L’insetto che tiene in scacco la penisola italiana

Ci sono animali la cui semplice vista, attraverso il corso della Storia, ha lasciato presagire il grave destino di coloro che li stavano incontrando per la prima volta. Sono creature generalmente impressionanti, come i leggendari elefanti di Annibale, condotti oltre le Alpi assieme a un esercito nella speranza di condannare l’Impero Romano. Ma forse gli invasori più pericolosi risultano essere, piuttosto, quelli che non riconosci da subito. Esseri piccoli, persino invisibili, alla maniera dei germi del raffreddore comune, che distrussero in maniera molto più certa e rapida alcune delle maggiori civiltà pre-colombiane. Mentre a volte, caso vuole che si verifichi l’eventualità intermedia. L’assalto di un qualcosa di piccolo ma non piccolissimo. Rischio palese ma non evidente. Momento in cui diventa niente meno che fondamentale, fidarsi della capacità di osservazione e la conoscenza pregressa di chi riesce, per primo, a presentare al mondo l’idea.
Ogni catastrofe inizia con delle avvisaglie preliminari e nell’era di Internet, queste possono concretizzarsi in una singola foto postata su un forum di discussione. Di un coleottero grazioso e per nulla inquietante, all’apparenza: 10 mm di scarabeo color bronzo/rame, con dodici ciuffetti di peli bianchi che punteggiano il suo profilo. Una forma tozza e piuttosto compatta, tranne che per la testa preminente che sormonta il torace, all’interno della quale sono parzialmente ritratte le antenne durante il riposo sopra una foglia. La mostrava ai suoi colleghi appassionati di entomologia Joannes Mikaeli, utente veterano del forum Natura Mediterraneo a luglio del 2014, con la semplice notazione di aver avvistato la piccola creatura lungo il Naviglio Vecchio nei pressi di Turbigo, in provincia di Milano, al fine di non influenzare il giudizio di coloro a cui stava chiedendo consiglio. Ma la realtà è che lui sapeva ciò dinnanzi a cui si era trovato, così come lo seppero immediatamente coloro che si trovavano dall’altro lato dello schermo. Una visione esiziale, l’artropode che porta alla condanna, il più piccolo foriero di un incipiente Apocalisse vegetale. Attorno al 1912, alcune uova di questa “insignificante” creatura furono malauguratamente importate negli Stati Uniti, si ritiene con la terra di un rizoma di giaggiolo. Il cui proprietario, esposta in vaso la pianta profumata sul suo balcone, non sapeva davvero quale danno stesse arrecando all’intera parte settentrionale del suo continente: circa 456 miliardi di dollari l’anno, all’epoca attuale, perduti nel destino d’intere piantagioni ridotte in polvere da implacabili mandibole masticatorie. Di piante come la vite, il susino, il pesco, il pero, il melo, la rosa, il rovo, il mais, il mirtillo, il pisello, la fragola, il pomodoro…. E dozzine di altre ancora. Tutto è commestibile, se sei un coleottero affamato. Ma forse bloccare una simile malefatta sul nascere non avrebbe fatto altro che rimandare l’inevitabile. Il Popilia japonica, prima o poi, sarebbe arrivato. O mamekogane, come lo chiamano nel suo paese d’origine in Estremo Oriente, dove costituisce poco più che un fastidio occasionale per gli agricoltori e i proprietari di giardini. Questo perché, nel Giappone degli insetti straordinariamente feroci, esiste un vasto ventaglio di piccoli predatori, evolutosi attraverso i secoli proprio per trarre vantaggio da questa fantastica capacità di proliferazione. Tra cui due vespe del genus Tiphia, vernalis e popilliavora, che hanno l’abitudine di scavare per deporre le loro uova sulla schiena delle larve di scarabeo, lasciando che la malefica prole  le divori prima della fine dell’estate. O la crudele mosca Istocheta aldrichi, che fa lo stesso agendo in una finestra di tempo minore, bloccando le infestazioni ancor prima che raggiungano il grado critico di diffusione. Per non parlare di svariate specie di uccelli in grado di divorare gli adulti in volo. Creature inconsapevoli, la cui opera diligente ha sempre impedito che la situazione sfuggisse di mano. Come è invece successo, volta per volta, in ogni singolo altro paese vittima nell’intero territorio globale.
L’avvistamento dell’appassionato del Web, propagato fino a chi di dovere, fu subito considerato un momento drammatico per la storia ecologica e preso sul serio dall’ente della EPPO (Organizzazione Europea e Mediterranea per la Protezione delle Piante) poiché costituiva il primo caso registrato di presenza di questo terribile distruttore sul Vecchio Continente, fatta eccezione per quanto registrato precedentemente presso le isole Azzorre. Ma il problema degli insetti è che come è noto, quando ne vedi uno è già troppo tardi. È probabile che ce ne siano già milioni… Diverse spedizioni successive, da parte di appassionati e personale qualificato nell’intero parco del Ticino, ben presto confermarono la verità. Uno dei più temuti coleotteri al mondo stava banchettando, volando e accoppiandosi sul verdeggiante territorio dell’inconsapevole Lombardia. In breve tempo ed a partire dalla rivista di settore L’Informatore Agrario, la notizia comparve sui principali giornali nazionali, mentre già si agiva per tentare di arginare la diffusione della terribile e voracissima creatura. Con la più immediata delle soluzioni: la disposizione in serie di trappole dall’alto grado di specificità…

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È possibile che il Su-30 atterri nella stiva di un cargo in volo?

Sopra i cieli della Russia, non chiedi via radio da che parte soffia il vento. Non ti preoccupi delle condizioni meteorologiche prima di cambiare rotta. Non eviti le basse pressioni, non guardi dal finestrino, non cerchi la via più sicura. Come per i 999.000 video su Internet in cui l’autista sembra avere uno strano senso d’orgoglio nel tentare il fato, accendi soltanto la telecamera sul cruscotto e… Fai quello che devi. È un’intera cultura fondata sulla risoluzione del problema, questa, in grado di produrre alcune delle figure tecniche più capaci del mondo. Ma anche persone che sono, per usare un eufemismo, poco inclini a rispettare il concetto di un codice comportamentale fondato su procedure di sicurezza dettate dal senso comune. L’aspetto più assurdo della faccenda qui mostrata dal misterioso canale di Ruslan Kristallovich, in effetti, non sembra provenire da uno show aereo, non è un’esercitazione estrema, né un prodotto dell’industria cinematografica del più grande paese al mondo. Quanto piuttosto uno di quei momenti in cui il pilota di un velivolo dal costo di circa 30-35 milioni di euro prende una posizione che potremmo definire alla Mario Kart, per finalità che esulano largamente dalla nostra percezione di una più logica e comprensibile realtà. Il luogo è incerto. Il contesto, non ne parliamo. Ma il susseguirsi di eventi non potrebbe essere più chiaro di così: siamo all’interno della stiva di un aereo da trasporto, molto probabilmente l’Ilyushin Il-76 da 46,5 metri di lunghezza, usato ormai da quasi cinque decadi per trasportare rifornimenti militari fino ad alcune delle zone più isolate dell’Eurasia, spesso in località prive di aeroporti sufficientemente grandi da permettere il suo ponderoso atterraggio. Ragione per cui è stato dotato di un portellone sul retro, dal quale gli avieri sono chiamati, volta per volta, a spingere fuori gli oggetti al centro della loro missione. In un primo momento, la situazione ha un solo personaggio: l’addetto allo scarico vestito con caratteristica maglietta a righe, niente meno che la telyshanka resa celebre a suo tempo dagli Specnaz, le leggendarie truppe speciali dell’ex-Unione Sovietica sul genere dei Berretti Verdi o del SAS britannico. Individuo talmente duro, costui, da non essersi dotato di alcun tipo di cavo di sicurezza, mentre si avvicina vertiginosamente al baratro per sganciare dei grandi pacchi di quelle che potrebbero essere munizioni, provviste… Scatole trascinate fuori dall’inerzia, una dopo l’altra, mentre il cavo di apertura automatica del paracadute svolge ogni volta il suo dovere agitandosi nel vento come una vipera tra l’erba della Siberia. “Nient’altro”, dunque, che una rischiosa operazione militare e la soddisfazione di un lavoro ben fatto, giusto? Se non che, giusto nell’attimo in cui si è conclusa l’operazione, qualcosa sembra entrare nell’inquadratura dal fondo della finestra offerta dal portellone dell’Il-76. Come due sciabole affiancate, le orecchie di un bianconiglio, subito seguite da una calotta semicircolare ed un gran paio di braccia aperte, cariche di missili aria-terra ed altri doni di Natale. A pochi metri di distanza. A circa un miglio di altitudine. A 600-700 Km/h di velocità. Se non fosse impossibile, diremmo proprio che si tratta di un Sukhoi Su-30, l’aereo ribattezzato dai paesi del patto NATO con l’appellativo di Flanker-C. Se non fosse…
Ma poi ci ricordiamo che si, siamo in Russia. Ed allora tutto è possibile! Siamo così di fronte, probabilmente, ad uno degli aerei di scorta dell’aerotrasporto, inviati a proteggerlo dal pericolo di intercettazioni, che si prende qualche attimo di svago a spese dei suoi commilitoni. Forse c’era di mezzo una scommessa. Magari, persino un sorso o due di vodka. La precisione dinamica con cui il grosso caccia multiruolo (14 metri di apertura alare) riesce ad avvicinarsi e quasi a toccare l’altro aereo, mentre le sue superfici di controllo lo equilibrano grazie al sistema computerizzato fly-by-wire, solleva ad ogni modo una serie di interrogativi piuttosto interessanti. Il primo fra tutti, in effetti, potrebbe dirsi il seguente: ma quanto diamine è manovrabile, effettivamente, il Sukhoi Su-30?

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Londra: l’enclave brutalista e il sogno della città futura

Un’intera tavolata di funzionari, politici locali ingegneri ed architetti, oltre ai capi dei pompieri e della polizia, gli aldermanni, i direttori dei comitati costituiti dai diversi quartieri della città. E a capotavola, con atteggiamento compunto, niente meno che il Principe del Galles, Carlo d’Inghilterra. L’anno è il 1987, l’occasione: una cena della Corporation of London presso il palazzo reale di Hampton, organizzata per presentare la medaglia d’oro all’architetto indiano Charles Correa. Inaspettatamente, la conversazione devia verso un argomento piuttosto delicato. In un’espressione accalorata dal tenore non propriamente British, l’eterno erede al trono pronuncia una frase destinata a restare negli annali: “Bisogna ammettere una cosa in merito alla Luftwaffe. Quando ha bombardato i nostri palazzi, almeno non li ha rimpiazzati con niente di più offensivo che un cumulo di macerie.” Risate nervose, un lungo silenzio. Lo sguardo di lui diretto con sicurezza a nord-ovest, attraverso la finestra, dove attraverso il complicato skyline cittadino, si scorgono appena tre torri. I loro nomi? Cromwell, Shakespeare e Lauderdale. Per molti, parte di un incubo di cemento che getta la propria ombra sui londoners senza colpa. Per alcuni, tra cui la stessa regina Elisabetta: “Uno dei miracoli più significativi dell’epoca moderna.” Che differenza. Del resto, la chiave interpretativa non può che essere differente, per l’unico capo di stato ancora in vita che quella guerra l’ha vissuta in prima persona, arrivando a servire come autista e meccanico nel Corpo Ausiliario delle Donne Volontarie, ottenendo ovviamente il rango di comandante onoraria nel giro di poche settimane. Lei, tuttavia, c’era. E quando quei palazzi sono risorti dalle ceneri di una delle epoche più cupe nell’intera storia del Regno Unito, deve certamente averli interpretati come un segno di cosa potesse riuscire a fare il popolo inglese, quando gli riesce di mettere da parte le sue differenze. Furono il frutto di un grande concorso pubblico, questi palazzi e il loro intero quartiere, che vide l’assegnazione, a partire dagli anni ’60, della riqualificazione della zona allo studio di giovani architetti Chamberlin, Powell and Bon, già famosi per aver costruito il complesso di case popolari di Golden Lane. I quali, in quegli anni di boom economico, erano fermamente intenzionati a rivoluzionare il concetto di vita urbana, attraverso una serie di soluzioni che non avevano mai trovato precedente applicazione sull’isola di Robin Hood.
Così sorse The Barbican, l’utopia. E al tempo stesso una distopia, apparentemente fuoriuscita dai romanzi di fantascienza sul più oscuro destino dell’umanità. 140.000 mq, occupanti la zona dove ai tempi antichi sorgeva un forte romano presso il fiume Tamigi, nel pieno centro della città. Costruito sui resti dei bombardamenti tedeschi secondo i crismi estetici del modernismo dell’architetto svizzero Le Corbusier, da cui i tre londinesi dissero di aver tratto la loro principale ispirazione. Ma attraverso una lente che guardava ancora più avanti, quella della corrente cosiddetta (non senza una certa carica denigratoria) del brutalismo architettonico, che non venne mai formalizzata con un suo fondatore, manifesto o precise misurazioni operative. Certo: nessuno voleva averci a che fare, ufficialmente. Ma che vide spuntare i suoi formali e rigidi prodotti qui e là in Europa, negli Stati Uniti e soprattutto all’interno dell’Unione Sovietica, dove diede i natali alla più grande parte dei monumenti e delle strutture sanzionate dal partito. Finendo per diventare, irrimediabilmente, uno dei simboli di quest’epoca e quelle immediatamente a venire. Certo a guardarli oggi, i tre grattacieli inclusi nel progetto fanno una certa impressione. Parallelepipedi di 42 piani, completamente grigi e privi di tratti distintivi, circondati da un intero complesso di 13 palazzine residenziali rese lievemente più slanciate unicamente dal modulo dei semicerchi bianchi, che si ripete lungo l’intero confine superiore delle facciate-muro. Perché in effetti, è di questo che si tratta: una vero e proprio castello, come suggerisce anche il suo nome (il barbacane fu, tra le alte cose, una fortificazione medievale) nettamente separato da ciò che lo circonda. Nessun segno del traffico o il vociare costante della città di Londra. È un luogo stranamente silenzioso dove le automobili non possono accedere, abitato principalmente da tecnici e artisti benestanti, che occupano in solitario l’infinità quantità di appartamenti, piuttosto piccoli e costosi per il tenore di vita dell’epoca contemporanea. Le finestre interne si affacciano su piazze verdi, i cui sentieri di accesso sono volutamente poco visibili dalle strade esterne. E strutture comuni come una grande serra, un museo e una libreria permettono, per lo meno in linea di principio ai suoi residenti di godersi la vita senza mai dover uscire da questa zona privilegiata e distinta. Senza dover entrare troppo nei particolari, tuttavia, sarà il caso di sottolineare che non fu sempre così…

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Ottime nuove: il kiwi non è più a rischio di estinzione

Con l’ampia risonanza mediatica data all’inserimento della pizza napoletana tra i patrimoni dell’umanità da parte dell’UNESCO, l’opinione internazionale si è scordata, giusto in questi giorni, dell’aggiornamento pubblicato da un altro importante catalogo dei beni di questo mondo, la lista rossa della IUCN (International Union for the Conservation of Nature). “Che c’è di nuovo?” Direbbe qualcuno, dopo intere generazioni trascorse dai politici, le aziende, i capi popolo di vario tipo, nel continuare indisturbati con il loro sfruttamento inarrestabile di quanto la Natura ha fatto il possibile per far giungere fino a noi. Sono tuttavia convinto che questa volta, a un qualche punto della filiera multimediale, ci si debba essere scordati di cosa piace di più al pubblico. La ragione è diversamente dal solito, sembra che qualcosa stia andando per il verso giusto. Ovvero se riuscite a crederci, pare che il kiwi neozelandese, il più popolare tra tutti gli uccelli preistorici ancora in vita, sia finalmente salvo. O per meglio dire, sono state tolte dalla parte più allarmante della graduatoria, spostandole in quella con denominazione “vulnerabile”, due delle cinque specie esistenti, l’Apteryx mantelli o kiwi marrone dell’Isola del Nord, variante più comune e diffusa dell’uccello con i suoi circa 35.000 esemplari, ed alquanto incredibilmente proprio l’Apteryx rowi (kiwi di Okarito), il più raro di  tutti quanti. Un animale di cui esistono, attualmente, appena 400-450 esemplari. Ma del quale fino a qualche tempo fa, ovvero al censo del 1995, potevamo contarne appena 160, dato da cui appare evidente una significativa inversione del trend negativo precedente. La conservazione degli animali, dopo tutto, funziona in questo modo. Ciò che conta non è tanto il numero, quanto la protezione. E in questo nessuno potrebbe negare che i diversi popoli della Nuova Zelanda, nell’ultimo paio di decenni, abbiano fatto davvero un ottimo lavoro.
Nient’altro sarebbe bastato, del resto: il kiwi è quell’uccello privo della capacità di volare, della grandezza di un pollo ma più simile a una palla di pelo con due forti zampe ed un becco appuntito, che semplicemente non sviluppò mai particolari difese da alcuni dei predatori più voraci di questa Terra: i rapidi e voraci mammiferi. Questo perché, in origine, nell’intero arcipelago da lui abitato, non ve n’erano che due specie, entrambi appartenenti alla genìa dei pipistrelli. Nessuno, insomma, a cui potesse venire in mente di disturbarlo. Finché circa 700 anni fa, arrivò l’uomo. In un primo momento non andò troppo male: certo, le popolazioni polinesiane da cui sarebbe derivata l’etnia dei moderni Māori avevano l’abitudine di mangiare il kiwi, ed utilizzavano le sue piume per assemblare i propri mantelli cerimoniali. Ma lo consideravano anche sacro a Tāne Mahuta, il dio delle foreste, della bellezza e degli uccelli, tanto che non si sarebbero mai sognati di fare alcunché di cacciare eccessivamente la piccola e indifesa creatura. Se non che a bordo delle loro grandi canoe e poi dopo sulle navi dei coloni occidentali, una generazione di seguito all’altra, arrivava anche qualcosa di molto diverso ed assai più pericoloso. Erano cani, gatti e mustelidi di vario tipo, vedi il furetto, la donnola e l’ermellino. Animali a volte addomesticati, altre più rare dei semplici clandestini, che per un motivo o per l’altro iniziarono a calcare la terra del Nuovissimo Mondo. E fu questo, un disastro ecologico completamente privo di precedenti. Poiché a simili creature, senz’ombra di dubbio, sembrò di aver trovato il Paradiso. Immaginate voi, per un carnivoro, l’esperienza di un luogo in cui semplicemente nessuna creatura sia preparata a difendersi dalle sue battute di caccia. L’intera Nuova Zelanda, per questi incolpevoli ma spietati animali, era praticamente un supermercato a cielo aperto. Ma del tipo che non poteva, purtroppo, rifornire i suoi scaffali con sufficiente rapidità.
La popolazione di tutte e cinque le specie di kiwi, dunque, è in significativo calo da un periodo di almeno cinque secoli, con l’apice raggiunto negli ultimi 80 anni, durante i quali si è passati da 5 milioni di uccelli ad appena 50.000-60.000, di cui una frazione ancora minore si trova nel periodo cruciale dell’età riproduttiva. Come per molte altri animali in via d’estinzione, in effetti, ci troviamo di fronte a una creatura che raggiunge la maturità sessuale tardi, attorno ai 3-5 anni di età, e che sono per lo più univoltini, ovvero depongono un solo uovo a stagione e conseguentemente, nel corso di un intero anno. Con una sola eccezione, in effetti: proprio quella del rowi, una delle due specie di recente sottratte al baratro dell’estinzione. Che per una sua predisposizione biologica, può arrivare anche a deporne fino a tre in altrettanti nidi diversi, mostrando una promiscuità del tutto insolita per questi uccelli, che si accoppiano generalmente con un solo maschio per tutta la vita.  Questo è anche l’uccello che, influenzato dal particolare approccio scelto dall’uomo per preservarlo, ha imparato a vivere fuori dal gruppo familiare fin dalla tenera età, andando in cerca di un partner per procreare con largo anticipo rispetto ai suoi predecessori. Ciò in funzione di una singola, specifica ragione: l’Operazione denominata Nest Egg

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