I siti Internet di ogni popolarità sono sempre veloci a dare corso alle ultime notizie strane, fatti curiosi o in qualche maniera intriganti che vengono diffusi dai notiziari di ogni parte del mondo. In modo particolare quando si tratta di storie che soddisfano, in qualche maniera, il nostro innato desiderio di simmetria. Così è successo l’altro giorno, a partire da alcuni post su Twitter, che online è iniziata a rimbalzare la voce secondo cui sull’isola di Hawaii, infuocata a partire dal 3 maggio da uno dei più lunghi eventi di effusione lavica a memoria d’uomo, si starebbe verificando uno strano fenomeno: dal cielo e senza alcun preavviso, sotto le fosche nubi di cenere mista a condensa, occasionalmente verrebbero giù dei ciottoli. E fin qui niente di (particolarmente) strano, visto che ci troviamo al cospetto della collera stessa del sottosuolo. Ma ad un’analisi più approfondita, le pietruzze in questione si rivelerebbero per ciò che realmente sono: pietre dure di un color verde traslucido straordinariamente attraente, del tipo che occasionalmente viene usato per gli orecchini, collane o altri ornamenti della persona. Di certo il peridoto, nome del minerale in questione quando sufficientemente puro e pregiato da trovare posto in gioielleria, non è un materiale particolarmente prezioso. Si tratta, dopo tutto, di una delle sostanze più comuni in corrispondenza della discontinuità di Mohorovičić, il punto, tra i 410 e i 660 Km di profondità, in cui la crosta superiore del pianeta lascia il posto agli strati inferiori dei suoi elementi costituenti. La dove tale pietra, che in condizioni normali si chiama olivina, si trova in quantità talmente elevate da far pensare ai verdi pascoli dei territori di superficie. Resta comunque notevole pensare a questo popolo, la gente delle Hawaii, sottoposta da mesi alla tortura di vedere i propri spazi e le proprie abitazioni ricoperte di lava incandescente, che in qualche maniera trovano un “premio di consolazione” nel dono rigurgitato di un qualcosa che, per lo meno, potrebbe costituire un gradevole souvenir.
Eppure, il dubbio è lecito. Persino doveroso, giusto? Talune notizie risultano essere semplicemente TROPPO conturbanti perché qualcuno, tra il popolo affamato dei publisher, non stia tentando quanto meno di ricavarne un numero superiore di click. L’avidità è nella natura stessa delle persone. Sia in materia di popolarità che soprattutto, quando si tratta di far visita ad una delle isole più affascinanti dal punto di vista naturale, setaccio alla mano, con gli occhi rivolti verso l’alto in cerca di un’ineffabile tesoro. Affinché una nuova generazione di cercatori ritardi la propria invasione in questo periodo critico, intralciando le operazioni di soccorso e recupero delle zone colpite dalla lava, credo sia opportuno restituire le giuste proporzioni a questa notizia. Si, qualcuno sull’isola la settimana scorsa ha rinvenuto alcuni (piccoli) cristalli, rispondenti per sommi capi ai requisiti del peridoto. E si, altre persone affermano, in maniera ragionevolmente credibile, di aver fatto lo stesso nei dintorni della zona del basso Puna, quella maggiormente affetta dalla furia di Pele, signora fiammeggiante del sottosuolo. Qualcosa di simile, del resto, potrebbe essere successo anche nei mesi e negli anni antecedenti, fino all’epoca dei nostri più remoti progenitori. Questo perché l’intero arcipelago di tali instabili roccaforti nel mezzo del Pacifico è letteralmente FATTO di olivina, dal che deriva che il suo scheletro costituente, per usare un termine di paragoni, proviene in effetti dalle regioni superiori del mantello terrestre, espulse a pressioni inimmaginabili durante gli sconvolgimenti della Preistoria. Il fatto che i bambini, scavando casualmente con la paletta, non rinvengano continuamente piccole pietruzze sfavillanti è da ricercarsi nella natura stessa di questo minerale, che normalmente compare in superficie all’interno di xenoliti, ovvero rocce inclusive magmatiche di una certa dimensione, grigiastre e prive di attrattive finché qualcuno non le rompe a metà, trovandovi dentro la gradita sorpresa di un pluralità di sassolini dalla tonalità vermiglia, più o meno trasparenti e quindi adatti all’impiego nella piccola gioielleria. E nemmeno questo è vero ovunque, vista l’esistenza di un luogo come la spiaggia di Papakolea, uno dei pochi luoghi con sabbia verde al mondo, in cui ogni singolo granulo, ciascun insignificante sassolino, è tecnicamente composto da un quantum snudato del minerale olivina. Ciò in quanto, attraverso i secoli senza fine, l’agire delle onde e delle maree ha eroso la pomice e le altre pietre vulcaniche meno compatte, per lasciare intonso il resistente cuore verde all’interno…
pietre
La casa delle pietre che sussurrano ai giapponesi
Storicamente, Minamoto no Yorimitsu fu un guerriero appartenente alla famiglia del primo shōgun del Giappone, che lo aiutò a mantenere l’ordine viaggiando per il paese e scacciando i banditi sulla punta della sua spada. Ma nella letteratura del X secolo d.C, gli fu attribuito il nome poetico di Raikō, mentre si diffondeva la sua fama di grande cacciatore di demoni e uccisore di mostri di vario tipo. Molte delle storie degli yōkai, le variegate apparizioni folkloristiche per cui oggi resta famoso il suo paese di appartenenza, sono legate in qualche misura alle sue gesta, ai suoi racconti ed a quelli dei samurai che lo accompagnarono nelle sue imprese. Una di queste leggende narra di come il giovane guerriero del clan del Drago Azzurro formalmente noto come Suetake, uno dei Quattro Re Guardiani che formarono il suo seguito più fedele, incontrò un giorno una vecchia seminuda su una strada alla periferia di Kyoto. Il lineamenti della donna erano contorti dalla tristezza e i suoi occhi apparivano stranamente fissi nel vuoto. Nelle sue braccia, si trovava un neonato di una bellezza straordinaria, che si agitava e piangeva senza una ragione apparente. Con un movimento impossibilmente veloce, d’un tratto, la strana figura si avvicinò al samurai, e gli porse il bambino in fasce passandoglielo tra le mani. Quindi, senza un singolo suono, sparì. L’uomo restò a fissare la piccola creatura pensierosamente. Passarono i lunghi minuti, quindi ore intere, mentre qualcosa di strano iniziava a fare breccia nei suoi pensieri. Il bambino stava diventando sempre più pesante! Ad un tratto, smise di piangere e la sua pelle diventò color del granito. Era diventato, a tutti gli effetti, di pietra. Suetake si appellò quindi alla sua notevole forza spirituale, che gli derivava dall’addestramento ricevuto come onmyōdō (esorcista mistico) e getto via lontano il sinistro infante. Se non l’avesse fatto, oggi possiamo affermarlo con certezza, esso si sarebbe trasformato in un macigno che inesorabilmente lo avrebbe schiacciato, trasformandolo in una pietra abbandonata sulla via.
Ciò che abbiamo riassunto fino a questo momento è la leggenda dell’Ubume, lo spirito di una donna morta di parto. Ma non tutti gli esseri legati alla pietra, secondo le storie del popolo giapponese, sono così terribili e pericolosi. Un esempio di questo potrebbero essere i jinmenseki (人面石 ovvero letteralmente, pietre col volto di una persona) innocui spiriti di un kodama (folletto della foresta) o un mitama (antenato rimasto a guidare i viventi) che si sono ritrovati legati, loro malgrado, a uno degli innumerevoli ciottoli o pietre che potrebbero costituire i soprammobili della natura. Come tutti gli esseri sovrannaturali legati ad oggetti particolarmente antichi, quindi, queste entità hanno cambiato nei secoli la forma della loro pietrosa residenza terrestre. Affinché la stessa, un poco alla volta, iniziasse ad assomigliargli in qualche strana maniera. Oggi, nessuno può realmente dire che cosa guidi l’attività di collezionismo di Shozo Hayama, la donna di Chichibu nella prefettura di Saitama che da oltre 50 anni ha ereditato la passione del padre, continuando a curare l’unico museo al mondo dedicato al fenomeno dei jinmenseki. Ma chiunque faccia il suo ingresso nell’anonimo magazzino rurale all’interno del quale ha sede il suo mondo, dopo essersi premurato di prenotare la visita anticipatamente, non potrà fare a meno di restare colpito da ciò che si troverà dinnanzi al suo sguardo. Letteralmente due migliaia, o poco meno, di sassi che ti guardano dalle mensole, dietro le vetrine, su piccoli piedistalli disposti con fantastica precisione l’uno di fianco all’altro. Ti guardano perché, come apparirà fin da subito estremamente chiaro, ciascuno di essi possiede almeno un paio di “occhi”, il requisito minimo affinché si sviluppi nell’osservatore il sentimento della pareidolia. Quell’istinto, fondamentale per l’uomo primitivo, che permetteva di riconoscere i segni rivelatori di un possibile predatore in agguato tra l’erba o nella penombra. O di credere di vederlo, per sbaglio, anche quando non si trovava per niente lì. Sono secoli, o millenni, che la cultura popolare gioca con questa tendenza intrinseca, individuando la personificazione, e quindi la capacità d’intendere, di cose che la scienza ci dice essere inanimate. Ma un conto è la mera logica delle apparenze. Tutt’altra questione, le antiche storie portate in giro dal soffio del vento…
Le tribù isolane delle monete di pietra giganti
Non scaricheresti il denaro, giusto? Sopratutto se il denaro pesasse 4 tonnellate, ed avesse un diametro di 3,6 metri assomigliando alla stereotipica ruota dei cavernicoli spesso raffigurati sulla Settimana Enigmistica. Immagina mentre rotola, fuori dallo schermo del tuo computer, sopra la tastiera e all’indirizzo di colui che ha premuto invio… Il Bitcoin, considerandolo da un certo punto di vista, è una forma di valuta molto avanzata, ma anche estremamente primitiva. Senza l’autorità di un sistema centrale, che emetta e regoli la sua diffusione, tutto ciò che resta per tracciarne i movimenti è la consapevolezza del gruppo, l’accordo comune tra individui che in circostanze normali, non si fiderebbero mai l’uno dell’altro. E tutto ciò che lo rende possibile, in una società globale di 7,5 miliardi di persone, è lo strumento di Internet, un sistema di macchine considerato, a torto o a ragione, del tutto infallibile e imparziale. Eppure ubbidiente per chi riesce a dominarlo, tramite l’approccio dell’hacking, un metodo di programmazione che opera sulle radici, piuttosto che i rami del grande albero delle transazioni. Credeteci: è già successo più di una volta, con conseguente furto ed inevitabile svalutazione, vista la pur sempre variabile fiducia della gente nei confronti delle innovazioni. E pensare… Che tutto quello che serviva per superare un simile drammatico problema, era “L’assoluta fiducia nel tuo prossimo, inclusi gli antenati e la posterità a venire!” Un qualcosa che qualsiasi società potrebbe acquisire in potenza, se soltanto può mantenersi invariata per qualche migliaio d’anni, lontana da influenze esterne e salda nel coltivare i pregi del suo specifico stile di vita. Certo è che, nel caso dell’isola di Yap, uno dei luoghi più remoti della Micronesia, ad aiutare ci abbia pensato la popolazione complessiva non propriamente spropositata, con appena 11.000 persone distribuite su una terra emersa di 308 Km quadrati, abbastanza pianeggiante e fertile da giustificare l’insediamento di una comunità dei leggendari navigatori polinesiani. Ricca di ogni risorsa tranne una: la pietra. Così che in un momento imprecisato dei secoli ormai trascorsi, tale elemento iniziò ad essere considerato estremamente prezioso. Troppo, persino, per utilizzarlo in architettura o altrove, perché utile per portare a termine diversi tipi di transazione. Benché fosse impossibile, esattamente come avviene per i Bitcoin, spostarla fisicamente dal giardino dell’acquirente a quello del venditore…
Tutto ebbe inizio, secondo una leggenda facente parte del loro corpus a trasmissione orale, con l’avventura del mitico Anasumang, una figura di capo, o grande capitano di solide canoe, che cinque o sei secoli fa intraprese, per primo da oltre un millennio, il viaggio fino all’isola di Palau. E lì vide, per la prima volta, un materiale bianco e splendente come il quarzo, in quantità tale da cambiare per sempre le regole della sua società natìa. Nient’altro che marmo. Si dice che da principio, l’eroico esploratore avesse dato l’ordine al suo equipaggio di picconare faticosamente con i propri attrezzi di pietra le relativamente friabili rocce calcaree, intagliandole nella forma di grossi pesci scolpiti. Ma quando si scoprì, inevitabilmente, come tale approccio comportasse una difficoltà di trasporto assolutamente non trascurabile, si passò all’attuale forma circolare di un disco forato al centro, predisposto per il sollevamento collettivo mediante l’impiego di un semplice tronco fatto passare al suo interno. Nonostante questo, il processo di acquisizione di simili pietre restò sempre estremamente complesso a causa del peso nonché potenzialmente pericoloso, necessitando anche il viaggio per mare lungo un percorso di 457 Km e la contrattazione diretta con le tribù estranee dell’isola di Palau. Così che una volta riportate in patria, le pietre denominate Rai venivano tenute in altissima considerazione, soprattutto se portate fin lì dall’opera di un famoso marinaio, o se qualcuno aveva perso la vita durante la missione per andarle a prendere oltre le onde dell’oceano più familiare. Ciò detto, il loro spostamento rimaneva possibile solamente in presenza di simili figure d’aggregazione, comportando lo sforzo collettivo dei membri di una o più tribù. Una volta che le pietre iniziavano a cambiare di proprietà più e più volte, a seguito di matrimoni, accordi tra i villaggi per la proprietà delle terre, acquisizione di cibo addizionale nei periodi di magra, spostarle di continuo diventò ben presto impossibile. Così che tutto ciò che rimase da fare, fu istituire un sistema secondo cui se una Rai veniva data in pagamento, tutti dovessero saperlo, sottoscrivendo implicitamente l’effettiva esistenza di detta transazione. Senza il benché minimo proposito d’errore. Questo perché a differenza di un registro scritto, la memoria collettiva non può essere modificata. E se pure qualcuno avesse l’iniziativa di mettersi a raccontare fandonie per avvantaggiare se stesso, ci sarebbero tutti gli altri pronti a smentirlo e punire la sua sciocca arroganza…
L’oscuro messaggio delle statue inuit nell’aeroporto
Quanto a lungo può restare un’opera d’arte in luogo pubblico prima che qualcuno, finalmente, capisca il suo reale significato? 10, 20, 30 anni? Nel caso dei tre uomini di pietra del Toronto Pearson, aeroporto internazionale della più popolosa città del Canada, ne sono trascorsi ben 54. E sarebbero stati ancor di più, probabilmente, se la pagina Facebook del notiziario CBC Nunavut, rivolta agli abitanti di una delle regioni più settentrionali abitate dall’uomo, non ne avesse pubblicato per caso l’ennesima foto, accompagnata dall’enigmatica domanda: “Che cosa ne pensate?” Strano, in effetti, che non si trattasse di un semplice post mirato a sollevare un collettivo orgoglio verso l’evidente apprezzamento rivolto all’identità culturale di un’etnia ormai agli sgoccioli, che faticosamente mantiene il suo legame con le antiche tradizioni, bensì un’oggettiva richiesta d’interpretazione. Che puntualmente arrivata, da parte di un’utente che ha fatto notare con tono assolutamente neutro: “Quel tipo di inukshuk indica l’orribile presagio di un luogo di morte.” Perfetto, direi, per un aeroporto. Se si ha paura di volare. Ma è altamente probabile che in effetti, tale implicazione non fosse in alcun modo desiderata in origine, per quelle che dovevano costituire semplicemente tre decorazioni etniche e un modo per onorare il “patrimonio culturale” del Canada intero. Come potrete facilmente immaginare, in patria si tratta di un tema controverso: gli Inuit furono all’epoca, e per certi versi lo sono tutt’ora, una di quelle popolazioni native a cui vennero tolte le terre dai primi coloni, in cambio di pagamenti simbolici o mere promesse, benché su una scala decisamente minore rispetto alle tribù che presero il nome inesatto di indiani. Questo per il semplice fatto che molti dei luoghi di proprietà degli Inuit si trovavano talmente a Settentrione, nel più costante gelo ed assenza di facili risorse, che l’uomo bianco semplicemente non avrebbe potuto abitarle. Resta comunque un fatto che all’epoca delle Olimpiadi Invernali di Vancouver del 2010, l’insolita mascotte Ilanaaq dalla forma visibilmente pietrosa sia stata fortemente criticata da alcune associazioni, come appropriazione indebita di un tratto culturale che non è, non potrà mai essere canadese.
La definizione di inukshuk (pronuncia inuksuk, plurale inuksuit) è in senso letterale “[Ciò che] fa le veci di un uomo” essenzialmente assolvendo ad un ventaglio di mansioni molto ampio. Questa classe di costrutti di pietre accatastate, per una metà opere d’arte e l’altra strumenti utili alla vita di tutti i giorni nella tundra glaciale dell’Artico, hanno uno scopo diverso in base alla forma scelta dal loro costruttore. Ve ne sono di dedicati a segnare il passaggio di un sentiero sicuro, oppure in luoghi da evitare a tutti i costi, mentre altri indicano l’inizio di un terreno occupato da una particolare tribù. Nella caccia alle renne, tipici ungulati della regione, gli inuksuit hanno un ruolo importante: come unica presenza che sporge dalla distesa innevata, essi spaventano gli animali, i quali per sicurezza evitano di avvicinarsi, finendo dritti nella trappola degli umani. A partire dal primo aprile 1999, quindi, uno di questi punti di riferimento è comparso sulla bandiera ufficiale del nuovo Territorio a Maggioranza Inuit del Nunavut, in rosso su campo bianco e giallo. La sua particolare e riconoscibile forma, molto diversa da quella di un tipico cairn (cumulo segnavia) degli escursionisti occidentali, è quindi diventata famosa in tutto il Canada, che ha trovato in essa un tratto distintivo, ed unico, appartenente geograficamente al suo territorio. Un importante approccio all’arduo e sempre sentito problema di differenziarsi dall’altro paese di origine europea presente nel Nordamerica, gli ingombranti Stati Uniti. E da lì è iniziato, inevitabilmente, il problema: perché per una questione apparentemente semplice, come disporre le pietre in un cumulo vagamente antropomorfo, si nascondevano in realtà i diversi significati, trasmessi per lo più attraverso la via orale, e per questo inaccessibili ai non nativi. Molti, ad esempio, hanno lamentato la stessa definizione della mascotte delle Olimpiadi con il termine di inukshuk, quando in realtà si trattava di un inunnguaq, ovvero cumulo con testa e braccia spalancate, a esprimere un messaggio di qualche tipo. Un “piccolo” dettaglio, sfuggito in qualche modo alla designer canadese Elena Rivera MacGregor. O forse l’intento commerciale di semplificare le cose. La questione dei tre innunguat (pl.) dell’aeroporto di Toronto, tuttavia, è notevolmente più ricca di possibili interpretazioni.