Il modo più incredibile di pilotare un modellino d’aereo

La mosca preistorica ronzava con insistenza sulla testa degli spettatori: “Buzz, buzz, buzz. Buzz, Buzz, Buzz” mentre soavemente persa nella propria melodia, compìva evoluzioni non richieste e niente affatto necessarie. Per prima cosa, sfiorò il soffitto con le zampe, nel corso di un giro della morte che l’avrebbe condotta a un millimetro dalle mie pupille semi-addormentate. Quindi con un giro parabolico, avrebbe avvicinato prima l’orecchio destro, quindi il sinistro, creando l’eco artificiale di quel suono fastidioso, per poi posarsi per un attimo vicino a un paio di labbra ben chiuse, nel superamento di ogni senso residuo d’igiene. “Per ciò che hai fatto, dovrai morire” Pronunciai con voce chiara, improvvisamente sveglio e operativo mentre impugnavo la paletta lunga e flessibile, retaggio del mio antico clan. Ma proprio mentre l’aria cominciava a sibilare per i miei fendenti e mentre il tragitto dell’insetto pareva farsi più frenetico di conseguenza, il vento cambiò direzione, trasportando i ritmi di una musica distante. Il prodotto di una sinfonia orchestrale, unito ai ritmi sincopati della musica moderna. Parole infuse di un’aleatoria poesia. Fu allora, che mi resi conto che il dittero non era lì soltanto per infastidirmi. Egli stava, mio malgrado, danzando. Esiste un modo meno che evidente, l’unico possibile su questa Terra, per superare l’istinto omicida ed imparare ad amare il volatore nero dei cieli atmosfericamente vari: stringere qualcosa in pugno come un joystick, e fare finta di esser noi coi nostri gesti, a comandare gli spostamenti della mosca. Ci sono persone, che di questa prassi hanno deciso di farne un’arte. E talmente a lungo l’hanno praticata, che sono riusciti a sostituire il piccolo animale con un grosso aeroplano di polistirolo. Dal peso, non a caso, straordinariamente leggero…
Non è particolarmente intuitiva la nomenclatura adottata su scala globale dalla francese Fédération Aéronautique Internationale, ente preposto alla regolamentazione e l’organizzazione di ogni forma di competizione tra modellini radiocomandati, basata essenzialmente su una successione di una lettera, un numero e una lettera. La prima delle quali è sempre F, seguita da un numero e l’identificativo della disciplina: F1A è il volo libero con gli alianti, ad esempio. F2D il combattimento. Ed F3P, che voi vogliate crederci o meno, l’esecuzione di acrobazie al chiuso con modelli molto speciali in polistirolo, generalmente forniti di minuscolo motore elettrico, doppia elica contro-rotativa e caratteristiche di manovrabilità decisamente al di sopra della media. Che tutto possono fare, tranne resistere alla forza trasversale del vento. All’interno di questo vero e proprio sport, oggetto di prestigiose competizioni e facente parte della vera e propria “Olimpiade” quadriennale del modellismo dei World Air Games, esiste quindi una forma espressiva addirittura più eclettica, identificata dai due caratteri aggiuntivi AM, ovvero, Aero Musical. Una connessione piuttosto intuitiva, a pensarci bene, eppure ci sarebbe voluto fino al 2013 perché a qualcuno venisse in mente di scriverne le regole facendola oggetto di pratica da parte dei più abili piloti, perennemente in cerca di nuove sfide. A osservarne il risultato, direi che ne è certamente valsa la pena: il protagonista del video è niente meno che Donatas Pauzuolis, praticante Lituano già vincitore nella categoria acrobatica indoor al termine dei WAG 2009, tenutosi presso l’Aero Club di Torino. Qui alle prese, nel 2016 durante una gara a Leipzig, con l’espressione più artistica del gesto tecnologico di controllare la maxi-mosca robotizzata. È una visione inaspettata per i non iniziati, che colpisce immediatamente su due livelli: in primo luogo, quello relativo all’abilità dimostrata da questo pilota eccezionale. E secondariamente, per la lampante quanto improvvisa cognizione che dopo tutto, anche gli aeroplani possono danzare. Sulle note di un medley eterogeneo e attentamente selezionato, valido ad accompagnare e sottolineare le movenze strane ed impossibili dell’aeromobile in miniatura…

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L’inaspettata indole guerriera del tapiro della Malesia

Per la terza volta, il piccolo Ryusei gridò all’indirizzo della sua finestra “Oh potente Baku-san, scaturisci dalle tenebre e divora il mio incubo!” Come trascinato dalla strana forza che appartiene alle regioni esterne del dormiveglia, il bambino si alzò quindi a metà dal letto, con gli occhi spalancati dal terrore: mostri indefiniti circondavano la sua coscienza, ai margini di un campo visivo immaginario generato dalla somma totale delle esperienze spiacevoli di una giornata. Mentre lui, impreparato al centro di un’aula fiammeggiante, doveva ripetere la lezione delle vacanze alla maestra di storia inviperita. Fu in quel preciso attimo che un suono roboante sembrò penetrare dallo spazio tra gli stipiti e la persiana, erroneamente chiusa in questo inizio settembre ancora caldo quanto i mesi più torridi dell’estate. Quindi un’ampia e cupa forma iniziò a penetrare attraverso la materia solida, avvolta da una luce azzurrina sovrannaturale. Aveva un’enorme testa simile a quella di un maiale, col corpo di orso, occhi da rinoceronte e zampe di tigre, mentre il pelo ispido ed irsuto pareva assomigliare a quello di una capra. Mano a mano che l’imponente creatura penetrava all’interno della piccola stanza, l’angoscia pareva in qualche modo attenuarsi. Ryusei comprese allora che non avrebbe potuto muoversi di un solo millimetro, semplicemente perché, suo malgrado, stava ancora dormendo. A quel punto un’arto a forma di tubo parve muoversi ai margini della sagoma che non riusciva totalmente a definire. “Accidenti!” Sarebbe stata l’esclamazione del bambino, se soltanto la sua lingua avesse potuto muoversi: “Che lunga proboscide che hai, Baku-san.” È per succhiare meglio, avrebbe risposto lui. Mentre l’appendice aliena si estendeva con un movimento indefinibile, ricoprendogli la faccia di amorevole calore e un bicchiere abbondante d’umida saliva…
Non è davvero chiaro, persino per gli storici più informati, in quali esatte circostanze la civiltà giapponese dell’epoca Muromachi (XIV-XV secolo) abbia avuto modo di entrare in contatto con una creatura tipica delle foreste pluviali e distante geograficamente come il tapiro, usata come ispirazione estetica per uno dei suoi yōkai (mostri notturni) più popolari nel mondo dell’immaginario moderno non-del-tutto-globalizzato: Baku il divoratore di sogni. Sappiamo tuttavia almeno per inferenza, che la specie in questione doveva necessariamente essere il Tapirus Indicus o tapiro dalla gualdrappa, anche detto “della Malesia” in funzione del suo paese di provenienza. La ragione di ciò è da ricercarsi nella stessa distribuzione delle cinque specie rimaste di questa antichissima creatura, quattro delle quali si trovano nelle giungle del continente agli antipodi dell’America Meridionale. Eppure nessuno, nel catalogare le caratteristiche estremamente distintive della versione asiatica, potrebbe mai dubitare della sua appartenenza allo stesso ramo dell’albero della vita, con una quasi assoluta corrispondenza di ciclo vitale, caratteristiche fisiche e abitudini comportamentali. Inclusa un’innata e spesso sottovalutata propensione, nel caso in cui venga minacciato dai suoi nemici naturali della tigre, il leopardo o il giaguaro, a difendersi strenuamente con la sua forza simile a quella di un cinghiale dal peso di 300-500 Kg, assieme a denti seghettati che normalmente, non avrebbero ragione di trovarsi nella bocca di un “pacifico” divoratore quotidiano di verdura. Tanto che, data la sua predisposizione territoriale paragonabile a quella di un ippopotamo, più di una madre tapiro col cucciolo si è dimostrata capace d’infliggere ferite piuttosto gravi ai malcapitati umani che transitavano da quelle parti, benché fortunatamente, nessuno abbia ancora riportato le conseguenze finali. Esiste almeno un resoconto straordinariamente vivido, tuttavia, che non può fare a meno di lasciare un senso d’ansia latente e timore nell’angolo più remoto dei propri pensieri…

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Alluminio aerodinamico per l’automobile spaziale anni ’40

Quando è successo? Quando abbiamo perso ogni contatto con l’armonia stradale del vento? Basta misurare un’automobile sportiva dei nostri giorni, per trovarsi dinnanzi a ogni sorta di forma concepita per tagliare l’aria e incrementare la portanza, linee strette, angolari, forme dall’aspetto grintoso e “cattivo”. Perduta è l’antica cognizione ereditata dall’industria aerodinamica degli albori, per cui l’equilibrio delicato di peso, potenza e tenuta di strada doveva trovarsi assistito da una forma naturalmente capace di deviare l’ingombrante massa di gas respirabili che da tempo immemore compongono la nostra atmosfera. Laddove la potenza raggiungibile da un motore appare virtualmente illimitata, mentre l’impiego dei nuovi materiali compositi e la fibra di carbonio mantiene il peso delle super-macchine ben al di sotto della tonnellata, tutto quello che si chiede a un carrozziere fuori dalla logica competitiva è l’estetica prima della funzione, o al limite, una forma che non possa compromettere la portanza. E anche in quel caso, i risultati possono variare: dopo tutto, se l’F-14 Tomcat ci ha insegnato qualcosa, è che un’ala mobile da sollevare nei momenti critici (nel nostro caso, le curve) può ottenere risultati migliori di centinaia di ore trascorse ad ottimizzare i punti di fuga intrinseci di un veicolo a motore. Ma è strana la maniera in cui, proprio un simile percorso d’ottimizzazione, abbia condotto la ricerca ingegneristica verso una singola possibile conclusione. Mentre le prototipiche differenze tra le filosofie progettuali dei diversi marchi dell’automobilismo internazionale, come Porsche, Ferrari o Lamborghini, tendono progressivamente a scomparire, in favore di una visione dell’automobile “ideale” che non può che diventare al tempo stesso, proprio per questo, inerentemente anonima e “banale”.
Guardando indietro, c’è stato un tempo e un luogo in cui la tecnica dello streamlining sembrava dominare sopra ogni altra concezione della carrozzeria automobilistica, collocato essenzialmente negli Stati Uniti della metà degli anni ’30. Quando il successo ottenuto dalle macchine volanti dopo il termine della grande guerra, unito al desiderio di conservare carburante vista l’incombenza della più grande crisi finanziaria fin lì conosciuta dalla civiltà industriale, aveva trasformato i carrozzieri in vere e proprie star dell’industria veicolare, spesso ricercati ancor più degli ingegneri che dovevano occuparsi di progettare il motore. Riguardando alle automobili di lusso americane in quegli anni, destinate a lasciare un segno indelebile nello stile e l’estetica di tutto il continente, è impossibile non notare l’elevata quantità di cofani bombati, pinne verticali, parti posteriori che si allungano come la coda di una rondine e appariscenti parafanghi sopra ciascuna ruota, simili a ornamenti di un elmo egizio della Prima o Seconda Dinastia. Giunse quindi sul terreno sacro d’Indianapolis, la grande pista di mattoni presso cui era stato riprodotto per questi lidi, soltanto due decadi prima, il concetto stesso di competizione motoristica sul modello europeo, il meccanico di discendenza tedesca Fred H. Offenhauser Jr, col suo concetto di un propulsore destinato al soprannome di “Offy”. La cui potenza precedentemente ritenuta irraggiungibile (fino a 420 cavalli nei modelli da competizione) avrebbe cambiato, in maniera pressoché totale, le regole stesse di questo folle ed entusiasmante gioco.
Anno 1939: le ambizioni espansionistiche dei maggiori regimi europei raggiungono lo stato di criticità lungamente temuto, incendiando il mondo in una mezza decade di follia collettiva, che sarebbe costata la vita a letterali milioni di persone. L’attività soddisfacente delle gare a motori subisce un sostanziale arresto, subordinato alle esigenze ingegneristiche e di materiali dell’economia continuativa di guerra. Persino nei possenti Stati Uniti, dopo l’attacco fulmineo di Pearl Harbor, la prestigiosa corsa di Indianapolis 500 subisce uno stato di totale arresto, destinato a durare fino al 1945. Il mondo che riemerge dal profondo caos appare quindi totalmente cambiato, persino nel suo rapporto con il ruolo che si era disposti ad assegnare alla natura stessa. Un qualcosa che certamente seppe interpretare e comprendere Lewis Henry ‘Lou’ Moore, l’ex-pilota californiano d’adozione tra le due guerre, che a partire dal 1936 aveva trasferito i suoi interessi nella gestione di quello che avrebbe potuto definirsi il concetto ante-litteram di una scuderia di gara. Strettamente interconnesso, come ogni altra figura dell’automobilismo contestuale, all’impiego fruttuoso dei possenti motori Offenhauser, ma con una letterale marcia in più: l’aiuto del carrozziere ed amico di vecchia data Emil Diedt, una figura il cui cognome, se fosse stato dal giusto lato dell’Atlantico, sarebbe forse diventato celebre come Giugiaro, Pininfarina o Bertone. Ora in questo articolo non parleremo delle due celebri Blue Crown Spark Plug, i fulmini della pista a forma di sigaro che nel 1947 e ’48 ottennero per due volte di seguito, per la prima volta nella storia, il primo e secondo posto della leggendaria Indy 500, al volante rispettivamente di Mauri Rose e Bill Holland. Né degli speciali accorgimenti impiegati da Diedt, che avevano incluso miglioramenti alla linea aerodinamica e un più ampio uso dell’alluminio nei loro bolidi color cobalto, esteso per la prima volta anche ai serbatoi della benzina e dell’olio. Bensì dal comparabilmente meno celebre, per quanto straordinario a vedersi, volo pindarico compiuto da quest’ultimo, nella sua impresa di carriera immediatamente successiva, per la produzione di un’innovativa hot rod (automobile fuoriserie fortemente personalizzata) commissionata dall’ingegnere aeronautico Norman Timbs.

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Le tre volte in cui tacquero le cascate del Niagara

Il silenzio può essere assordante, a volte, in determinati luoghi, quando la stessa cessazione del rumore è una situazione incoerente con lo stato dei fatti che sussiste da generazioni. E il ritorno alla quiete primordiale simboleggia la perdita stessa di ogni punto di riferimento generazionale. Immaginate ora di vivere in luogo presso cui il frastuono rappresenta lo stato dei fatti naturali e il cui nome stesso, si richiama alla meraviglia naturale maggiormente cacofonica della nazione. E una mattina diversa da ogni altra di svegliarvi, con vostro sommo stupore, mentre il canto degli uccelli distanti risuona tra le valli dello stato verdeggiante di New York. È quello che successe, secondo gli articoli dell’epoca, agli abitanti di Niagara Falls il 31 marzo del 1848. Un giorno del calendario, questo, che potrebbe suscitare non pochi sospetti, vista l’abitudine odierna dei cosiddetti pesce d’Aprile. Ma è difficile inventarsi qualcosa di simile! Creare una cospirazione capace di sopravvivere alla narrazione asincrona di un intero popolo rimasto, anch’esso, del tutto privo di parole? Molto più probabile è che tutto ciò sia veramente successo; per quanto incredibile possa apparire.
Una diga naturale di ghiaccio. Formatasi presso l’imbocco del lago Erie all’inizio del fiume omonimo, che normalmente agisce come solo punto di collegamento con quello dell’Ontario, estremità orientale del più imponente sistema idrico nordamericano (e uno dei maggiori al mondo). Frutto, niente meno, che della grande glaciazione del Wisconsin, l’ultima Era Glaciale del pianeta, in una casistica che allude in modo chiaro all’elevata latitudine, e temperature conseguenti, di un luogo in cui può succedere persino questo. Fu un caso prevedibilmente epocale in grado di durare ben 40 ore a partire dalla notte del 30 marzo, lasciando una memoria indelebile nelle menti di chiunque abbia assistito sia stato in qualche modo coinvolto. Le acciaierie e i mulini che erano stati costruiti nel corso dell’intero secolo dell’industria, per sfruttare l’enorme energia potenziale delle cascate, non poterono far altro che bloccare le proprie operazioni, lasciando gli impiegati liberi di andare a vedere coi propri occhi l’irripetibile fenomeno. Soltanto due piccoli rivoli d’acqua restavano al posto della formidabile cateratta, rispettivamente situati in corrispondenza delle Horseshoe e delle American Falls. Il fiume a nord appariva poco più di un torrente al centro del vasto solco scavato attraverso la cuesta, mentre pesci e tartarughe si agitavano privi di forze, nel vano tentativo di tornare a nuotare nel grande corso. In breve tempo, iniziarono gli sforzi organizzati per trarre vantaggio della situazione. I marinai della Maid of the Mist, storico battello panoramico locale, s’inoltrarono nel teatro improvvisamente silenzioso del loro principale metodo di sostentamento, per far saltare con la dinamite alcune rocce che costituivano da tempo un pericolo durante le escursioni. La gente della città discese a valle e si recò a esplorare il letto del fiume, a quanto pare ritrovando una quantità inusitata di fossili, cimeli della guerra civile e manufatti delle antiche civiltà native americane. Una squadra del locale reggimento della Cavalleria, non potendo resistere all’occasione, inscenò una piccola parata procedendo al trotto in corrispondenza delle rapide normalmente letali. Col procedere della giornata, dunque, le persone iniziarono progressivamente a rendersi conto del pericolo, tanto che verso sera quasi nessuno sembrava ancora disposto a prendersi gioco della natura verso il sopraggiungere del vespro. Il che fu certamente un bene, perché l’innalzarsi delle temperature e il cambiamento della direzione dei venti, come previsto dagli addetti ai lavori, aveva indebolito la diga glaciale del lago Erie, al punto che l’inevitabile cedimento ebbe modo di verificarsi la notte del 31 marzo. Costituendo, a quanto pare, un altro spettacolo terrificante, con un roboante boato seguito dall’ondata di piena dell’acqua furente, finalmente libera di seguire la strada naturale del mondo, facendosi strada verso il luogo che il destino gli aveva riservato di occupare.
In molti, credettero che quello fosse uno spettacolo unico, destinato a restare privo di repliche a memoria d’uomo. E in un certo senso avevano ragione: ad oggi l’innalzamento medio delle temperature, dovuto al riscaldamento globale, rendono assai improbabile il verificarsi spontaneo di qualcosa di simile per la seconda volta. Detto questo, la mano iper-tecnologica dell’uomo potrebbe facilmente replicare l’evento in qualsiasi punto definito della storia. E in un paio di casi almeno, ci è andato davvero molto vicino…

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