L’invenzione tardiva delle sospensioni navali

“Non è fantastico?” Disse John F. Derrick, architetto di fama presso la Big Apple di New York, NY: “Poter attraversare il capo di Buona Speranza con tanta comodità, persino durante una piccola tempesta?” Ivan Gubanov ci mise qualche secondo a rispondere, mentre allineava attentamente l’occhio sinistro con la biglia bianca, ponendosi in asse rispetto alla buca. “Piccola, tu dici? A me questa non pare piccola.” Enuncio infine, con il suo marcato accento, udibile in modo particolare nelle sillabe con vocali forti. Con un sospiro, tirò indietro la stecca, quindi tirò. “Se tu guardi bicchiere di Vodka sopra tavolo, vedrai l’effetto che tutto questo ha sulla stabilità di grossa nave.” Quasi a sottolineare le sue parole, in quel momento una posata cadde giù dal tavolo del buffet. La palla rossa a cui aveva mirato, sfortunatamente, mancò la sponda nel punto prefissato, rotolando a qualche centimetro di distanza da essa, mentre il sistema idraulico sotto al tavolo, sbuffando rumorosamente, lo manteneva perfettamente orizzontale. Adesso toccava all’americano: “Si ok c’è qualche vibrazione, ma io non credo che il capitano sia in alcun modo preoccupato. Dopo tutto, qual’è la cosa peggiore che possa succedere? Un naufragio, ah ah!” Ivan aggrottò le sopracciglia, quindi si rassegnò a lasciar correre, mentre aspettava che il destino della partita facesse il suo corso. I quadri alle pareti della Riva Spaziosa, bastimento da 300 metri e 92.000 tonnellate, sembravano altrettanti metronomi animati da una loro forza interiore. John allineò il colpo con attenta considerazione strategica. John calibrò attentamente la potenza e quindi John lasciò liberi i mastini della guerra verso un obiettivo non proprio facile da trovare. Ivan, dall’occhio maggiormente allenato, era certo che a quel punto sarebbe stato in perfetta posizione per  vincere la partita. Non una singola volta, il suo rivale aveva centrato esecuzioni tecniche di una simile difficoltà. Ma proprio mentre la stecca stava per raggiungere la palla bianca, successe qualcosa d’imprevisto ed inaspettato: le tende alla finestra si scostarono visibilmente, a mostrare un’onda più alta delle altre che stava impattando proprio in quel momento a babordo del possente natante. Entrambi i giocatori fecero un mezzo passo avanti per mantenersi in equilibrio, proprio mentre l’americano tirava. La traiettoria deviata dal caso, tuttavia, si dimostrò più corretta del previsto, mentre la sfera rossa raggiungeva la buca d’angolo e senza un suono, scompariva alla vista dei potenziali spettatori. “Lo vedi John, questo è quello che io chiamo fortuna. O se tu crede, questo punto l’ha fatto onda di grande mare. Io NO capisco perché sistema di stabilizzazione tavolo biliardo non può essere usato su tutta dannato nave.” Strizzando lievemente gli occhi, l’architetto si preparò al prossimo turno, ma la sua mente era già altrove. Stava pensando intensamente a qualcosa che aveva letto su Internet un giorno, e al fatto che nel giro di qualche settimana, si sarebbe ritrovato in Australia.
C’è un altro capo famoso che compare immancabilmente sul tragitto di tutte le crociere dirette verso l’Oriente, attraverso il continente di Oceania e tutta l’area del Pacifico meridionale. Senz’altro meno famoso, e agitato, il Cape Naturaliste non avrà forse dinanzi una città come la capitale del Sudafrica, ma vanta non di meno una ridente comunità di appena 5.000 abitanti, nota con il nome preso in prestito dall’Inghilterra di Dunsborough. Non siamo poi così lontani da Perth e benché qui manchi, naturalmente, la sua industria pesante, non c’è alcuna carenza di fervide menti che hanno studiato presso la sua celebrata Università. Così nuove compagnie spuntano spesso all’ordine del giorno, in modo particolare nell’ambito scientifico e il campo della tecnologia. Realtà operative come la Nauti-Craft di Chris Heyring, ex-professore di modellazione tridimensionale che ha deciso, nel 1982, di abbandonare il suo posto di lavoro sicuro per fondare una compagnia assieme alla moglie, intraprendendo la difficile strada dell’inventore. Nel giro di 8 anni accumula una quantità significativa di premi e riconoscimenti per le sue innovative tensostrutture, che trovano applicazione in diverse zone dell’Australia. Finché nel 1990, arriva la svolta: Chris forma la Kinetic Pty Ltd, brevettando un innovativo tipo di sospensioni, che lui chiama alquanto appropriatamente Kinetic Dynamic Suspension System O KDSS. Usato in diversi modelli da strada giapponesi della Toyota e della Lexus, nonché nelle loro auto da corsa, il meccanismo si rivela effettivamente assai utile e concede al suo creatore una solida base economica, su cui porsi in modo pratico la domanda che in realtà, forse, aveva da sempre custodito in se: sarebbe mai possibile, volendo, ammortizzare una nave?

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Transporters 2018: rivincita sugli Amazonbot

Quando si pensa al futuro dei trasporti umani, è inevitabile. Di questi tempi il ragionamento conduce con inesorabile rapidità sempre allo stesso punto: la automobili a guida automatica, condotte a destinazione da un ensemble di GPS, radar, lidar, telecamere e processi di elaborazione logica basata sul principio dei processi neurali. Guidare è questa attività noiosa, lunga e potenzialmente dannosa, con cui la maggior parte di noi non vorrebbe mai aver nulla che fare. Soprattutto i pendolari. Ma la strada verso il conseguimento omnicomprensivo di una tale finalità è notevolmente in salita, non soltanto per il comprensibile scetticismo e la diffidenza di molti. Il problema principale è che il mondo esterno, con la sua infinita quantità di variabili, potrà pur sempre presentare un problema che l’intelligenza artificiale non riuscirà a risolvere. Ed allora, purtroppo, qualcuno perderà la vita. Ucciso accidentalmente dal proprio robot. Perciò sapete dove, invece, simili problemi non gravano col loro peso sulla coscienza dei progettisti? Dove tutto è sotto controllo, chiaro e definito, e nessun tipo di nuovo disastro può palesarsi sulla strada cronometrica delle giornate. Ma soltanto imprevisti, piccoli o grandi, all’interno di un ambiente che è la riduzione del cosiddetto “mondo esterno”. In altri termini, presso il traguardo al termine del viaggio stesso, che poi sarebbe il luogo di lavoro. Ne abbiamo visti molti, negli anni: robot che assemblano, robot che tessono, applicano vernici, spostano, selezionano, definiscono categorie. E poi quel tipo particolarmente affascinante di strumento meccanizzato autonomo, il picker artificiale per i magazzini che effettuano spedizioni online. Una lunga perifrasi, fino ad oggi, per riferirsi effettivamente a una singola e specifica cosa: il Kiva Systems di Amazon.com.
Questo perché la colossale azienda di Jeff Bezos, con un geniale colpo di mano del 2012, acquistò integralmente l’intera azienda produttrice di simili dispositivi, assicurandosi così l’esclusiva e arrestando letteralmente, per ben 7 anni, il progresso mondiale in questo specifico ambito tecnologico. Cosa c’è di meglio che monopolizzare quasi letteralmente un settore in crescita vertiginosa, quello delle vendite online, e nel contempo mantenere soltanto per se il segreto che permette, tra gli altri, di operare con una tale efficienza cronometrica e l’eliminazione parziale degli stipendi e le lamentele prodotte dai “soliti fastidiosi umani”. A un livello puramente superficiale, un Kiva è un dispositivo notevolmente simile a un aspirapolvere Roomba, o a uno di quei inarrestabili combattenti radiocomandati che vedevamo all’opera nel programma Robot Wars, dotato di ruote girevoli a 360 gradi e un sistema di sollevamento a vite infinita, che gli permette di far sollevare da terra letteralmente un apposito scaffale facente parte del sistema, definito in gergo amazoniano “The Pod”. Sopra la scocca dell’apparecchio c’è una telecamera, usata per scansionare e confermare i codici a barre posizionati sotto i diversi Pod, e sotto c’è n’è un’altra, che ne legge degli altri sul pavimento, utili a comprendere in qualsiasi momento la posizione in cui si trova nel magazzino. E a quel punto, avete presente le formiche? Poiché tutti i robot di una simile installazione possono vantare la partecipazione wireless allo stesso cervello centrale, essi lavorano in perfetta sincronicità, evitandosi l’un l’altro senza aver mai bisogno di rallentare. Fatta eccezione per il caso, tutt’altro che raro, in cui un nuovo dipendente posizioni erroneamente uno o più oggetti in vendita, lasciandoli sporgenti al di fuori dello scaffale e causandone l’impatto, talvolta a media velocità, contro un Kiva-cum-Pod che si stava dirigendo nella direzione diametralmente opposta. Ed è questa la principale ragione per cui alcune merci del sito, negli Stati Uniti, vengono vendute con uno sconto percentuale e la dicitura “scatola danneggiata”. Un altro potenziale problema, ancor più grave, è quello relativo ad oggetti piccoli e piatti che possono finire sotto il robot, bloccandosi in posizione tale da ostruire la telecamera. A quel punto esso, non conoscendo più la sua posizione, può causare più di qualche piccolo problema all’interno del meccanismo, finché un addetto umano non si accorge dell’anomalia e scende nell’arena per risolvere manualmente il problema. Il che si verifica attraverso un sistema alla Westworld (il telefilm) per cui tutti gli automi vengono arrestati all’interno di un’area definita, quello non conforme riceve la sua revisione e poi tutto continua esattamente come prima, senza alcuna soluzione di continuità.
Un sistema notevole dunque, ma non perfetto in quanto richiede ancora il regolare intervento delle mani umane. Soprattutto nell’effettivo prelievo degli oggetti al punto di smistamento, e il loro inserimento nelle scatole per la spedizione. Perché è questo il fondamentale problema, nella creazione di uno stato dei fatti di monopolio: si rallenta o arresta integralmente il progresso umano. Ma basta un rapido sguardo online per capire che proprio oggi, a conclusione di un lungo progresso di ricerca e sviluppo da parte di numerose aziende, le cose stanno finalmente per cambiare…

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La colossale bomba inabissata nel delta del Tamigi

Sarà un giorno, sotto qualche specifico aspetto, diverso da ogni altro. La città di Londra si sveglierà una mattina, particolarmente calda, molto fredda, oppure ventosa o ancora a seguito di un terremoto di media entità. Dovrà essere accaduto, insomma, qualcosa che negli ultimi 70 anni si è verificato al massimo un altro paio di volte o poco più. A quel punto, all’improvviso, chi dovesse trovarsi di fronte a una finestra rivolta ad Est avrà l’occasione di vedere qualcosa nel cielo: come una vibrazione nell’aria, seguìta dal formarsi di una nube a fungo, che gradualmente tenderà ad ingrandirsi lasciando una macchia indelebile nel corso della Storia. Quindi sarà raggiunto dal rumore: un boato sconvolgente, prodotto da poco più di 1.400 tonnellate di esplosivo. La più grande esplosione non nucleare nella storia dell’uomo, di molte volte superiore a quella della MOAB statunitense sganciata in Afghanistan il 13 aprile 2017, formerà a quel punto un’ondata simile a uno tsunami, che investirà la cittadina di Sheerness sul Tamigi spazzandola letteralmente via, poi risalirà il fiume, trovando sfogo nel pieno di alcune delle zone demograficamente più popolose dell’intero Regno Unito. La capitale riporterà danni ingenti. Qualsiasi attentato terroristico degli ultimi anni sembrerà impallidire al confronto di una catastrofe tanto significativa. O almeno, questo è un possibile scenario e volete sapere perché? Il fatto è che le persone, quando si tratta di affrontare un problema dicono spesso: “Costa troppo e non c’è un chiaro ritorno d’investimento. Gli incidenti, si, possono capitare. Ma possono anche NON capitare.” E per tale ragione la nave giace, ormai da una generazione e mezzo, sul fondo sabbioso del delta a una profondità di appena 7,3 metri, come il nucleo lavico di un vulcano o le scorie radioattive di Chernobyl, letteralmente dimenticata tranne che per chi la vede ogni giorno e qualche turista che si avvicina di soppiatto in gommone, per farsi un selfie di fronte all’oggetto più pericoloso d’Inghilterra. In effetti, non è che ci sia molto da vedere: della Liberty Ship SS Richard Montgomery, varata il 1943 ed affondata l’anno successivo, fanno capolino soltanto i due alberi centrali, con la ciminiera ed i possibili resti di un’antenna, sopra la quale sono stati affissi un paio di severi cartelli di divieto. Non che faccia la benché minima differenza. Chi conosce le radici di questa vicenda, giammai nuoterebbe fin lì.
Tutto ebbe inizio nel 1936, a voler ricercare le radici più remote, quando gli Stati Uniti d’America, preoccupati per i venti di guerra e la corsa agli armamenti delle principali potenze industriali di allora, varò il piano Merchant Marine, per la creazione di un minimo di 50 navi per gli approvvigionamenti atlantici nel periodo di un anno. Il numero fu quindi raddoppiato nel 1936, e raggiunse i 200 esemplari nel 1940. Per riuscire in una simile impresa, naturalmente, si rese necessario in corso d’opera un design letteralmente mai visto prima e l’ammiragliato, dopo aver pensato alle diverse strade possibili, decise infine di affidarsi all’alleato d’Oltreoceano, questa stessa isola della fertile Albione. Gli inglesi disponevano infatti di un vecchio mercantile, prodotto in serie a Sunderland, che era stato adattato con un aumento dislocamento di 800 su circa 10.000 tonnellate, dotato di un singolo motore a vapore 2.500 tonnellate e varato nel 1941 con il nome di SS Ocean Guardian. L’idea piacque e venne ripresa, sfruttando tuttavia alcuni importanti margini di miglioramento. In modo particolare, il montaggio dello scafo venne riveduto e corretto, per sostituire con la saldatura l’impiego di numerose migliaia di rivetti, il che riduceva sensibilmente il tempo di costruzione senza, almeno in teoria, compromettere la solidità della nave. Da quel momento, con l’ìngresso degli Stati Uniti nel drammatico scenario della seconda guerra mondiale, i fuochi dell’industria furono accesi alla loro massima potenza, e di navi ribattezzate in nome di questo fondamentale concetto, la “Libertà” ne furono costruite in quantità impressionante. Entro la fine della guerra, 18 diversi cantieri americani ne avrebbero prodotte esattamente 2.710, più di qualsiasi altro singolo tipo d’imbarcazione nell’intero corso dell’esperienza marittima umana. Le navi venivano impiegate per gli scopi più diversi, costituendo un fondamentale apporto allo sforzo di rifornimento delle operazioni militari nei più remoti teatri militari del mondo, ritrovandosi anche adattate alla mansione di trasporto truppe e sbarco d’assalto, benché fossero concettualmente inadatte a svolgere una simile mansione. Mancava, ad esempio, uno spazio vivibile adeguato per la fanteria, e non c’erano strutture mediche a bordo. Le Liberty Ship presentavano tuttavia prestazioni e un’affidabilità ragionevoli, tranne nei casi in cui all’improvviso, si spaccavano letteralmente a metà e colavano a picco, senza il benché minimo preavviso…

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L’amor che fa gonfiare gli urogalli americani

Tra una costa e l’altra del Nordamerica, verso la distante sponda dell’Ovest, c’è un’ampia area nell’entroterra priva di città, centri abitati o altri segni di vita normalmente associabili a densità demografiche rilevanti. Via dagli edifici e dagli assembramenti, disseminata occasionalmente dagli ingressi delle miniere o i padiglioni degli allevamenti, qualche piantagione qui e là, ma per la massima parte, corrispondente al concetto atavico di prateria. Verde tendente al marrone, perché ricoperta in ogni suo possibile recesso dal sagebrush. Ora cosa sia il sagebrush, esattamente, nessuno lo sa. O almeno così sembrerebbe nel cercare tale termine sui dizionari, dove si parla (correttamente) di certe piante appartenenti al genere Artemisia, ma anche di saggina, sterpaglie, ginepro, salvia o addirittura in senso più generico, “erba alta”. Ambiente privo di particolari attrattive, questo, per molti. Ma non per tutti. Come si può facilmente desumere, sentendo a distanza di chilometri il richiamo gutturale del più nobile tra gli uccelli locali. È un suono penetrante, dall’intonazione profonda, che sembra fare da accompagnamento pressoché perfetto alla creatura, che lo emetterà di continuo per tutta la durata della stagione degli amori. Finché qualcuno, avvicinandosi, possa assistere allo spettacolo di un’intera vita di birdwatching: 25-30 esemplari riuniti in cerchio e intenti nella conduzione di uno strano rituale. A dare il tempo ci pensa lui, il maschio alpha più grosso e forte di tutti gli altri, mentre attorno si assembrano i colleghi che vorrebbero sottrargli questo ruolo. Ciascuno alto all’incirca una settantina di centimetri, e dotato di una certa serie di simboli di riconoscimento: in primo luogo, la coda, composta da una serie di penne a raggiera non dissimili dal copricapo della Statua della Libertà, quasi volesse competere con l’aquila di mare nel ruolo di simbolo della nazione. E poi due macchie gialle sopra gli occhi, con un copricapo in proporzione gettato all’indietro da far invidia a un capo di una tribù di Nativi. Ma ciò che colpisce da subito l’immaginazione è il vistoso collare di piume bianche, con un aspetto estetico non dissimile da quello di un collare di pelliccia del cappotto invernale. Il quale nasconde, in realtà, un segreto.
All’osservatore occasionale di una simile congrega, non propriamente esperto dell’argomento, potrebbe anche costituire la ragione di un senso di stupore rilevante. Poiché ogni volta che uno di questi Centrocercus urophasianus (gallo della salvia o greater sage-grouse) apre il becco per emettere il suono, fa un sobbalzo. E per ciascun sobbalzo, sbuca fuori dalle piume dell’ornamento frontale una gran coppia di sferoidi verde scuro, simili al cappuccio di altrettante meduse. Così l’uccello continua nel suo canto e un minuto dopo l’altro, mostra a intermittenza la capacità di aumentare temporaneamente di dimensioni, se soltanto s’impegna a deviare parte dell’ossigeno inalato verso questi grossi organi posizionati all’incirca all’altezza del petto. Perché lo fa? Beh, chiunque conosca il modus operandi del gallo cedrone, il fasianide più simile a questo ad essere presente tra le coste della penisola nostrana, a questo punto già si sarà fatto un’idea. Stiamo osservando, molto chiaramente, gli uccelli nella stagione degli amori. Quando l’estetica è tutto e la capacità di fare colpo, niente meno che essenziale per trasmettere i propri geni al domani. È usanza imprescindibile tra gli urogalli in effetti, che per ogni raduno dal simile tenore (comunemente chiamato lek) sia soltanto un esemplare, massimo due ad accoppiarsi, scelti in base alla rigida graduatoria genetica della specie. Proprio per quest le femmine marroncini, esteticamente non dissimili da una comune pernici, inizieranno ad avvicinarsi di soppiatto con lo scopo di soppesare rischi e possibili vantaggi. Per poi scegliere il bersaglio e farsi avanti, confidando nell’infallibile capacità di andare a meta. Per loro, dopo tutto, il successo è già garantito: pensate soltanto che una di queste creature potrebbe bastare ad inseminare l’80-90% delle gallinelle presenti allo show. Ed in effetti molto spesso, è proprio questo che ciò che capita dopo una lunga serie di sfide, combattimenti e vicendevoli spintoni, per la maggiore gloria dell’urogallo supremo.

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