Avete mai visto un pappagallo veramente arrabbiato?

Pebble Cockatoo

Un uomo in abito da ausiliario del traffico, uno sgabello. Un trespolo, un cacatua. Cosa li univa in quel momento carico di aspettativa…Di certo NON la gabbia, che lui tiene in mano, che NON potrebbe mai essere stata quella del candido Pebble, uccello proveniente dal Saskatchewan della foresta boreale (ambiente non propriamente tipico dei pappagalli) Perché quella gabbia tonda NON va bene, spiega Kelly dell’istituto Saskatoon Parrot Rescue, finalizzato al recupero di tutti gli animali volatili che abbiano subito un trauma, fisico, mentale o d’altro tipo. Va “risistemata”. Possibilmente, facendo uso di una valida supervisione. Due stivali e il giusto grado d’irruenza!
Gli uccelli sono intelligenti, molto intelligenti. Nonché diversi da noi. Ma da un certo punto di vista, se le circostanze si profilano in maniera idonea, riescono a diventare estremamente simili ai loro padroni. Un cervello dopo tutto, che sia piumato oppure capelluto, non è altro che un ricettacolo ricolmo di una certa quantità di nozioni, ricordi e sentimenti. Ed è quando quest’ultima categoria ideale, crescendo a dismisura, surclassa le altre due, generando un comportamento definibile in molti modi, tutti buoni tranne che “insincero”,  allora si, che inizia e monta la marea. Gettate un bicchiere d’acqua in una vasca piena fino all’orlo, poi versate con il contagocce due millilitri dentro a un secondo recipiente. Secondo la legge universale dei fluidi in movimento, nasceranno anelli concentrici ed equivalenti, soltanto, più piccoli nel secondo caso. Le proporzioni cambiano la portata, lasciando uguale il meccanismo. È per questo che nella botte piccola c’è il vino buono, mentre nei Caraibi, la nave dei pirati. Che ben conoscevano il vantaggio di un gran becco, la lunga coda, gli artigli bene stretti sulla spalla. E non è certo un caso, forse ci avrete già pensato, se essi portavano in battaglia un valido compagno non umano, generalmente appartenente all’ordine degli Psittaciformi, che al pari della sciabola, la barba e la pistola, fu vera e tipica prerogativa di categoria. Anche grazie alla pressante cinematografia, fin troppo pronta a farne degli eroi. Ma perché, proprio loro? Tagliagole, affogatori, una masnada di ribaldi, eletti a simbolo di un’era come quella dei velieri, che di certo aveva avuto ben più validi rappresentanti negli esploratori, nei mercanti e gli uomini politici del mondo coloniale…La ragione…È trasversale. E il fatto è che i migliori, tra di loro, ben sapevano impiegare l’intimidazione. Erano, sostanzialmente e in primo luogo, commedianti, teatranti, veri e propri attori. Perché un equipaggio spaventato, di una nave che è soggetta ad arrembaggio, è innanzi tutto meno combattivo. Ed al termine della diatriba, spesso addirittura, ancora vivo. Il che offre tutta una serie di vantaggi duraturi, tra cui quello di non dover stare a guardarsi le spalle, oltre che dalle autorità, da intere famiglie di uomini violentemente trucidati, fin tropo pronte ad assumere sicari e (perché no) altri pirati alla ricerca di una postuma vendetta. Quindi il pirata, idealmente, mai smetteva di parlare. E quando si lanciava dalla sua murata, col coltello saldamente stretto in mezzo ai denti, che poteva fare? Lasciava il palcoscenico al suo pappagallo. Il quale invece non taceva MAI.
Ora, di pappagalli domestici (er, “navali”) anche a quell’epoca ce n’erano diversi tipi. Com’è noto, la specie preferita dai miglior capitani era quella dell’ara scarlatta o ara macao, imponente e dotata di gran voce, ma soprattutto, non troppo difficile da addestrare. Altri lupi di mare, trovatisi nell’incapacità di scegliere, tendevano ad accontentarsi di un amazzone testagialla (Amazona oratrix) uccello più piccolo e tendenzialmente più aggressivo. Qualcuno invece, volendo semplificarsi la vita, a quel punto faceva in modo di procurarsi un esemplare di cenerino (Psittacus erithacus) allevato in cattività fin dall’epoca degli antichi greci. Ma nessuno, neppure il temuto e ferocissimo Edward Teach con i candellotti nella barba, avrebbe mai osato scegliere come compagno un cacatua. Bestia esageratamente imprevedibile, persino per lui.

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Gli sbalorditivi mutamenti della Valle della Morte

Death Valley Downpours

Cos’è giallo, profumato e superficialmente conforme a quel comune fiorellino del tarassaco, che noi spesso accomuniamo ai due concetti, variabilmente prosaici, del “dente di leone” e de “l’orinatoio per cani”? Che cosa, se non il Gearaea canescens, soprannominato l’Oro del Deserto, che ricorda vagamente il girasole pur essendo più piccolo, e risulta caratterizzato da uno stelo piuttosto sottile nonché ricoperto di una fine peluria vegetale. Ed è proprio questa pianta, generalmente diffusa in Arizona, California, Nevada e nello Utah, ad aver ricolorato nel giro delle ultime due settimane le pendici di un luogo normalmente tra i più brulli del pianeta: la Death Valley della contea di Inyo, che si estende per 225 Km di lunghezza tra le alte pareti dei monti Sylvania a nord, Owlshead a sud, Amargosa ad est e Panamint ad ovest, nonché ricoperta da una cappa di calore che, in specifici mesi dell’anno, viene accomunata all’aria dalla temperatura più alta del pianeta Terra: fino a 56 gradi centigradi tra luglio ed agosto, nella zona molto appropriatamente nota come Furnace Creek. Tanto che tutt’ora vige tra i turisti, che occasionalmente scelgano di visitare questi lidi, lo stereotipo secondo cui sarebbe possibile cuocere un uovo in padella semplicemente poggiandolo sopra la terra spaccata di un simile suolo, calda quasi quanto il tipico fornello da cucina. Ma con una significativa differenza: dagli attrezzi per la cottura, come si usa dire, non cresce nulla. Una pentola è per sempre.
È il valore problematico delle immagini rimaste impresse nel senso comune: se un recesso si guadagna la connotazione di un valore tetro e spiacevole, tra l’altro rinforzato dal suo nome indubbiamente inquietante, tale resta nella mente di chi crede di conoscerlo profondamente, quando in effetti, dopo tutto, non è così. Tutto in natura scorre fluidamente, si modifica grazie al trascorrere dei giorni. E può succedere persino, nel giro di un paio di settimane di piogge intense, che il grande nulla si arricchisca di un lago alluvionale oppure due. Nella fattispecie: il Badwater ed il Manly, come li chiamano da generazioni. Destinati ad evaporare molto presto, ma non prima di aver lasciato, in un simile luogo, il dono invisibile della sommersa umidità. Nascosta sottoterra, assieme ai semi di un ritorno atteso, eppure non di meno, straordinario. Ciò perché il clima della Valle della Morte, normalmente, è tanto originale quanto prevedibile: trovandosi incassata in una zona sub-tropicale, tra i rilievi che non lasciano passare le alcun tipo d’influenza esterna e ad 86 metri sotto il livello del mare, qui il calore del Sole può riuscire a concentrarsi sul terreno, riscaldandolo in maniera significativa. Causando delle correnti d’aria calda che iniziano a rincorrersi tendendo naturalmente a salire. In seguito poiché nulla è caldo quanto loro, una volta lasciata la cocente conca dette masse si ritrovano immediatamente raffreddate, ricadendo giù più compresse. Con un effetto di addensamento e aumento della temperatura il quale, sostanzialmente, ricorda da vicino quello di un moderno forno a convezione.
Ed ecco che succede quando un fronte d’aria umida proveniente dal vicino golfo della California, in funzione di una particolare concomitanza di fattori e interazione tra le parti, riesce ad oltrepassare le alte pareti di questa fortezza ritenuta inabitabile: qui cade una pioggia sottile, spesso destinata a evaporare prima di giungere a impregnare il suolo, nel manifestarsi del fenomeno meteorologico che viene definito virga. Il cui verificarsi già può bastare, da queste parti, a far notizia. Senza il bisogno di lasciarsi andare ai deleteri eccessi dello scorso ottobre 2015, quando una serie di insolite perturbazioni, originatesi nel modo qui descritto, si sono scontrate proprio sopra questo inospitale luogo. Generando in quel caso circa 6,8 cm di pioggia, una quantità tre volte superiore a quella che usualmente cade nell’intero periodo di un anno. Arrivando a causare danni alquanto significativi nello Scotty’s Castle, la villa coloniale che dal 1922 fa da centro d’accoglienza per i visitatori della valle, e depositando detriti e sedimenti all’interno del Buco del Diavolo, una polla naturale contenente l’intera popolazione globale dei pupfish (Cyprinodon diabolis) il pesce più raro del mondo. Che potevamo perdere, così. Mentre invece, abbiamo ritrovato nuove meraviglie…

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Il valore di un’auto che ha trascorso 70 anni in un lago

Bugatti Type 22

Persino in quel momento, ubriaco fradicio, quell’uomo aveva l’alone. Un tiepido lucòre, d’esperienza e savoir faire, quel senso del luogo e delle circostanze che i britannici, dall’altra parte del Canale, amavano chiamare smart-ness. Ma Adalbert sapeva molto bene che quella sera, finalmente, avrebbe avuto la vendetta tanto attesa. “Shick!” Singhiozzò René Dreyfus, premiato pilota francese da corsa poco meno che trent’enne, con alle spalle già una carriera di trionfi a Monaco, Rheims, Firenze, in Belgio, a Tripoli e in Nord Africa, al volante di auto che il cinematografo avrebbe chiamato, senz’ombra di dubbio, da sogno. “P-Poker alla texana, che cosa vuoi dire?” D’un tratto, il sommesso vociare della grande sala dell’Aviation Club de France, senz’altro la sala da gioco più alla moda di tutti gli Champs Elysees, sembrò calare di un tono. “Oh, vecchio amico mio! Ero certo che tu lo conoscessi già. Non dici sempre che vorresti aprire un locale a New York?” Ovviamente, nessuno avrebbe mai potuto dubitare della buona fede di Adalbert Bodé, famoso viveur della città delle luci, uomo dai molti pregi ed ancor più misteri, venuto dalla Svizzera per bucare il cuore delle fanciulle e dei loro mariti. Del resto la sua inflessione strascicata, lo sguardo vacuo e l’eccessivo entusiasmo provavano, in tutto e per tutto, uno stato d’inebriatura almeno pari a quello della controparte. “Guarda. È…È…Facilissimo. Si mettono tre carte sul tavolo, così. Poi, ciascuno ne prende due, coperte.” A quel punto, già stava iniziando a formarsi un capannello attorno al tavolo delle due celebrità nazionali. Di certo non molti, nella Parigi del 1934, già conoscevano le regole di quello che sarebbe diventato, di lì a una trentina d’anni, il gioco più amato dai migliori casinò di Las Vegas. “Ce l’hai? Le hai guardate? Perfetto. Ora immagina che stiamo già giocando. A questo punto, faremmo le nostre puntate. Poi si prende un’altra carta, così…” Ci fu un leggero tremolìo delle grandi lampade in sala, progettate per rispondere al gusto del nascente Art Decò. “E la si mette accanto alle altre. Lo vedi? Adesso sono tre. Ma in realtà, sarebbe più giusto dire, CINQUE. Perché formano, con quelle che io ho in mano, e tu hai mano, un’unica mano.” Qualcuno ridacchiò tra il pubblico, il pilota Dreyfus aggrottò le sue sopracciglia. “Si, proprio così. Lo scopo del gioco è formare delle serie vincenti, come nella versione più classica. Ma una certa quantità di carte sono in comune, e scoperte. Dopo il primo giro di puntate, si aggiunge una quarta carta sul tavolo. Così alla fine, ogni giocatore ne avrà un totale di SEI. Non è divertente?” Mormorio d’approvazione diffuso. “Shick!” Fece Dreyfus “C-Carino. Ehi, ma tu sei davvero u-ubriaco?!” Adalbert ridacchiò in modo sciocco. Quindi si versò il quarto bicchiere dello champagne più a buon prezzo di uno dei bar più cari del quartiere più rinomato, della città più famosa. “Certo!” Le labbra ritirate a mostrare i denti. Un lieve risucchio d’aria, perfettamente udibile dall’altro lato del tavolo: “Certo, che lo sono.” La folla, compreso che il momento non era ancora arrivato, si allontanò momentaneamente. Restando, comunque, fin troppo pronta a testimoniare…
E così, la serata trascorse tranquilla, almeno per il paio d’orette a venire. I due uomini parlarono a lungo di vari argomenti, della ferrovia della Pennsylvania, che recentemente aveva esteso i suoi binari fino alle propaggini meridionali dei Grandi Laghi del Nord. E del progetto ancor più ambizioso, fortemente voluto dallo zar Nicola II, di ultimare una via ferrata da Mosca a Vladivostok, attraverso la sperduta Siberia “Ah, quei russi! Non ce la f-faranno mai!” Esclamò il francese. In ultima analisi, pareva essersi ripreso un po’ dalla sbronza. Quindi, l’argomento passò alle gare d’automobili, ed alla breve rivalità intercorsa tra i due, quando Adalbert, prima di trasferirsi a Parigi, correva da privato nei campionati della Côte d’Azur. “Così, sei venuto in Bugatti. È l’auto che credo?” Dreyfus battè la mano sul tavolo: “Lo sai benissimo! Shick! Certo che si. La Tipo 22 del ’25, quella che avevo la sera. La sera di…” A questo punto, la gestualità si fece concitata. Adalbert gli fece cenno di fermarsi. Troppe persone, ancora, stavano prestando orecchio alla loro conversazione. Ma nello stesso tempo, la sua espressione si animò. Gli occhi si spalancarono, la bocca si alzò agli angoli in un accenno di sorriso: “Ottimo, fantastico!” Entrambi sapevano che cosa significava una tale ammissione. C’era una storia, dietro. Già Dreyfus, uomo di parola più che ogni altra cosa, adocchiava l’immacolato mazzo di carte. Era giunto il momento lungamente atteso: “Come promesso. Giochiamo?”

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La leggendaria cabina telefonica nel deserto

Desert Phone Booth

“Si pronto, qui è il Mojave…” Qualche secondo di silenzio “Eh, siamo appena arrivati. Proprio così: 75 miglia da Las Vegas, su strade parecchio accidentate e quel che è peggio, nell’ultimo tratto, fangose…Come dice? Il clima? Fa piuttosto caldo, intorno ai 100 Fahreneit (sono 39 Celsius o giù di lì)” L’uomo getta un lungo sguardo tutto attorno a se: “D’accordo, gliela descrivo. Il telefono è di un tipo piuttosto vecchio, risalirà ai tardi anni ’70. Ci sono…Ci sono alcuni fori di proiettile. I vetri sono stati rotti, credo da parecchio tempo. Qualcuno ha scarabocchiato frasi e graffiti di ogni tipo sulla struttura metallica della cabina. Roba tipo: Dave è stato qui. Oppure, Josh & Ilona dentro a un cuore. Ah, qualcuno ha ritagliato la sagoma di un cane nel cartone, quindi l’ha incollata in alto. Non so, sarà stato il suo cane.” Il filo non è abbastanza lungo per girare attorno alla struttura in oggetto alla conversazione, tuttavia è possibile notare altri piccoli dettagli. Ci sono piccole offerte, nello stile di un bizzarro tempietto naïf: una testa di bambola, mucchietti di pietre colorate, calamite da frigorifero. Tuttavia, l’interlocutore non pone altre domande. E chi era tanto fortunato da trovarsi in tale luogo, poco prima della rimozione di quello che sarebbe diventato un vero pezzo di storia di Internet e del Nevada, probabilmente preferiva non dilungarsi troppo nelle descrizioni. Perché restare bloccati in un’unica conversazione, quando c’erano in ogni dato momento 100, 200 persone differenti, tutte intente a chiamare lo stesso numero ossessivamente, giorno e notte, mattina e sera, in funzione dei diversi fusi orari…”D’accordo, si, si. È stato un piacere. Così è di Birmingham, mi sta dicendo? Che ha fatto il Liverpool domenica scorsa? Uh, ok. Scriverò il suo nome nel mio quaderno. Arrivederci e grazie, dagli Stati Uniti d’America!”
Rappresentazione. Focalizzazione. Fuoco interiore ed esteriore della conoscenza: comunicare significa, in buona sostanza, trasformare l’integrale complesso delle proprie esperienze individuali nella struttura di sostegno di un edificio temporaneo, finalizzato ad essere preso in analisi da una seconda mente. Non si pensa spesso alle profonde implicazioni di un tale proposito, ne a quanto sia comparabilmente più semplice la vita di un’animale come la medusa, che può lievemente fluttuare, senza considerazioni del suo prossimo e la situazione di contesto. Che forse più di ogni altra cosa, ci condiziona: prova tu, ad alzare la cornetta per rivolgerti al conduttore di un programma Tv in diretta, e vedi quanto sarà difficile non far tremare la tua voce. Prova invece, dall’interno di un’azienda, a contattare i fornitori in forza del tuo ruolo, infuso dell’energia cumulativa di anni di proficua collaborazione. Ma niente forse è comparabile al gesto di chi si ritrovi, unica persona nel raggio d’innumerevoli chilo-miglia, a rispondere facendo le veci del cactus, del coyote, del road runner. Non c’è quindi molto da sorprendersi, per l’esistenza di un punto d’interesse come questo, che fu trasfigurato su scala internazionale grazie all’opera pionieristica di una singola persona, che precorrendo indubbiamente i tempi, si ritrovò al timone di uno dei primi fenomeni virali del nascente web, che potesse realmente dirsi di facile fruizione, discussione, commento. Il suo nome era Godfrey Daniels, ma già allora tutti lo chiamavano “The Deuce of Clubs” (il 2 di bastoni, che poi da quelle parti tutt’altro che napoletane, non erano altro che il cartaceo seme dei fiori). Tutto iniziò nel maggio del 1997, o almeno così recita la storia, con un concerto della band di Tacoma delle Girl Trouble, che costui si era recato ad ascoltare, come suo solito, durante una tournée dalle sue parti a Phoenix, Arizona. Occasione durante la quale, strano a dirsi, la sua amica batterista Bon, una componente fondamentale del gruppo, gli fornì la rivista auto-pubblicata dal gruppo, parte della coda ormai sempre più sottile del fenomeno delle ‘zine, un tipo di espressione personale che sarebbe ben presto scomparsa, con la nascita del web 2.0, i blog ed ancor maggiormente, i nostri odierni social network. Ora tra le pagine di una tale opera d’ingegno, il cui titolo era “Wig Out!” trovava posto la lettera di un anonimo abitante della California, il quale raccontava una bizzarra storia. Di come, notando su una cartina del deserto del Mojave un improbabile icona del telefono nel mezzo all’assoluto nulla, costui avesse scelto di recarsi a visitarla con la sua jeep. Trovando, incredibilmente, un simile segno strutturale di modernità, nel mezzo dell’assolato ed assoluto nulla… E costui fece anche di più: riportò nella propria missiva, prontamente inserita tra le pagine in bianco e nero del giornaletto, il numero di telefono di un tale luogo: (619) 733-9969. A quel punto, Daniels prese una fondamentale decisione. Egli avrebbe chiamato e chiamato un tale numero, finché qualcuno non avesse risposto. E poi,

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