V-22 Osprey: il ronzio possente del convertiplano

Ciò che vola, talvolta non può che volare, in funzione delle sue caratteristiche aerodinamiche che ridirezionano la forza del vento. Inghiottendola in un buco nero sotto forma di ali e carlinga, che misteriosamente genera portanza. Certe volte, tuttavia, ciò che vola non dovrebbe neppure staccarsi da terra. Tozzi, sghembi, tutt’altro che affusolati. Quando il presidente Trump, all’inizio del suo mandato, fece visita alla nuova portaerei USS Gerald Ford prossima al completamento presso i cantieri di Newport, in Virginia, per il suo atteso discorso sul “Riportare agli antichi fasti l’arsenale americano” dietro la forma rassicurante dell’elicottero VH-3D “Marine One” (controparte con rotore del più rinomato Air Force) campeggiavano due sagome mostruose, dinnanzi alle quali persino il mostro di Frankenstein sarebbe stato chiamato “un tipo”. Il muso simile a quello di un aereo di stazza media, le ali ridicolmente piccole, due eliche giganteggianti, la coda biforcuta che ricorda vagamente quella dell’A-10 Thunderbolt II, l’aereo celebre per essere stato costruito attorno ad un cannone. Ma qui è palese, al primo o secondo degli sguardi, che ci troviamo su un diverso livello di stranezza, un’altra dimensione dell’inaspettato campo della scienza tecnica applicata. Non tutti sanno in effetti che per le trasferte nazionali che coinvolgono l’intero staff della Casa Bianca, ovvero quelle che non prevedano necessariamente l’impiego di uno dei due 747-100 presidenziali, l’usanza vuole che il grosso dell’entourage di The One viaggi a bordo dei più grossi elicotteri a lungo raggio a disposizione dei corpi militari statunitensi. I quali, per ironia del processo ingegneristico aerospaziale, non sono più propriamente, degli elicotteri. A partire dal 2007, quando entrò in servizio il primo convertiplano prodotto in serie dell’intera vicenda fluttuante umana.
Una contraddizione a cui si arrivò per gradi. Ovviamente, tutto ebbe inizio dall’epoca della seconda guerra mondiale, quel grande calderone dalle drammatiche conseguenze, che bene o male (decisamente più male che bene) rimescolò le nazioni, costringendole ad analizzare ogni centimetro di vantaggio funzionale che potessero acquisire sopra, sotto e dietro il campo di battaglia. La Germania, forse proprio in funzione dell’eclettismo disfunzionale della sua classe dirigente, fu notoriamente maestra in questo, producendo il più alto numero di prototipi avveniristici, non tutti destinati a giungere a un’impiego effettivo. Tra questi, alcuni dei primi e maggiormente significativi esperimenti nel campo degli elicotteri. Fu così che verso la fine del 1941, il Reichsluftfahrtministerium (Ministero dell’Aviazione del Reich) stabilì un mandato presso l’importante industriale e fornitore d’aeromobili Heinrich Focke, per un nuovo tipo di caccia da combattimento, che fosse in grado di effettuare il volo VTOL (fluttuare immobile nel vasto cielo). Costui lavorando quindi, con il suo collega e pilota Gerd Achgelis, riuscì ad assemblare nelle sue fabbriche il primo esemplare di quella che si sperava, sarebbe diventata la serie Fa 269, un aeromobile di 8,93 metri di lunghezza armato di due cannoncini da 30 mm, i cui propulsori ad elica avevano una caratteristica particolare: potevano essere riorientati a 90°, per puntare in senso perpendicolare al terreno. Dell’apparecchio non si sa più nulla: esso compare soltanto in alcuni disturbati video di prova, in cui viene usato nella configurazione di elicottero per sollevare da terra alcuni carichi pesanti, dimostrando la potenza del suo motore BMW 801. Esso non fu mai usato in battaglia. Al termine del conflitto gli Stati Uniti vennero a conoscenza di tale (ed innumerevoli altri) progetti decidendo di farli propri, un po’ come era capitato con l’elite degli ingegneri missilistici al servizio del Reich. Dopo tutto, immaginate di cosa stiamo parlando? La praticità d’uso e versatilità di un elicottero, unita al raggio e l’affidabilità di un aereo. Qualcosa di straordinariamente utile dal punto di vista della logistica militare. Fu quindi il presidente Harry Truman (mandato: 1945-1953) a formalizzare per primo questa esigenza, dando inizio al progetto inizialmente segreto dal nome di XV (Experimental Vehicle). Il primo prodotto di questa iniziativa fu commissionato alla McDonnell, che riuscì nel 1954 ad assemblare una nuova versione del concetto di elicottero, dotato di un doppio jet a turbina di coda che poteva spingerlo fino a 322 Km/h. Esso non era, tecnicamente, ancora un convertiplano, bensì una sorta di versione a reazione del concetto di girocottero. Ma risultò soprattutto straordinariamente costoso, per un guadagno di prestazioni irrisorie rispetto alla sua complessità produttiva. Per qualche tempo, dunque, i presidenti americani dovettero ancora accontentarsi del loro classico Marine One.

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In Australia si accende lo stadio che sembra un flipper gigante

Fin dall’epoca del primo volo a motore, l’uomo è stato attratto dalle stelle distanti posizionate nel cielo notturno. Il loro aspetto misterioso, la forma invitante, la musica visuale della loro conturbante luminescenza. Ogni singolo passo del progresso scientifico relativo a questo ambito fu accompagnato da una simile consapevolezza, incluso l’invio in orbita della navicella spaziale Friendship 7 nel 1962, terzo volo spaziale statunitense, con a bordo il coraggioso pilota John Glen. Ma ci sono momenti in cui il tuo sguardo deve tornare sulla Terra, attimi in cui senza un punto di riferimento solido, ogni cosa appare perduta. Fu così che durante una fase cardine della sua esplorazione durata poco meno di cinque ore, l’astronauta dovette iniziare una complessa manovra di rientro, durante la quale l’orientamento della capsula sarebbe stato determinante, o potenzialmente fatale. In quel preciso momento, egli si trovò all’improvviso sopra lo spazio aereo (l’aria spaziale?) della base di Munchea, in Australia, quando scorse oltre l’orizzonte una città straordinariamente luminosa, come un’esplosione di gioia nella cupa distesa a ridosso dell’Oceano Pacifico. E allora che Gordon Cooper, l’addetto radio della missione, pronunciò una serie di parole destinate a rimanere nella storia: “Quella che stai vedendo è la città di Perth. Tutti gli abitanti hanno acceso spontaneamente le luci, nella speranza di essere visti da te.” Da quel momento, la strada era chiara. La capitale dello stato dell’Australia Occidentale, nonché quarta città più popolosa del suo continente, sarebbe diventata nota come “The City of Lights”. Con buona pace della Ville-Lumiere, Parigi.
Del resto di sfolgoranti bagliori, Perth ne possiede parecchi. La terra stessa su cui è stata fondata, un tempo appartenente alla popolazione aborigena dei Noongar e che il capitano James Stirling nel 1829, mettendo piede per la prima volta in Australia, definì: “Il luogo più magnifico che avesse mai visto.” Il suo ruolo nell’epoca coloniale, in cui seppe determinarsi un ruolo di primo piano nella nascente Federazione, attraverso le abili manovre dei suoi primi amministratori. Lo svettante distretto finanziario, con tanto di prototipico Central Park. E le due squadre locali di Football australiano, i West Coast Eagles e il Fremantle Football Club, che fino ad oggi hanno giocato i loro derby esclusivamente all’interno del Subiaco Oval, il vecchio stadio a ridosso del fiume Swan, collocato nell’omonimo quartiere della città. Una struttura… Vetusta, risalente al 1908, e proprio per questa dotata di una sua lunga e importante storia sportiva. Ma viene un momento in cui, persino simili luoghi, raggiungono un grado d’usura che non può essere più tollerato. Ed a quel punto la città può fare soltanto due cose: rimetterli in sesto a fronte di una spesa davvero significativa, oppure sostituirli con qualcosa di nuovo, più grande, sostanzialmente migliore sotto ogni punto di vista. L’amministrazione governativa dello stato dell’Australia Occidentale ha dato ordine che entro il 2018, la struttura sia infine demolita. Vi lascio immaginare, dunque, quale strada sia stata scelta per assolvere alla questione!
La questione del nuovo stadio di Perth ha costituito negli ultimi anni un importante tema urbanistico e politico di questa città. Al punto di diventare, durante la recentemente conclusa amministrazione del premier Colin Barnett, un fondamentale punto d’orgoglio davanti al popolo degli elettori. Scartata l’ipotesi di costruire l’arena in prossimità di quella precedente, sempre a Subiaco, si è quindi deciso per un’area del vicino quartiere di Burswood, come parte di un progetto inclusivo di un nuovo ponte e una stazione del treno, ma nessun parcheggio: questo perché, nell’ottica della moderna attenzione per l’ambiente, si presume che il pubblico giunga alla partita utilizzando in prevalenza il trasporto pubblico. Una visione che chiamerei ottimistica dell’intera questione. Ma l’aspetto più affascinante dello stadio è senz’ombra di dubbio il suo fantastico sistema d’illuminazione, creato in collaborazione con Philips sul modello del grande successo avuto a partire dal 2011 dal loro sistema ArenaExperience, presso il nuovo stadio della Juventus a Torino. Il tutto, su una scala completamente nuova: lo stadio di Perth potrà infatti vantare il più esteso sistema d’illuminazione al LED della storia.

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La barba che cresce sulle code della falena

È tutto iniziato con il post dell’utente giavanese di Facebook, Gandik, che il 19 ottobre all’ora italiana 14:08 ha postato la frase presumibilmente in indonesiano: “Nmbe tumon kupu macem kie” (traduzione, uhm…) accompagnata da foto e video di un insetto decisamente peculiare. Una falena dall’addome corpulento di colore arancione con puntini neri, le ali striate molto aerodinamiche, e una livrea sinuosa simile alla zampa di un tavolo ornato in prossimità della testa. E poi, quasi dimenticavo, quattro mostruosi tentacoli arcuati fuorusciti dalla parte posteriore del corpo, simili agli arti prensili di una creatura concepita per succhiare cervelli fuori dai padiglioni auricolari umani. Soltanto simili, s’intende. Voglio dire, l’aspetto della creatura è piuttosto insolito ed innegabilmente inquietante. Forse perché sembra a tutti gli effetti che sia stata infettata da uno o più parassiti, ricordando per certi versi la tipica scena dei vermi nematodi che fuoriescono dal corpo di un bruco o una sfortunata mantide religiosa. Ma la reazione collettiva di disgusto professata dalla maggior parte dei portali Internet e la blogosfera direi che appare appena un pelino esagerata, per un’animale che misura poco più di un centimetro di lunghezza: “Chiaro segno dell’Apocalisse avvistato online” oppure “Se lo vedessi brucerei istantaneamente la casa, ma che dico, la città…” Seguìto dal sempre popolare: “Gettate una bomba ATOMICA dall’orbita terrestre per eliminare questo araldo di Satana fra di noi.” È un po’ il gusto dell’iperbole che si sa, garantisce un numero maggiore di click. Non che questo giustifichi la quasi totale assenza di analisi scientifica nella trattazione reperibile tramite Google, che sembra essersi fermata al primo accenno offerto da Wikipedia in materia. Laddove, tra l’altro, la specie è nota: ciò che abbiamo visto coi nostri occhi increduli costituisce in effetti un esemplare maschio di Creatonotos gangis, nient’altro che uno dei Centuria Insectorum(100 insetti) descritti per la prima volta nell’omonimo testo tassonomico del 1763 compilato dal sempre rilevante Linneo. “Se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose.” Amava dire costui… Ma sapete cos’è ancora meglio, per ricordarselo? Associare un racconto al nome. Si tratta di una storia davvero importante. Forse la più importante di tutte…
Il momento culmine nella vita di questo lepidottero, diffuso in tutto il Sud-Est Asiatico ed in alcune regioni settentrionali dell’Australia, si verifica durante un periodo delle notti di primavera, quando fuoriesce dal duro bozzolo in cui ha trascorso l’inverno. Non più bruco strisciante e peloso, bensì un essere volante concepito primariamente per uno scopo ben preciso: trovare una femmina ed accoppiarsi con lei. Il che avviene attraverso un organo produttore di feromoni che l’entomologo Robinson, inventore della più celebre trappola per falene, definiva nel 1962 “Uno dei miracoli della natura.” Il nome dell’apparato artropode in questione è coremata e il suo aspetto dalle molteplici biforcazioni barbute, beh… Diciamo soltanto che suscita una certa quantità di domande. La prima delle quali nasce dalla semplice osservazione di come dette mostruose “code” siano a tutti gli effetti più lunghe dell’addome dell’animale. Come è possibile tutto ciò? La risposta, in un certo senso, fluttuava nell’aria. Gas incorporeo che la falena risucchia tramite l’apposito opercolo, gonfiando letteralmente un qualcosa che si rivela essere, dunque, nient’altro che la versione naturale di quelle maniche vagamente antropomorfe fatte sorgere in maniera pneumatica in occasione degli eventi e fiere di paese. La cui finalità non è però soltanto, né primariamente estetica, avendone una decisamente più funzionale: liberare un richiamo nell’atmosfera. Preparatevi quindi alla rivelazione che, forse, getterà nello sconforto il battito del vostro cuore: queste falene non arrivano mai da sole.

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Le tribù isolane delle monete di pietra giganti

Non scaricheresti il denaro, giusto? Sopratutto se il denaro pesasse 4 tonnellate, ed avesse un diametro di 3,6 metri assomigliando alla stereotipica ruota dei cavernicoli spesso raffigurati sulla Settimana Enigmistica. Immagina mentre rotola, fuori dallo schermo del tuo computer, sopra la tastiera e all’indirizzo di colui che ha premuto invio… Il Bitcoin, considerandolo da un certo punto di vista, è una forma di valuta molto avanzata, ma anche estremamente primitiva. Senza l’autorità di un sistema centrale, che emetta e regoli la sua diffusione, tutto ciò che resta per tracciarne i movimenti è la consapevolezza del gruppo, l’accordo comune tra individui che in circostanze normali, non si fiderebbero mai l’uno dell’altro. E tutto ciò che lo rende possibile, in una società globale di  7,5 miliardi di persone, è lo strumento di Internet, un sistema di macchine considerato, a torto o a ragione, del tutto infallibile e imparziale. Eppure ubbidiente per chi riesce a dominarlo, tramite l’approccio dell’hacking, un metodo di programmazione che opera sulle radici, piuttosto che i rami del grande albero delle transazioni. Credeteci: è già successo più di una volta, con conseguente furto ed inevitabile svalutazione, vista la pur sempre variabile fiducia della gente nei confronti delle innovazioni. E pensare… Che tutto quello che serviva per superare un simile drammatico problema, era “L’assoluta fiducia nel tuo prossimo, inclusi gli antenati e la posterità a venire!” Un qualcosa che qualsiasi società potrebbe acquisire in potenza, se soltanto può mantenersi invariata per qualche migliaio d’anni, lontana da influenze esterne e salda nel coltivare i pregi del suo specifico stile di vita. Certo è che, nel caso dell’isola di Yap, uno dei luoghi più remoti della Micronesia, ad aiutare ci abbia pensato la popolazione complessiva non propriamente spropositata, con appena 11.000 persone distribuite su una terra emersa di 308 Km quadrati, abbastanza pianeggiante e fertile da giustificare l’insediamento di una comunità dei leggendari navigatori polinesiani. Ricca di ogni risorsa tranne una: la pietra. Così che in un momento imprecisato dei secoli ormai trascorsi, tale elemento iniziò ad essere considerato estremamente prezioso. Troppo, persino, per utilizzarlo in architettura o altrove, perché utile per portare a termine diversi tipi di transazione. Benché fosse impossibile, esattamente come avviene per i Bitcoin, spostarla fisicamente dal giardino dell’acquirente a quello del venditore…
Tutto ebbe inizio, secondo una leggenda facente parte del loro corpus a trasmissione orale, con l’avventura del mitico Anasumang, una figura di capo, o grande capitano di solide canoe, che cinque o sei secoli fa intraprese, per primo da oltre un millennio, il viaggio fino all’isola di Palau. E lì vide, per la prima volta, un materiale bianco e splendente come il quarzo, in quantità tale da cambiare per sempre le regole della sua società natìa. Nient’altro che marmo. Si dice che da principio, l’eroico esploratore avesse dato l’ordine al suo equipaggio di picconare faticosamente con i propri attrezzi di pietra le relativamente friabili rocce calcaree, intagliandole nella forma di grossi pesci scolpiti. Ma quando si scoprì, inevitabilmente, come tale approccio comportasse una difficoltà di trasporto assolutamente non trascurabile, si passò all’attuale forma circolare di un disco forato al centro, predisposto per il sollevamento collettivo mediante l’impiego di un semplice tronco fatto passare al suo interno. Nonostante questo, il processo di acquisizione di simili pietre restò sempre estremamente complesso a causa del peso nonché potenzialmente pericoloso, necessitando anche il viaggio per mare lungo un percorso di 457 Km e la contrattazione diretta con le tribù estranee dell’isola di Palau. Così che una volta riportate in patria, le pietre denominate Rai venivano tenute in altissima considerazione, soprattutto se portate fin lì dall’opera di un famoso marinaio, o se qualcuno aveva perso la vita durante la missione per andarle a prendere oltre le onde dell’oceano più familiare. Ciò detto, il loro spostamento rimaneva possibile solamente in presenza di simili figure d’aggregazione, comportando lo sforzo collettivo dei membri di una o più tribù. Una volta che le pietre iniziavano a cambiare di proprietà più e più volte, a seguito di matrimoni, accordi tra i villaggi per la proprietà delle terre, acquisizione di cibo addizionale nei periodi di magra, spostarle di continuo diventò ben presto impossibile. Così che tutto ciò che rimase da fare, fu istituire un sistema secondo cui se una Rai veniva data in pagamento, tutti dovessero saperlo, sottoscrivendo implicitamente l’effettiva esistenza di detta transazione. Senza il benché minimo proposito d’errore. Questo perché a differenza di un registro scritto, la memoria collettiva non può essere modificata. E se pure qualcuno avesse l’iniziativa di mettersi a raccontare fandonie per avvantaggiare se stesso, ci sarebbero tutti gli altri pronti a smentirlo e punire la sua sciocca arroganza…

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