dei singoli componenti, verticali e orizzontali, obliqui o trasversali. Gente allenata a dare sfogo a un essenziale senso pratico, quella che costruisce cose simili, attraverso un susseguirsi di passaggi non complementari. In grado, soprattutto, di applicare gli strumenti: cazzuola, martello, sega da taglio…Gru, ruspa, bulldozer…Macchina di lancio della campata completa dal peso a vuto di 580 tonnellate, lunga 91 metri…Ecco, forse questa non è un qualcosa che si vede esattamente tutti i giorni, almeno a giudicare dal successo ottenuto negli ultimi giorni dal video di un canale virale intitolato SLJ900/32, Bridge Erecting Mega Machine; in esso, l’equivalente tecnologico di un grande verme giallo canarino avanza sui piloni di un viadotto ancora inesistente. Senza preoccuparsi eccessivamente della forza di gravità, raggiunto il ciglio della parte già assemblata, il mezzo puntella degli appositi sostegni sul pilone, poi si protende nel vuoto, verso quello successivo. Lentamente, attentamente, la sua parte anteriore si ritrova sospesa, con dozzine di ruote simili alle zampe di libellula, vestigia di una vita precedente. Raggiunta la sua meta successiva, vi aggrappa saldamente, diventando, sostanzialmente, essa stessa un ponte. Che in poco tempo viene messo a frutto: pare assurdo eppure, dalla notevole distanza a cui ci troviamo, è possibile osservare alcune piccole figure umane che discendono come formiche dal gigante, per assicurarsi che l’appoggio sia perfettamente saldo ed efficace. A quel punto, lanciano il segnale e quella marcia assurda ricomincia. La ragione appare presto chiara, visto come nella parte posteriore del veicolo, sostenuto da una coppia di potenti gru integrate, alberga una possente trave d’acciaio lunga circa 60 metri, destinata a costituire la parte migliore dell’intera opera, ovvero il fondo della strada o della ferrovia, a seconda dell’impiego successivo. Il componente strutturale viene collocato in corrispondenza di quel vuoto da colmare, poi calato in posizione. A questo punto, l’SLJ900/32 si trova con la sua parte anteriore che poggia sul terzo pilone, ancora privo di una trave di collegamento; nessun problema. Senza esitazioni, il mostro inizia a ritirarsi a marcia indietro, finché le ruote non poggiano di nuovo sul viadotto. Percorrendo a ritroso quanto precedentemente costruito, quindi, esso torna all’indirizzo della tana, anzi ancora meglio, presso il luogo dove sono custoditi gli altri pezzi da portare in posizione. In questo caso come in altri mille, non c’è riposo, per la mega macchina che assembla i ponti.
L’effettiva collocazione giornalistica dell’evento, nonostante la sua chiara importanza tecnologica, risulta piuttosto complessa. Siamo in Cina, del resto, dove la barriera linguistica è soltanto il primo di una lunga serie di ostacoli all’approfondimento internettiano. La descrizione al video parla di una sezione sospesa che andrebbe da Chongqing a Wanzhou, presso la parte settentrionale dello Yangtze, dove sono collocati i celebri Sānxiá (tre dirupi) con la relativa diga elettrica, altro capolavoro dell’ingegneria. Ma mentre di questo specifico evento non sussiste alcuna traccia online, una notizia trovata su Google parla di un’opera analoga, condotta grazie all’impiego dello stesso dispositivo, per un viadotto ferroviario tra Jilin e Hunchun, nella Manciuria meridionale. Particolarmente riconoscibili, nelle due foto collocate in fondo all’articolo, sono gli ideogrammi collocati sulla parte frontale del veicolo, che dovrebbero dichiarare al mondo, approssimativamente: “11° dipartimento di fabbricazione piloni e traverse” dimostrando, quanto meno, la corrispondente identità dell’organizzazione civile incaricata della costruzione. Simili macchine, ad ogni modo, non sembrano rare in Estremo Oriente, ambito da cui provengono la maggior parte delle documentazioni video e i brevi articoli a disposizione.