È una visione delle cose piuttosto diffusa, benché poco discussa, quella dell’equilibrio cosmico tra l’insieme e il particolare. La sfera che costituisce l’universo, che racchiude la sfera del mondo, con al centro un nucleo sferoidale composto di atomi equidistanti dal centro. Il grande nel piccolo nell’ancora più piccolo, in un gioco di matrioske in cui l’uomo, antropologicamente parlando. è la cifra jolly che modifica e può compromettere l’equilibrio. Ma in determinati, specifici casi, riesce invece a crearlo. Cose che si ripetono a intervalli (ragionevolmente) regolari: il passaggio della cometa di Halley, la congiunzione astrale Giove-Saturno, l’articolo sulla Gazzetta dello Sport intitolato “Che cos’è il curling?” con una data ispirata al principio dell’unico torneo internazionale capace di comparire sul radar del grande pubblico, quello delle Olimpiadi Invernali.
È una questione piuttosto ironica, a pensarci bene, che i professionisti dei club più blasonati, al di fuori dalla Scozia, dal Canada e i principali paesi del Nord Europa, restino largamente ignoti, mentre la pratica occasionale di sportivi richiamati presso l’antica fiamma, frutto di anni, piuttosto che una vita di addestramenti intensivi, finisca per catalizzare l’attenzione di tutti sullo sport delle stones, i sassi di granito indotti a scivolare leggiadri sul ghiaccio d’inverno. E sapete cos’altro, colpisce la fantasia? Il fatto che simili preziosi, interessanti oggetti, arrivino in larga percentuale (si stima almeno il 70%) tutti da un singolo luogo, l’isola un tempo nota come “La pietra miliare di Paddy”, dal nome di un famoso capo popolo irlandese, poiché situata esattamente a metà strada tra l’Inghilterra e il paese delle 26 contee, famoso per il trifoglio di San Patrizio e le pentole d’oro coi leprecauni. Una questione singolare, sopratutto perché, osservata con il giusto spirito, quella che oggi prende il nome di Ailsa Craig (la roccia di Ailsa) può avere la stessa forma bombata di ciò che effettivamente produce, il granitico oggetto al centro di uno sport di squadra più prezioso al mondo, sopratutto quando si considera come, per praticarlo a pieno titolo, ne occorra una dotazione di ben 16, con un costo unitario che oscilla tra i 700 e i 1500 dollari cadauna. “Sassi” li chiamano in gergo, ed in effetti c’è stato un tempo, attorno al XVI secolo, in cui la gente impiegava semplicemente quanto gli riusciva di trovare sul fianco delle montagne, per vedere chi riusciva a far scivolare il proprio strumento sul ghiaccio fino a un punto scelto arbitrariamente. Finché ai tessitori di Darvel nell’East Ayrshire, secondo una leggenda, non venne in mente di usare semplicemente i pesi dei filatoi. Nel cui foro di aggancio, appositamente allo scopo, veniva incastrata una pratica maniglia, estremamente propedeutica al fine di prendere la mira. Ma prima che il curling diventasse curling, ovvero formalmente quello che gli appassionati definiscono (non senza un lampo di luce negli occhi) il solo ed unico “gioco degli scacchi sul ghiaccio” fu scoperto come il materiale facesse effettivamente la differenza, e il materiale migliore fosse quello proveniente, per l’appunto, dalla verdeggiante quanto meditativa terra di Ailsa Craig.
Guardatela: 338 metri di una cupola naturale, svettante sotto la superficie marittima, visibile nei giorni migliori dal villaggio di Dunure dall’alto castello scozzese, da cui partivano i cattolici in fuga dalle persecuzioni scozzesi, verso la terra promessa al di là del mare. Un luogo che compare per la prima volta nelle cronache storiche d’Europa quando nel 1597, il lord allineato con l’egemonia papale Hugh Barclay di Ladyland vi approdò in fuga dalle forze armate del vescovo protestante Andrew Knox, costruendo un piccolo castello a tre piani poco prima di finire “misteriosamente” affogato. Per essere menzionata di nuovo appena tre anni dopo, come porto sicuro di un gruppo di pirati, ritenuti uomini delle Highlands in fuga all’autorità. Degli anni successivi si sa ben poco, con la possibile esclusione del 1772, quando il naturalista gallese Thomas Pennant la visitò, riportando l’esistenza di una modesta cappella in pietra, e della leggenda di una seconda da lui mai trovata, presso cui avrebbero pregato i marinai prima di avventurarsi per un lungo viaggio. Ma un posto di primo piano sulle mappe nautiche, la pietra miliare se lo sarebbe guadagnato solamente a partire da quando verso la fine del XVII secolo Archibald del Clan Kennedy, già conte di Cassilis, venne nominato anche marchese di Ailsa. ricevendo il compito e il privilegio di proteggere questa terra assai singolare. Fu così proprio la sua discendenza, attraverso una serie di accordi commerciali ed almeno un’importante esclusiva, a decretare quale sarebbe stato lo scopo futuro di Ailsa Craig.
isole
L’isola delle case col tetto di alghe
Dal punto di vista dell’integrazione tra uomo e natura, non esiste un campo più rilevante di quello abitativo. Sin da quando, molti millenni fa, i nostri antenati si accontentavano di vivere all’interno di buche scavate nel fianco delle montagne, la civiltà si è evoluta ed ha trovato espressione, in primo luogo, negli spazi creati dal posizionamento di un uscio. Al di là del quale tutto è controllabile, ogni cosa risulta essere (ragionevolmente) chiara. Vi sono case che riflettono la visione dei loro costruttori, architetti dell’oggi capaci di disporre di risorse mezzi virtualmente illimitati… Per lo meno dal punto di vista del castoro che costruisce la diga coi denti, le unghie e la persistenza del roditore. Mentre altre trovano una forma fisica, principalmente, dalle ragioni delle mere e imprescindibili circostanze. Come avvenne, nel XVIII secolo, a Læsø, isola nel mare di Danimarca il cui nome significa “terra di Hlér”, il gigante norreno associato alla furia e le onde del mare. Vichinghi, tuttavia, non vivevano qui, dove l’economia scorreva soprattutto in funzione della messa in commercio di una risorsa, e soltanto quella: il prezioso sale, ricavato da un tratto di mare in cui gli ioni abbondano ancor più del normale. Un’industria, questa, dalle opportunità di guadagno assolutamente significative, tuttavia non priva di un costo operativo importante: mantenere accessi, per molti mesi l’anno, i forni dell’isola, bruciando essenzialmente tutto il combustibile a disposizione.
Ora le isole, come loro prerogativa, sono un prototipo dei sistemi ecologici aperti, cosicché fu possibile osservare, nel giro di appena un paio di generazioni, la progressiva scomparsa di ogni forma di arbusti dalle foreste di questo luogo un tempo ameno. Intere zone furono letteralmente disboscate, con la nascita di caratteristiche del territorio come le dune di Højsande, dove il terreno bruciato dal sale non permette neppure all’erba di crescere indisturbata. Al che seguì la domanda, niente meno che fondamentale per prevenire l’abbandono progressivo dei villaggi e un triste ritorno alla terraferma: come sarebbe stato possibile, da quel momento in poi, costruire e rimpiazzare le abitazioni in legno, con tetto di paglia, costruite per la prima volta dalla distante generazione dei loro avi? Furono a lungo analizzate le possibili alternative, quindi si decise di impiegare, finalmente, gli occhi: sulle spiagge di Læsø si rinnovava in effetti, costantemente, un intricato groviglio di fibre vegetali, derivanti dalla famiglia di alghe delle Zosteraceae, genere Zostera. Letterali tonnellate di materiale trasportato a riva, letteralmente intriso di acqua di mare, quasi del tutto pronto all’uso, come il legno che, ormai da tempo, veniva recuperato dai numerosi naufragi che finivano in questi luoghi per la ferocia del Mari del Nord. Così che mentre gli uomini se ne andavano in barca, allo scopo di pescare e alla ricerca di nuovi relitti, secondo una credenza locale fu alle donne dell’isola che venne in mente una soluzione per impermeabilizzare e isolare dal freddo le loro case, mediante l’impiego di quella che qui viene chiamata alga tang. Da cui tangtage, costruzione [del tetto] mediante l’impiego della suddetta Zostera, una tecnica artigianale che, pur non essendo ancora parte dei patrimoni tangibili dell’UNESCO, risulta certamente unica al mondo. Nonché unicamente funzionale allo scopo: osservate, per un attimo, di cosa stiamo parlando. Il tetto di alghe nasce, in modo non troppo diverso da quello di paglia, da svariate tonnellate di alghe, arrotolate ed intrecciate a una struttura di sostegno, al fine di tenere gli elementi lontano dai suoi abitanti. Esso nasce, in effetti, con una tecnica non troppo diversa dalla cardatura della lana, rimarcando ancora una volta la sua appartenenza al mondo femminile. Originariamente, la copertura di una di queste case veniva realizzata nel corso di un singolo giorno, attraverso la collaborazione di circa 150-200 mogli del villaggio senza nessun tipo di compenso, per il principio ormai perduto dell’aiutarsi a vicenda. Una volta disposti i rotoli di alghe, quindi, vi si apponeva uno strato di torba, destinato a legarsi chimicamente con le fibre vegetali, diventando un impenetrabile ed indistruttibile tutt’uno. Tanto che, successivamente all’adagiarsi dell’impasto sulle mura laterali dell’edificio, sarà necessario ricavare dei buchi con la sega a mano tutto attorno alle finestre, pena la creazione di un antro oscuro degno di un vampiro di mare. Al termine dell’opera, la proprietaria offriva alle sue vicine di villaggio un banchetto, per ringraziarle della disponibilità e la sapienza che erano state in grado di dimostrare. Ben sapendo che prima o poi, avrebbe avuto l’occasione di restituire il favore…
L’alveare umano sospeso tra il Kenya e l’Uganda
Ogni economia basata su una singola risorsa è destinata a raggiungere, prima o poi, un punto di rottura. Questo tende a verificarsi la maggior parte delle volte quando tale particolare via d’accesso alla sopravvivenza economica, per una ragione o per l’altra, sembra essere prossima all’esaurimento. Ma c’è un’altro modo in cui la condizione degli umani coinvolti può iniziare la ricerca di un margine di miglioramento: una diffusa condizione di povertà. Quando persino arrivare alla fine del mese, senza patire la fame, appare più difficile che intraprendere una folle avventura, cercando di modificare lo status quo. Secondo una delle versioni della storia, i primi ad agire in tale senso da queste parti furono Dalmas Tembo e George Kibebe, pescatori kenyoti che, stanchi di essere trattati come dei mendicanti dai compratori di pesce sulle coste orientali del lago Victoria, scelsero di trasferirsi con armi, canna da pesca e bagagli, in uno dei più inaspettati, e solitari dei luoghi: l’isolotto roccioso di Migingo, vasto all’incirca 2 Km quadrati e situato in mezzo ad acque dall’appartenenza territoriale incerta.
Fermiamoci per un attimo a considerare questo punto, assolutamente fondamentale per l’analisi dei fatti: è noto che i confini odierni delle diverse nazioni d’Africa, perfettamente perpendicolari l’uno all’altro, furono stabiliti a tavolino dai potentati europei, durante la conferenza di Berlino del 1884, l’evento di politica nazionale che diede i natali tra gli altri, per mano del re Leopoldo II del Belgio, al terribile covo d’iniquità noto come stato “libero” del Congo. Ora coloro che realizzarono una simile suddivisione, piuttosto che essere esperti geografi o studiosi delle faccende antropologiche, erano principalmente capi di stato, diplomatici o sovrani, ai quali interessava soltanto l’equa distribuzione degli spazi per le ambizioni coloniali di questo o quell’altro impero. Molte delle linee di demarcazione, dunque, furono fatte passare attraverso barriere invalicabili del territorio, come catene montuose, o tagliarono il corso dei fiumi noncuranti del loro tracciato serpeggiante. Ed una, in particolare, scelse la via più insensata: poggiare in maniera noncurante sopra le acque del più grande lago tropicale del mondo, rinominato nel 1858 sulla base di niente meno che la regina Victoria, dopo che John Hanning Speke l’aveva “scoperto” durante la sua ardua missione alla ricerca delle leggendarie foci del fiume Nilo. Con il risultato che almeno tre piccole terre emerse, in una simile distesa d’acqua paragonabile per estensione ai Grandi Laghi americani, si trovarono esattamente in bilico sul filo di un così tagliente rasoio. Esse erano, e sono tutt’ora, Migingo, Usingo ed Ugingo, quest’ultima anche nota come “Isola Piramide” a causa della natura scoscesa del suo territorio. Per molti, moltissimi anni, non importò praticamente a nessuno. Finché a partire dal 1991, tutti coloro che erano scontenti delle loro condizioni di vita sulla terraferma, non iniziarono a guardare con interesse a quei due pionieri, che avendo scelto di lasciarsi dietro amici e parenti, erano andati a vivere come eremiti nel mezzo delle acque lacustri internazionali. Così che dopo qualche tempo, attorno alla capanna in lamiera corrugata che si erano costruiti costoro, iniziò a nascere una piccola comunità. I vantaggi per chi viveva su Migingo erano chiari ed immediati: zero spese per l’alloggio, meno controllo da parte delle autorità, più distanza tra se e gli elementi poco raccomandabili della società. Secondo un’altra interpretazione di questa insolita vicenda, del resto, l’isola non iniziò ad essere popolata fino al 2004, quando Joseph Nsubuga, pescatore proveniente dall’Uganda, si stabilì quaggiù, trovando nient’altro che una singola casa abbandonata, oggi trasformata nel principale bar della comunità. Capire chi ha o meno ragione nella specifica debacle storico-coloniale, tuttavia, potrebbe o meno avere rilevanza per la questione, quando una moderna squadra di rilevamenti territoriali, presumibilmente super partes, ha determinato come Miginge si trovi effettivamente ad Est del confine kenyota, risultando quindi una parte inscindibile di questo specifico paese africano. Ecco perché l’importanza di determinarlo, nonostante le apparenze, si è fatta negli anni sempre più pressante: fra tutte le zone in cui è possibile pescare il prezioso pesce persico del Nilo (Lates niloticus) pare che nessuna sia migliore di quella antistante l’isola. I circa 200 pescatori che l’abitano, inoltre, sono stati sufficientemente furbi da crearvi un sistema pseudo-istituzionale di acquisto e rivendita sulla terraferma del pesce, con prezzi imposti che favoriscono, in ultima analisi, la serenità economica dell’intera comunità. Quando si considera tuttavia come le acque in cui si trova l’agognato pinnuto siano per lo più ugandesi, con conseguente risentimento degli abitanti di quelle terre, comprenderete come un’effettiva suddivisione delle compentenze non sia affatto semplice da elaborare. E ciò nonostante l’affermazione dei loro vicini del Kenya, secondo cui “Il pesce persico viene a riprodursi sulla costa orientale, dunque appartiene principalmente a noi.”
L’enigma della spiaggia dei fenicotteri rosa
Non credo sia evidente per tutti allo stesso modo, la maniera profonda, ed innegabile, in cui Internet ha cambiato il nostro modo di viaggiare. Per la maniera in cui si cerca freneticamente, al momento stesso in cui si arriva in hotel, il modo per connettersi ai nostri siti social più utilizzati, onde iniziare subito a postare pubblicamente le nostre impressioni e le foto scattate dal momento stesso in cui siamo sbarcati in aeroporto: noi che camminiamo, noi che mangiamo, noi che facciamo il segno della pace di fronte ad un qualche monumento storicamente o naturalmente rilevante. Ma le conseguenze di un simile approccio all’esperienza di un luogo nuovo, in realtà, vanno persino più a fondo di così. Poiché riconoscendo un valore, al tempo stesso estemporaneo e duraturo, alla nostra immagine proiettata attraverso gli impulsi elettrici della comunicazione digitale, si modifica il tipo stesso di situazioni in cui si fa tutto il possibile per trovarsi. Così che il viaggiatore non cerca più l’occasione di sperimentare degli attimi che gli permettano di trasformare la sua conoscenza del mondo e dei suoi abitanti, quanto piuttosto quelle determinate circostanze adatte ad accrescere la considerazione di se stessi che hanno amici, parenti e colleghi. Ed è proprio qui che entra in gioco la quadratura del cerchio, ovvero quello strumento multifunzione che portiamo oramai ovunque: lo smartphone. Uno scatto dopo l’altro, possibilmente un video o due. Ed è scontato che, quando il vero soggetto dell’intera faccenda siamo noi stessi, cosa vuoi che importi tentare di essere originali? Così determinate mode percorrono, come onde provenienti dal bel mezzo dell’Oceano Atlantico, specifici recessi di quel contesto multiforme che è Internet, diventando un “mai più senza” di chiunque sia alla perenne ricerca di partecipazioni impersonali o un sufficiente numero di likes. Per non parlare, in determinati casi, degli introiti pubblicitari. È successo con specifici gesti (planking, owling, ice bucket challenge…) così come destinazioni memetiche (i luoghi del Codice da Vinci, le strade riprodotte in maniera fotografica negli anime giapponesi) oppure determinati animali, possibilmente in contesti dall’alto grado di specificità.
Qualcuno ricorderà, ad esempio, il periodo in cui Instagram era invaso da una quantità spropositata di testimonianze raccolte presso la “spiaggia dei maiali” alle Bahamas, dove i simpatici suini vivono liberi, facendo il bagno assieme ai turisti. Prima ancora c’erano state le scimmie della foresta sacra thailandese di Ubud, o se vogliamo risalire ancor più nel tempo, i leoni fotografati da lontano nel corso di un qualche safari nelle terre più profonde dell’Africa nera. E qualcuno ricorderà certamente, la scorsa estate, il gran successo riscosso da una particolare destinazione caraibica dove mostrarsi a guisa di grandi amanti degli uccelli: la spiaggia dei fenicotteri presso l’isola di Aruba. In prossimità della capitale, Oranjestad, dalla quale è possibile scorgere, a meridione e nelle giornate di cielo particolarmente terso l’ombra distante della terra ferma venezuelana. Che si staglia all’orizzonte, dietro ad una sottile striscia emersa, nota con il nome di Renaissance Island. Tecnicamente a sua volta una cay, o isola corallina, attorno alla quale si trovano le uniche spiagge private di questo piccolo paese, riservate ai clienti del particolare ed omonimo albergo, oltre a tutti coloro che dovessero accettare, per il solo privilegio di vistare un simile luogo, di investire la cifra non propriamente insignificante di 100 dollari a persona. Per poter accedere alle sdraio, i luoghi di ristoro, i campi da tennis, ma soprattutto trovarsi a pochi centimetri di distanza da svariati esemplari di uno degli uccelli più riconoscibili, e al tempo stesso bizzarri, di tutti gli habitat costieri terrestri. Esistono sei specie facenti parte della famiglia Phoenicopteridae, un nome derivante dal greco che significa “[dalle] piume rosso sangue”. E tra tutte è in dubbio che quello americano (Phoenicopterus ruber) sia certamente uno di quelli dall’aspetto maggiormente intrigante: 120/140 cm di animale, dalle zampe lunghe e sottili, il collo che si ripiega su se stesso, l’inconfondibile becco nero che pare essere stato montato al contrario. Per non parlare dell’incredibile colore, frutto della maniera in cui il suo metabolismo incamera il beta-carotene contenuto nei crostacei, i cianobatteri e le alghe che costituiscono la sua dieta. Alieno come un visitatore proveniente dal pianeta Venere, il fenicottero costituisce in se stesso un enigma evolutivo degno di essere analizzato. Ma forse la questione più significativa di tutte, in questo specifico caso, è un’altra: come mai gli animali che si trovano sull’isola di Renaissance, a differenza dei loro simili di Aruba e nell’intero territorio dei Caraibi, non scelgono mai di volare via?