La razza perduta del cane girarrosto, assistente dei cuochi nel Seicento

E fu così che quando il vescovo di Gloucester pronunciò per la prima volta quella PAROLA, tra il suo pubblico iniziò a serpeggiare una sorta di brivido, come lieve e inevitabile tremore. “Allora Ezechiele vide la RUOTA…” Le candele negli absidi continuavano a levarsi verso il soffitto della chiesa di Bath, apparentemente indisturbate. Ma per 36 dei presenti, rigorosamente non appartenenti alla specie umana, qualcosa era cambiato radicalmente nell’atmosfera delle circostanze. “Egli scrisse: mentre mi trovavo tra gli esuli del fiume Kebor, mi furono inviate visioni di Dio. Esseri con quattro volti, ciascuno dei quali sormontava una RUOTA. E le RUOTE stesse erano coperte di gioielli, e punteggiate da un susseguirsi d’occhi scrutatori. Non soltanto questo: erano doppie RUOTE. Una RUOTA dentro un’altra RUOTA!” Grrr… Bark, bark! Si udì da un angolo della navata. Un suono che sembrava provenire da sotto la gonna di una distinta locandiera, che come si usava fare si era portata il cane di casa al fine di mantenere al caldo i suoi piedi. Fu come una sorta di segnale: agendo all’unisono, le tre dozzine di piccoli quadrupedi dal corpo ispido si sollevarono dai piedi dei loro padroni, che iniziarono a chiamarli inorriditi; come una singola creatura, i cani cominciarono a correre in giro per la chiesa; era il pandemonio, tra guaiti, abbai e saltelli da ogni parte! Il vescovo tentò di mantenere un’espressione impassibile, per quanto ci riusciva. Dopo tutto, una cosa simile era già successa ad almeno un paio di occasioni, ed egli aveva già capito (troppo tardi) la portata del proprio errore. Questi erano i tempi, per i cani, e per i padroni…
Attorno al 1600 ed a seguire, avreste potuto scegliere una qualsiasi chiassosa ed affollata osteria o taverna, al termine di un lungo viaggio per la campagna inglese. Per sentir provenire da un’angolo del soffitto, in prossimità del camino principale, un suono sferragliante accompagnato da un lieve ansimare, di qualcuno impegnato a dare fino all’ultimo residuo della propria energia vitale per svolgere una mansione apparentemente priva di soddisfazioni, eppur così dannatamente importante: trasformare l’energia muscolare in energia meccanica, del tipo veicolato tramite una resistente catena o corda fino all’attrezzo appuntito situato a ridosso del fuoco stesso. Nel quale il cuoco aveva preventivamente inserito un grande pezzo di bovino, suino o un intero uccello vendutogli dal cacciatore locale. Poiché all’epoca i forni di cottura erano implementi costosi ed ingombranti, che difficilmente avrebbero potuto trovare collocazione all’interno di un simile luogo d’accoglienza. E l’unica maniera facilmente disponibile per cuocere le cose era il fuoco vivo, del tipo che tendeva tanto spesso a bruciare un lato del cibo, lasciando quello opposto essenzialmente intonso e quasi del tutto privo di cambiamenti. Dal che il lavoro in genere assegnato al più umile della famiglia o i lavoranti della sala comune, consistente nel girare laboriosamente il suddetto apparato, per ore ed ore, versando quantità copiose del proprio sudore. Questo almeno finché a un individuo rimasto senza nome, ma a suo modo certamente geniale, non venne in mente d’impiegare il proprio migliore amico in una maniera che oggi chiameremmo simile a quella del criceto. Affinché potesse, col continuo movimento delle sue zampette, far muovere a suo modo il Sole e l’altre Stelle…

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La magnanima disposizione dei nativi verso il grande mostro piatto del Mekong

E fu allora che la piccola barca sovraccarica, con il trio di pescatori momentaneamente intenti a tirare a bordo la rete, subì un’improvvisa battuta d’arresto nella sua marcia lenta e cadenzata. Dapprima con un contraccolpo, mentre la prua si sollevava lievemente verso il cielo. Quindi espressa tramite una vibrazione in grado di percorrere l’interezza del suo ponte, a partire dall’alloggiamento del vecchio e polveroso motore. Dopo un attimo di panico, mentre due degli occupanti stavano per cadere nelle acque rese torbide dal fango, nel giro di pochi secondi il timoniere/pilota realizzò che nulla avrebbe potuto fare, se non spegnere del tutto l’impianto ed aspettare che la situazione si facesse più chiara. Il più intraprendente dei suoi colleghi, allora, si sporse il più possibile dal fianco dell’imbarcazione, immergendo entrambe le braccia alla ricerca del probabile tronco responsabile del problematico evento. Se non che il suo senso del tatto affinato da plurime contingenze pregresse, inaspettatamente, iniziò a narrargli tutt’altro tipo di storia: una larga e levigata superficie, punteggiata di strane… Protuberanze. Come un sopracciglio con al di sotto un buco, seguito da una serie di sporgenze parallele potenzialmente ascrivibili a una sorta di cassa toracica orizzontale. Un contorno adornato da una serie di zigrinature parallele l’una all’altra, dal cui retro sembrò a un tratto sporgere una sorta di coda arcuata, simile a quella di uno scorpione. Così mentre l’animale, perché di nient’altro poteva trattarsi, fece un sobbalzo ed una contorsione, una lunga spina velenosa fece la sua comparsa in prossimità della mano sinistra dell’uomo. Che lanciando un rapido singulto, si gettò all’indietro, ricadendo sul sedile dove aveva trascorso l’intera prima parte della sua giornata. “Cá đuối nước! Cá đuối nước khổng lồ!” (Una pastinaca gigante!) Gridò all’indirizzo dei suoi compagni. Il che avrebbe potuto costituire, incidentalmente, anche il titolo dell’intera esperienza.
Un tipo d’incontro che frequentemente avviene nelle biodiverse acque fluviali della regione di Stung Treng, con oltre 800 specie di cui almeno la metà perfettamente commestibili, e commercialmente rilevanti, ed alcuni dalle taglie sovradimensionate. Ciascuno con un rischio d’estinzione proporzionato alla propria eccezionalità, come nel caso del barbo (Catlocarpio siamensis) o il pesce gatto gigante (Pangasianodon gigas) il che poteva lasciare al vertice di questa classifica di dubbio prestigio soltanto lei, la grande pastinaca d’acqua dolce o Urogymnus polylepis, alias Himantura chaophraya, il cui doppio nome scientifico chiarisce una recente rivalutazione, a seguito della scoperta del tutto isolata di un singolo esemplare praticamente neonato nel 1852 da parte del naturalista olandese Pieter Bleeker. Questo per l’eccezionale capacità e riservatezza, soprattutto da parte di una creatura di queste dimensioni, di nascondersi appiattendosi sul il suolo fangoso delle circostanze, sparendo letteralmente fatta eccezione per i piccoli occhi sporgenti e l’arma sottile del proprio aculeo lievemente seghettato. Il che ha permesso attraverso i secoli, in qualità d’organismi più imponenti del loro ambiente d’appartenenza, a queste creature di raggiungere proporzioni progressivamente maggiori, fino ai due metri di diametro e i 600 Kg di peso. Passando per 180 misurati dell’esemplare di cui sopra, pescato accidentalmente lo scorso 18 maggio ed a seguito instradato lungo un percorso di umanità e condiscendenza da parte dei suoi catturatori. Grazie all’incontro precedentemente intercorso, e subito richiamato alla mente, con un gruppo di studiosi statunitensi, facenti parte del progetto di studio ed approfondimento denominato con il titolo altamente programmatico di Wonders of the Mekong

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La pregevole provenienza canina dell’antica lana perduta dai canadesi

Quando nel 1792 George Vancouver, l’esploratore britannico che avrebbe dato il nome all’omonima e importante isola nonché la città che sarebbe stata posta in corrispondenza di essa, si trovava a navigare lungo le coste del Pacifico tra gli attuali Oregon e Columbia Inglese. Quando sostando con la sua nave per fare rifornimento in prossimità della foce del fiume Bute, scese a terra al fine di conoscere direttamente una tribù dei nativi, con cui effettuare scambi d’informazioni e alcune merci di un certo valore. Tra cui figuravano, dalla parte delle genti locali, delle pregiate coperte multicolori ricoperte da figure geometriche, che l’ufficiale della Royal Navy aveva già visto addosso alle delegazioni culturali e di pace che avevano precedentemente cercato un punto di contatto con le nuove colonie stabilite dagli europei. Trovando i suoi corrispondenti in questo caso particolarmente amichevoli, Vancouver chiese quindi di recarsi a visitare il loro villaggio assieme al suo seguito. Occasione nella quale, coi suoi stessi occhi, vide qualcosa di completamente inaspettato: un gruppo di donne del villaggio sedute a terra, intente a filare grandi quantità di lana candida dello stesso tipo utilizzato per le suddette creazioni tessili dei locali. E accucciato pacatamente vicino a loro, un cane di taglia medio-piccola dello stesso colore e il pelo molto corto, come se fosse stato recentemente sottoposto a tosatura. Sommando perciò i dati in suo possesso, e con qualche ulteriore domanda a mezzo interprete, l’esploratore comprese finalmente la stretta relazione tra le due cose. Diventando il primo occidentale a conoscere l’eccezionale questione della lana canina.
L’esistenza pregressa dei cani da lana allevati dalle Prime Nazioni della costa del Pacifico canadese, definite oggi per semplicità dei Salish (da Séliš, il nome impiegato dai parlanti della loro lingua per definire se stessi) è del resto una questione lungamente nota, provata agli antropologi da un’ampia serie di documenti artistici, racconti storiografici ed in tempi più recenti, persino l’analisi micrometrica del materiale di alcuni reperti tessili custoditi in importanti musei tra cui lo Smithsonian. Appartenenti a tale razza, inoltre, sono stati ritrovati nelle antiche tombe costruite per personalità importanti e la loro famiglia, seppelliti con tutti gli onori e persino avvolti nelle coperte che loro stessi avevano permesso di creare, un onore che non viene normalmente riservato agli altri animali facenti parte del corredo dei villaggi di questa particolare cultura americana. Animali di questa particolare razza, simili e non molto più grandi di un volpino (spitz) giapponese trovandosi effettivamente a metà tra questo e un samoiedo, venivano tenuti nelle case a differenza dei cani usati per la caccia, e spesso apprezzati nel loro ruolo addizionale di creature di compagnia. Considerati una possessione di pregio, le loro linee di sangue erano custodite e prolungate dalle donne della tribù, che molto spesso ne mantenevano anche il possesso formale. In un periodo successivo al XVI secolo, essi sarebbero anche stati allevati letteralmente allo stato semi-selvatico, con vere e proprie comunità di 20-30 cani tenute all’interno di ampi recinti o isole lungo la costa, allo scopo di evitare l’incrocio genetico con razze differenti e il conseguente declino qualitativo della lana. Un piano che avrebbe funzionato relativamente bene, almeno fino all’arrivo dell’uomo bianco con le molte problematiche connesse a un tale scontro di civiltà…

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L’orso bianco nel canile che chiamavano Pastore dell’Asia centrale

Sperduto tra i colli aridi della Preistoria, circondato dai suoi molti nemici che ululavano e ringhiavano con un pesante intento di minaccia, il popolo del Turkmenistan fece la stessa cosa di molti altri venuti prima e dopo di loro: si circondò di mura, ed all’interno di esse posse venerande raffigurazioni dei propri spiriti ed antichi Dei. Creazioni antropomorfe in terracotta ma anche immagini d’altre creature, ritrovate oltre cinque millenni dopo nel 1965 presso il sito archeologico di Altyndepe, vicino Aşgabat in Turkmenistan, tra cui viene spesso citato, per la preminenza e l’importanza filologica, l’immagine ampiamente riconoscibile di un cane. Forse il primo esempio, del tutto inconfutabile, dell’avvenuta addomesticazione del nostro unico alleato di quei tempi nella lotta contro l’innata ferocia della natura, la testa squadrata con le orecchie triangolari e l’accenno appena visibile di una coda. Questo perché allora come ancora adesso ed in taluni ambienti particolarmente tradizionalisti, vigeva l’usanza di accorciare simili parti anatomiche, per massimizzare le possibilità del cane in combattimento. Crudele? Senz’altro. Ma tetramente utile, nel mondo di una volta in cui soltanto il più forte poteva sopravvivere all’incontro frequente con l’antesignano rivale di genìa lupesca. E forse proprio in quel confronto riesce a figurare la questione più significativa dell’intera faccenda; poiché sarebbe stato ragionevole, e in parecchi modi prevedibile, immaginarsi un’inerente somiglianza tra le due creature. Mentre da quella statuetta molossoide, così tozza e muscolosa, emergono i particolari tratti tipici di un cane che tutt’ora esiste. Essendo in chiari termini, e al di là di qualsivoglia tentativo ragionevole di negazione, giunto fino ai nostri giorni con l’aspetto e un gruppo di caratteristiche per lo più invariate. Ora poiché in questo mondo, naturale o meno, ogni elemento è sottoposto a una continua e imprescindibile tendenza a mutare, soprattutto in considerazione del genoma notoriamente “flessibile” dell’animale a quattro zampe per eccellenza, il fatto stesso che ciò possa essersi verificato può costituire un chiaro punto a favore della razza sredneaziatskaya ovcharka (Pastore dell’Asia centrale) più comunemente detta Altai. Ritenuta di gran lunga troppo utile, nell’assoluzione di una pluralità di mansioni, per poterla sostituire efficacemente con qualsiasi alternativa disponibile fino ad ora. Perché in essa, come nell’originale branco di lupi, figurano le predisposizioni complementari dei diversi membri capaci di attribuirsi reciprocamente i doveri: chi fa la guardia al territorio, chi procura il cibo, chi protegge il gregge affidatogli dai pastori umani. Propensione, questa, sorprendentemente imprescindibile nella specie C. lupus familiaris. Così come le forme ponderose messe in evidenza dall’idealizzata statuetta di Altyndepe…

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