Scacchista di strada si trova sfidato da un grande campione

Chessmaster

Non sono esattamente veri e propri truffatori. Né sarebbe giusto definirli tutti quanti egualmente disonesti, benché l’imbroglio occasionale, dopo tutto, faccia parte di quel repertorio che caratterizza il loro stile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che le schiere dei caratteristici giocatori di scacchi dei parchi newyorkesi, nonché di altre metropoli statunitensi, non stiano seduti lì esattamente per cambiare aria. Bensì, col chiaro e non sempre dichiarato intento di vincere ad ogni costo, dando prova della propria abilità e poi sopratutto guadagnando, un passante dopo l’altro (se si tratta di turisti, ancora meglio) quei 5-10 dollari di media che scommettono a partita, arrivando alla fine della giornata con un gruzzolo tutt’altro che insignificante. Questo perché sono…Forti, per lo meno, nello specifico contesto operativo, e parlano bene la lingua della strada, con il suo ricco repertorio di insulti, distrazioni, non sequitur mirati a sbilanciare l’avversario. E puntano sui grandi numeri. La singola sconfitta occasionale, per loro, non è poi tanto importante. A meno che non sia talmente spettacolare, per impostazione, e totalizzante, per il modo in cui si manifesta, da cambiare totalmente il tono di una prevedibile giornata. O come in questo caso, tarda sera.
La scena si svolge a Washington Square Park, un parco da 9,74 acri sito a Manhattan, famoso per l’arco di trionfo neoclassico che costituisce il suo ingresso, dedicato alle vittorie dell’omonimo generale della guerra di indipendenza americana, ed alcune statue su piedistallo, tra cui quella dedicata a Garibaldi. Il primo dei protagonisti, per inferenza, l’abbiamo già descritto: è un istrionico hustler, come li chiamano da queste parti, ovvero letteralmente, un “traffichino/trafficone” (sia chiaro che sono le vere definizioni del dizionario) termini comunemente condivisi anche con chi fa il gioco delle tre carte, oppure scommette il proprio denaro sulla prototipica partita di biliardo, freccette o similari… Tutte attività verso le quali ormai persino noi, dall’altro lato dell’Atlantico, guardiamo con un certo grado di sospetto, principalmente in funzione delle innumerevoli scene didascaliche inserite all’interno di serie tv e film, in cui il tizio-di-turno finge di perdere, poi schianta l’avversario. Ma gli scacchi, sono tutta un’altra storia, giusto? Per poter praticare con efficacia un tale nobile gioco, vuole lo stereotipo, occorre essere persone di una certa cultura. E soprattutto, rispettarne le caratteristiche ed il senso ultimo: giammai, un praticante dell’antica arte, oserebbe spostare i pezzi del proprio avversario… A meno di trovarsi, dal suo punto di vista, totalmente privo di alternative. Un’esperienza che proprio costui aveva la sensazione di stare per sperimentare, nel momento stesso in cui l’uomo calvo in giacca di pelle, con al seguito un intero entourage e anche un paio di telecamere, si è seduto lì al suo tavolo, e con piglio sicuro ha iniziato a fargli un paio di domande di circostanza. Nonostante questo, trovandosi sfidato: “Spingi!” Fece all’indirizzo del pulsante sul suo timer: “Spingi e poi parliamo.”
Perché naturalmente, il tipo di scacchi che si gioca nei parchi pubblici non è quello delle gran partite di torneo, oppure degli incontri tra vecchi amici o parenti, ma della tipologia comunemente detta “blitz” o “speed chess” in cui ciascuno dei due giocatori dispone esattamente di 5 minuti per portare a termine l’interezza delle proprie mosse; in cui esaurire il tempo è una condizione di sconfitta, al pari del classico e definitivo scacco matto. Le capacità che diventano fondamentali per prevalere, a questo punto, diventano la rapidità nel prendere decisioni, la concentrazione e il sangue freddo in ogni circostanza. Inclusa quella, generalmente molto desiderabile per lo hustler, del formarsi spontaneo di un capannello di persone che passavano di lì, sempre fin troppo pronte a commentare o fare strani versi, insinuando il dubbio che conduce all’incertezza. Non che questo potesse succedere nel corso della partita specifica, nel corso della quale l’individuo inizia subito a lamentarsi: “Ma non guardi neanche la scacchiera?! Gente, questo qui non guarda neanche la scacchiera!” Ovvio, ah ah. Tu ancora non sai che Maurice Ashley, il primo gran maestro afroamericano della storia, scegliendo spontaneamente di lasciarti il vantaggio del bianco, non stava facendo un gesto meramente simbolico. Ma ben presto, lo capirai…Le prime battute della partita sono insolite: lo scacchista del parco sceglie un’apertura relativamente poco comune, quella polacca o di Sokolsky, che consiste nel muovere di due il pedone della linea B, mirando a controllare un solo lato del campo di battaglia. Una tecnica ormai raramente usata nel gioco professionistico, che tuttavia può risultare utile nello stupire un avversario impreparato o incerto, del tipo che comunemente si trova ad affrontare costui, a seguito dei lazzi e richiami lanciati all’indirizzo dei passanti. Di contro, Ashley posiziona subito entrambi i cavalli verso il centro, lanciando una sfida molto difficile da ignorare. Nelle mosse immediatamente successive, la situazione inizia a scaldarsi, mentre avviene la prima chiara irregolarità.

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Quanto è difficile rimuovere le vespe sotterranee

Vespula Germanica

Svegliarsi all’improvviso verso l’alba di un ronzio insistente. Proprio lì agli antipodi, in Nuova Zelanda. Una terra di creature che potrebbero ben dirsi, dai nostri remoti antipodi, diverse. Grandi quando dovrebbero essere piccole, più forti e più veloci. Velenose, qualche volta. Eppure cos’è, persino il pericolo individuale, rispetto alla capacità di primeggiare a lungo termine, in funzione dell’efficienza ecologica di un’intera specie! E non c’è altra insettile colonia, in tutto il mondo degli artropodi, che possa dirsi maggiormente adattabile e potenzialmente deleteria, di una che non vedi neanche, perché si trova incastonata tra le vecchie radici di un arbusto. Che non puoi fumigare. Né bruciare. Dunque, chi chiamerai? Nessuno ricorda, esattamente, quando e come queste Vespula germanica, chiamate dagli americani yellowjacket, mentre da noi semplicemente “vespe” si siano propagate allegramente al Nuovo ed al Nuovissimo tra i continenti, probabilmente per l’attimo di distrazione di un trasportatore di frutta e verdura. Dal punto di vista biologico, del resto, simili creature paiono davvero “fatte apposta”. Quando in autunno, mentre l’ormai vecchia generazione di regine si è inoltrata nella senescenza, le ali deboli, la forza che viene a mancare, ma le uova deposte diventano sempre più rare. Nessun altra operaia potrà nascere, bensì sorelle ben più grandi, a loro volta latrici di un prezioso patrimonio di DNA. Nuove sovrane in-fieri. Che saranno doverosamente fecondate dai maschi della colonia, poco prima di volare via lontane. Ad ibernarsi, in un lungo letargo, fino al distante ritorno della primavera.
Purché si renda veramente necessario, un simile passaggio. Giacché nel continente d’Oceania, presso la zona maggiormente temperata dei grandi oceani del Sud, l’alternarsi del ciclo stagionale porta ad escursioni termiche e climatiche davvero trascurabili. Con il risultato che i nidi di questa particolare specie, che qui neppure dovrebbe esistere, crescono e diventano davvero giganteschi, diventando essenzialmente, perenni. Come le conifere, che non si spogliano mai delle preziose foglie, ma ornano i giardini per dodici mesi l’anno. E tutti apprezzano la duratura bellezza della natura. Un diamante è per… Pensate, che meraviglia: una collana di vespe, un bracciale dalla colorazione gialla e nera con le zampe, o antenne come spille o piccoli orecchini, da indossare sul princìpio di serate memorabili, straordinarie! Giammai. Giacché, si dice molto spesso: “Non c’è creatura più detestabile della vespa. Almeno l’ape, prima di pungerti, ha impollinato i fiori e fatto il miele. Mentre la sua cugina molto, molto più aggressiva, a cosa potrebbe mai SERVIRE?!” Beh, diverse cose. Innanzi tutto, a farti un’insistente compagnia. Non che ci sia stima reciproca, purtroppo, tra le vespe e gli uomini, principalmente perché le prime hanno un comportamento di raccoglitrici d’occasione, come gli orsi essenzialmente, che le porta a spingersi presso le nostre tavolate, i delicati frutteti, talvolta fin dentro amichevoli alveari. Per rubare il nettare dolcissimo e far scempio, senza alcun ritegno, delle sue pelose produttrici. Ma almeno questo, sarebbe certamente difficile negarlo: si tratta di animali estremamente interessanti.
Da studiare ed ammirare, come sembra intento a fare il coraggioso Bob Brown, protagonista del presente video, che troviamo intento nel compito niente affatto accessibile di rimuovere un grosso nido di queste creature, costruito proprio sotto il suolo di quello che potrebbe essere un giardino. Senza l’uso di veleni o pesticidi (i cani del vicinato ringraziano) senza fumo né la pompa dell’acqua (…) ma soltanto grazie all’uso di una paletta, un rastrello ed una tuta. La quale, è importante notarlo, non può dirsi realmente “a prova di vespe” (nulla lo è, a quei livelli d’aggressione) ma soltanto parzialmente “anti”. Al punto che, ci viene spiegato nella descrizione del video, dopo il primo paio di minuti appena già iniziavano a moltiplicarsi le punture subìte…

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Dice Confucio: diffidate di strane teiere

Assassin's teapot

Ah, Tim! Anche stavolta ti è capitato tra le mani un qualcosa di veramente…Insolito… Il protagonista di questo video, per chi non dovesse ancora conoscerlo, è il distinto signore inglese diventato famoso grazie al suo canale YouTube di curiosità Grand Illusions, incentrato su giocattoli, scherzi e bizzarrie oggettistiche ricevute da ogni parte del mondo. Celebre anche, tra l’altro, per il suo stile d’esposizione vagamente stralunato e presumibilmente ingenuo, forse pensato per indurre nello spettatore l’approccio situazionale del fanciullo curioso. Un metodo occasionalmente problematico, come nel caso in cui gli capitò di mostrare in video una finta pistola a batterie di provenienza incerta, il cui moto ondulatorio, gli fece notare il mondo, tendeva ad identificare come un ausilio erotico per signore. Mentre stavolta, almeno in linea di principio, il titolo della sequenza parrebbe avere un tono sensazionalistico e potenzialmente truculento. Ecco a voi, ci invoglia a cliccare! La TEIERA DELL’ASSASSINO. Forse tra tutte le stoviglie di porcellana comunemente impiegate per servire la bevanda simbolo di almeno tre paesi, che si siano viste in contesti contemporanei, la più bizzarra ed inquietante mai vista. Tinto di un color verde che “dovrebbe ricordare la giada” (ehm…) il recipiente si presenta con una forma decisamente bitorzoluta, dovuta all’effige di ciò che vorrebbe rappresentare: un uomo anziano inginocchiato con la testa enorme, un bastone a forma di drago (ma potrebbe anche essere un pipistrello) e un enorme globo dalla forma appuntita, che soltanto una latente preparazione sull’iconografia cinese potrà bastare ad identificare come una pesca di un tipo estremamente specifico; la pesca dell’immortalità. Mentre la figura, per inferenza, non potrà essere altro che Shou Xing, il vecchio Immortale della Stella del Sud, venerato dai giapponesi come una delle Sette Divinità della Fortuna.
L’utilizzo dell’implemento è piuttosto significativo. Perché questa teiera, Tim ci spiega con pacato entusiasmo, ha una funzione straordinariamente utile, persino geniale! Verso la metà del pomeriggio, quando sopraggiunge l’ora della pregiata bevanda coi biscotti, essa potrà infatti essere riempita non con uno, ma ben due fluidi diversi. Il primo ambrato, della varietà teistica preferita dal britannico di turno, e il secondo bianco e bovino, l’imprescindibile, fondamentale latte di allungamento (di nuovo, ehm…) Permettendo la fuoriuscita a comando, dell’uno o dell’altro, soltanto grazie al metodo scelto per impugnarne la sua maniglia. E tutto questo, non grazie a sistemi moderni quali improbabili paratìe richiudibili, bensì tramite una semplice applicazione dei princìpi della fisica e due (2) buchi. Da coprire in alternanza, a seconda del desiderio, con le dita della mano, permettendo o meno l’ingresso dell’aria all’interno dei rispettivi scompartimenti della teiera. Creando artificialmente un vuoto più che sufficiente, ce lo dimostra l’evidenza, a contrastare l’influsso gravitazionale che in altre condizioni avrebbe dovuto portare entrambe le bevande a fuoriuscire allo stesso tempo. Davvero un’oggetto… Clever, come lo chiama lui (perspicace, ingegnoso) proveniente da un luogo di cleverness comprovata, ovvero la Cina distante. Ma è ovvio, almeno stavolta c’è il titolo a farcelo notare, che non tutti gli impieghi possibili per un tale recipiente fossero pienamente leciti. Trovando ad esempio l’ideale collocazione tra il repertorio di uno scaltro sicario, che l’avrebbe probabilmente impiegato per servire al proprio bersaglio un generosa dose di tè avvelenato, salvando se stesso grazie all’impiego del buco corretto. Purtroppo la verità, come spesso capita in questo tipo di video, manca di essere approfondita. Ma c’è un singolo commento quasi casuale, inserito all’interno della discussione del forum Reddit sullo strano oggetto, che potrebbe offrirci una valida chiave d’interpretazione.

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Se un cubo di fuoco non brucia le mani

Space Cube

È la classica curiosità del turismo di tipologia scientifica, quello che porta i visitatori del Kennedy Space Center presso Cape Canaveral, a vagheggiare per le sale fino all’oscura fornace ove mettere alla prova alcune forme di un materiale assai particolare. Le quali non vengono mai “cotte” in senso letterale, per il semplice fatto che risultano del tutto immuni al calore. Nel senso che anche una volta riscaldate a temperature impressionanti, tali da farle virare verso un rosso pericolosamente incandescente, non saranno comunque in grado d’ustionare neppure una tremante mano umana. Non ci credete? Sollevatele adesso, sotto l’occhio della telecamera del vostro collega. Magari, prendendole dagli angoli. Preferiremmo non dover ricorrere a pomate.
Un aereo può fare molte cose: decollare, atterrare, parcheggiare in un hangar cadendo in disuso per poi essere, senza rimpianto, abbandonato: “Troppo poco sicuro!” Dicevano. Non che avessero poi tutti i torti. Ma nonostante questo, resta vera la presente cosa: è esistito solamente un dispositivo con le ali, nell’intera storia del volo, che sia stato in grado di superare di 25 volte la velocità del suono, dal momento fatidico del suo ritorno dall’orbita terrestre fino all’atterraggio qui a Merritt Island nella contea di Brevard, in Florida, USA. Con una modalità di planata che potrebbe dirsi esattamente identica a quella di un aliante. Se soltanto gli alianti fossero in grado di sopportare temperature superiori ai 1600 gradi centigradi per un tempo di circa una quindicina di minuti, la metà esatta di quelli necessari a portare a termine la delicata operazione. Che il rientro nell’atmosfera comporti un brusco innalzamento della temperatura da parte dell’oggetto designato, questo è largamente noto. Mentre forse non tutti comprendono l’effettiva portata dell’onda d’urto continua e incandescente, che lo Space Shuttle generava dinnanzi a se in funzione della sua prua con forma a parabola, a causa della massiccia quantità d’aria spostata con il suo rientro dallo spazio. Talmente devastante e impenetrabile, in effetti, da distruggere spontaneamente qualunque ostacolo o detrito, riducendo al minimo il rischio d’urto con uccelli, meteoriti o cose. E proprio in funzione di un tale rilascio d’energia, generando una corrispondente quantità di calore grosso modo pari alle cifra su citate, che avrebbe dovuto fondere l’alluminio della carlinga nel giro di pochi secondi (il cedimento strutturale, come da manuale, avviene attorno ai 300 gradi). A meno di riuscire a elaborare, per l’intero marchingegno, una soluzione di dissipazione che potrebbe facilmente descriversi, allo stato attuale delle cose, come la più efficiente mai concepita.
Efficiente, non efficace. Questo perché fondamentalmente, la problematica di fondo restava sempre quella: uno Shuttle necessitava di librarsi. E non poté dunque affidarsi, per proteggere se stesso dalle fiamme dell’inferno in cielo, alla soluzione ingegneristica ideale dei dissipatori ad alta densità, scudi in grado di assorbire l’energia proprio in funzione della loro massa (e peso) assai considerevoli. Lasciando il passo ad un approccio che tutt’ora, per la sua convoluzione e il funzionamento contro-intuitivo, viene citato come uno dei momenti più inaspettatamente complessi nella storia del volo spaziale. Tale da valere all’aereo in questione il bonario soprannome di “brickyard” volante, un termine inglese che si riferisce alle fornaci in generale, ma che nel presente contesto, potremmo tradurre nel modo più letterale di “fabbrica di mattoni”.

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