Fini ed eleganti, dignitosi nel loro senso di profonda ed assoluta nobiltà. Talvolta simpatici. Certe altre, o per meglio dire in certe date, addirittura spaventosi in quanto messaggeri di coloro che sono da tempo trapassati Altrove. Per interi millenni, l’umanità si è interrogata in merito a cosa possa sottintendere, esattamente, l’identità dei gatti! Sin dall’epoca dell’Antico Egitto e da lì a seguire, quando simili animali, tanto vicini e al tempo stesso distanti da noi, furono venerati come Dei, sorveglianti sovrannaturali, spiriti del tempo che trascorre senza mai cambiare il senso fondamentale dell’esistenza… Ed uno dei primi trattati a venire scritti su carta sull’argomento, giungendo in questo modo intatto fino a noi, risulta essere senz’altro il Tamra Maeo (ตำราแมว) raccolta di componimenti in versi thailandese entro cui vengono catalogati, l’uno dopo l’altro, i diciassette tipi di felini con funzione apotropaica (ovvero in grado di portare fortuna) e le sei razze di gatto che, invece, dovrebbero essere tenute a distanza. Tutte quante rientranti, come del resto le controparti considerate naturalmente adatte al palazzo del Re, in un ventaglio di possibilità che oggi non esiteremmo a definire come allineato con le caratteristiche del gatto del Siam, il cui aspetto è oggi tra i più noti delle case, per la grazia estetica, il comportamento relativamente socievole e l’affetto che risulta in grado di mostrare al suo padrone.
Tuttavia nel contesto della suddivisione moderna, attribuire tale termine a un felino non ha ancora detto tutto: poiché esistono, anche oggi, due tipi fondamentali di siamese. Il primo è quello così detto della testa a forma di mela, ovvero tondeggiante e dalle proporzioni relativamente indistinguibili da qualsiasi altro miagolante abitante delle nostre case. Ed il secondo lo chiamano il “siamese moderno”; ora, se non ne avete mai visto uno, vi assicuro che non siete preparati. Muscoloso e luungo, come un levriero, le orecchie quasi sproporzionate nella loro dimensione ipertrofica, talvolta portate dritte sulla testa ricordando i padiglioni di un pipistrello, certe altre flosce, in una perfetta quanto non intenzionale imitazione dell’elfo domestico Dobby della serie di Harry Potter. Tuttavia una simile linea di distinzione, come si confà allo stereotipo della suddivisione in razze tra i felini, non è sempre netta e impercorribile, tanto che esistono esemplari di siamese in cui convivono caratteristiche del gatto tradizionale, così come la sua controparte frutto della selezione genetica occidentale. Ed ecco il caso di un’alternativa tipologia, o per meglio dire serie di tipologie, nata da principio sopra americano e poi ripresa in quello inglese subito a seguire, in cui l’originale gatto thailandese ha ormai lasciato il passo ad un qualcosa di diverso… La creatura degna di entrare a pieno titolo nei nostri sogni più sfrenati: l’oriental, disponibile in due versioni, shorthair (pelo corto) e longhair (…) delle quali oggi prendiamo in analisi la prima, forse il felino più aerodinamico che sia mai stato creato dalla manipolazione intenzionale delle linee ereditarie da parte di mani abili, e per questo prive di alcun tipo d’incresciosa titubanza procedurale…
Stati Uniti
Il destino musicale di una scatola di sigari cubani
Quello che l’americano fabbricante di strumenti Del Puckett sta tenendo in mano potrebbe anche sembrare, superficialmente, un oggetto privo di raffinatezza o una particolare storia. Costruito per far divertire un bambino, come mero passatempo o per far pratica nelle arti manuali, piuttosto che in quelle capaci di coinvolgere l’orecchio umano. Questa forma quadrangolare, con ancora il marchio di un produttore di tabacco chiaramente in vista, dietro le tre corde ben tese, mediante l’uso di una serie di cavicchi, al termine di un’asta ricavata da una serie d’assi incollate l’una sopra l’altra. Eppure qualche dubbio che un simile personaggio, dal ruolo di assoluto primo piano nel suo campo, non sia qui soltanto per scherzare, inizia a palesarsi non appena lui si mette a strimpellare con la mano destra sopra il corpo principale dell’oggetto, mentre l’altra digita agilmente una variegata selezione di partiture, spontaneo frutto di uno studio lungo e articolato sul tema di come produrre molto, però partendo da poco. Certo: ciò che siamo oggi chiamati a giudicare, non è un gioco da ragazzi, bensì la miglior rappresentazione possibile di quella che in patria è conosciuta come cigar box guitar: la prova che non servono centinaia, oppur migliaia di dollari, per garantirsi la possibilità di creare musica degna di essere discussa ed apprezzata da chiunque. Bensì soltanto l’intento creativo, un po’ di conoscenza e quella che in senso universalmente lato, viene spesso definita “la spazzatura d’altri”.
Torniamo quindi, adesso, alle ultime battute di quella lunga pagina che fu lo schiavismo nordamericano. Quando verso la prima metà del XIX secolo, le ampie fasce di popolazione portate via dall’Africa giunsero al di là del mare, con tutto il loro ricco repertorio di storie, leggende e tradizioni musicali. Così che, senza un ruolo sociale che fosse diverso dai lavori forzati, né spazio per esprimersi in un mondo solennemente ingiusto, essi scelsero di dare sfogo alla propria creatività nell’unico modo che gli fosse rimasto: producendo musica per i propri fratelli e sorelle di sventura, affinché niente, di tutto ciò che avevano vissuto, potesse essere completamente dimenticato. Ma i mezzi e le risorse disponibili, ovviamente, erano molto limitati. Tanto che sarebbe stata l’universale arte di arrangiarsi, più di ogni altra cosa, a farla da padrona. Al termine della guerra civile quindi, dopo il 1865 e mano a mano che le truppe nordiste avanzavano verso meridione, i più inclini all’arte tra gli schiavi liberati iniziarono a cercare un senso alla loro passione, organizzandosi in quelle che sarebbero passate alla storia con il nome di jug bands. Dal nome in lingua inglese della giara o bottiglione che, soffiandovi all’interno con preciso metodologia, produceva un suono roboante, perfetto per accompagnare le prime timide espressioni di quel mondo le cui ramificazioni avrebbero ben presto dato vita al blues, jazz, ragtime e spiritual. La quale risultava accompagnata, nella maggior parte dei casi, da almeno un’altra coppia di strumenti “fatti in casa”: il basso della bacinella (washtub) o come viene chiamato in gergo tecnico bidofono, costituito da un recipiente capovolto per far cassa di risonanza, con sopra infisso un bastone verticale dotato di lunga corda vibrante, ed ovviamente, l’imprescindibile cigar box guitar.
A questo punto senza inoltrarci eccessivamente nella storia dei sigari verso il fondamentale periodo storico a seguire, basterà identificare gli anni ’50 e ’60 dell’800 come il momento in cui i produttori di tali oggetti iniziarono a immetterli sul mercato all’interno di confezioni da circa 20-30 pezzi, piuttosto che i tradizionali scatoloni da 100 o più, riempiendo in questo modo negozi e case di particolari cassette in legno, spesso dall’aspetto ornato per finalità di marketing, perfette al fine di costituire la cassa di risonanza di un piccolo strumento a corde. Così che bastava, a quel punto, aggiungervi le stringhe prelevate da una zanzariera, al fine di ottenere questo approccio alternativo a trarre musica dalle peggiori circostanze, eppure nonostante tutto, degna di venire riprodotta ancora adesso. Eccome…
Lo spettacolare fallimento del veicolo che avrebbe conquistato il Polo Sud
Da qualche parte nei dintorni dell’Oceano Antartico, un lungo palo di bambù si erge in senso perpendicolare al cielo. Sotto il palo c’è un oggetto rosso, lungo 17 metri e largo 6, dal peso complessivo di appena 34 tonnellate, con quattro ruote alte quasi il doppio di una persona ed un impianto propulsivo degno di una piccola landship, anche detta nave di terra o la versione spropositata del concetto di carro armato. L’esatta posizione di un simile residuato degli anni ’40, tuttavia, è situata al tempo stesso sopra, oppure sotto la superficie ondeggiante delle acque ricoperte di candido ghiaccio, rimanendo essenzialmente duplice fino al momento in cui dovesse essere osservata. Evento che non capita dal 1958, prima che un grande pezzo della Barriera di Ross si distaccasse dal resto di quel continente, iniziando a navigare, e prima o poi affondare, nelle vaste distese misteriose dei mari del Sud. E nessuno sa, sostanzialmente, se l’imponente, impressionante e al tempo stesso inutile (più o meno) Antarctic Snow Cruiser o Penguin 1, progettato per Armour Institute of Technology di Chicago da Thomas Poulter, si trovasse da una parte, oppure l’altra di una simile cesura. Ma forse sarebbe più giusto affermare che rinomato fisico ed esploratore, nato nel 1897 ed all’epoca quarantenne, avesse creato il mostro per due essenziali ragioni: prima, perché era un eroe, ed aveva tutte le intenzioni di dimostrarlo; e seconda, per la maggiore gloria dell’intero popolo americano. Un universo eterogeneo, che in quel periodo osservava preoccupato i primi capitoli di quella che sarebbe molto presto diventata la seconda guerra mondiale, mentre allo stesso tempo le maggiori potenze globali si combattevano a colpi di spedizioni sulla scacchiera di quell’ultima frontiera inesplorata, il continente situato all’assoluto Meridione del nostro pianeta Terra. Sotto la cui dura scorza glaciale si diceva che potessero nascondersi risorse preziose, come petrolio, rame, nickel e stagno, totalmente a disposizione di coloro che avessero potuto dimostrare, mediante la documentazione e la quantità di dati raccolti, di essere completamente a proprio agio in un ambiente tanto drammaticamente inospitale.
Approccio che avrebbe condotto, a un certo punto, alla seconda spedizione antartica dell’ammiraglio Richard E. Byrd, finalizzata a soddisfare tutto lo spirito d’avventura dei suoi circa 80 partecipanti, tra cui scienziati appartenenti alle discipline più diverse dello scibile. Nel corso della quale proprio Thomas Poulter, eletto a suo secondo in comando, gli avrebbe salvato la vita da un principio di avvelenamento da monossido, guidando assieme a due colleghi fino a un’avamposto per molti chilometri nelle profondità glaciali, a bordo di un trattore artico dalle prestazioni tutt’altro che perfette. Esperienza, quest’ultima, partendo dalla quale avrebbe dato forma all’originale idea di un “qualcosa” che potesse a tutti gli effetti spostarsi liberamente lungo la scivolosa superficie delle nevi eterne, ospitando al tempo stesso tutti i comfort necessari a un piccolo team di cinque uomini, capaci di cavalcarlo fino alla penultima ultima frontiera dell’umanità. E per come ebbe l’occasione di descriverlo nel 1937, assieme ai colleghi dell’Armour Institute alle autorità di Washington impegnate a preparare l’attesa quanto inevitabile terza spedizione di Byrd, l’Antarctic Snow Cruiser avrebbe rappresentato l’assoluto non-plus-ultra di un simile concetto, l’eccezionale dimostrazione che nulla poteva bloccare una mente fervida alle prese con problemi di una simile complessità, se soltanto si applicava con la giusta quantità di tempo, risorse finanziarie ed il supporto di un’intero paese. Il tutto per la modica cifra di 150.000 dollari, l’equivalente di 2,7 milioni dei nostri giorni….
Le miniere di Moria sotto la città più popolosa del Missouri
In alto sopra il corso gremito dai visitatori del sabato pomeriggio, la mongolfiera di Phileas Fogg e il fido servo Passepartout ruotava lentamente sopra una colonna, costruita in modo tale da non dare eccessivamente nell’occhio. Il rombo rapido ai margini della coscienza, un treno molto rapido, che percorre le rotaie del Morgan Steel Hypercoaster: siamo in Africa signori, ma non l’AFRICA, bensì l’omonima sezione del parco a tema World of Fun di Kansas City (Missouri) ove ne figura una per ciascun diverso continente. Un luogo il quale, piuttosto che essere dedicato al mago di Oz e la bambina Dorothy (“Ho l’impressione che non siamo più in Kansas, Totò…”) ha incontrato l’obiettivo di rappresentare, in forma d’intrattenimento per grandi e piccini, il celebre racconto di Juls Verne su Il giro del mondo in 80 giorni. Ed è a un tratto di quel giorno sotto un limpido cielo autunnale, che i rumori del traffico si fanno per un attimo distanti. Il giro delle attrazioni più rumorose si conclude in una rara sincronia e sul parco cala un attimo di relativo silenzio; seguito da un boato che parrebbe provenire dal Centro della Terra stesso. “Un t-terremoto…?” Esclama qualcuno, titubante. Ma tra gli abitanti del posto non sembra serpeggiare nessun tipo di preoccupazione: “Niente paura.” Gli risponde l’uomo anziano più vicino, memoria storica della città: “Hanno soltanto ricominciato a scavare.
Particolarmente sorpreso potrebbe risultare essere un turista, in effetti, nello scorgere le gallerie presenti sulla 8300 e la Derrough drive, entrambe usate in apparenza per immettersi all’interno della stessa montagna. Eppure, stranamente, disallineate: quasi come se là dentro, invece che un singolo pertugio, figurasse la più logica ed estesa continuazione della città stessa. Quasi come se… Subtropolis. Un luogo come tanti altri, ma più grande. Ovvero la stessa definizione, in senso lato, che potremmo attribuire alla decaduta città dei Nani tolkeniani esplorata nel primo libro della trilogia del Signore degli Anelli. Nella cui storia figura, al posto del re Durin I, il grande magnate del mondo dello sport statunitense Lamar Hunt (1936-2006) già possessore d’innumerevoli squadre, nonché fondatore dell’American Football League, la Major League Soccer e il World Championship Tennis, oltre ad aver inventato personalmente il termine Super Bowl. Ma anche possessore, assieme ai suoi fratelli, di numerose imprese nel campo dell’estrazione e industria mineraria, inclusa la gigantesca miniera del Missouri River, scavata a partire dagli anni ’40 con la tecnica ben collaudata del room & pillar, metodo consistente nella costruzione di vaste sale sotterranee, inframezzate da pilastri del tutto simili a quelli dell’antica Khazad-Dûm. Almeno finché le preziose rocce calcaree del substrato sottostante formatisi 270 milioni di anni fa, gradualmente, iniziarono a esaurirsi negli anni ’50 del ‘900, portando i dirigenti della compagnia, assieme al loro fondatore, a interrogarsi su quale potesse essere il futuro della proprietà. Il che avrebbe portato alla costruzione, in superficie, dei due parchi giochi Worlds e Oceans of Fun. Ma dev’essere sembrato un grande spreco d’opportunità, non tentare d’impiegare in alcun modo i circa 5,1 milioni di metri quadri risultanti dagli scavi dei lunghi anni pregressi, se consideriamo quello che la compagnia d’investimento immobiliare degli Hunt avrebbe avuto modo d’inventarsi, di lì a poco…