L’arteria pinnuta che porta nel cuore della foresta

I ritmi della vita sono diversi nelle profondità delle acque lacustri, fluviali e marine. In un periodo tra i 2 e i 6 mesi, si schiude l’uovo, e si fa la conoscenza col mondo in forma di avannotti. Una volta esaurito il nutrimento presente nella propria capsula di nascita, si inizia a dare la caccia al plankton. La più piccola ed onnipresente corrente di vita. L’estate non fa in tempo a finire, che già sei diventato un parr: il termine, privo di equivalenza italiana, che indica i giovani salmoni. Per tre anni, tali esseri restano in questo stadio, finché non sentono con tutto il loro essere che è giunto il momento della verità. Tre anni sono passati, quando si lasciano indietro la livrea mimetica a strisce, sostituita da scaglie scintillanti come la corazza di un antico eroe. A quel punto, sono pronti: in un turbinio di guizzanti esseri, la grande migrazione ha inizio. Dapprima a gruppi sparuti, quindi veri e propri branchi, l’esercito dei nuotatori inizia a percorrere le anse e le rapide del fiume Chilkat, in Alaska. Loro è il trionfo, l’estasi e la ricchezza. Di un vero e proprio furto generazionale: quante sostanze nutritive, quali magnifiche proteine, l’energia accumulata, costoro sottraggono al luogo di provenienza? Come una valanga che tutto assimila, i pesci corrono verso valle. Ma nel farlo, come una sanguisuga, si portano via il fluido stesso dell’entroterra, verso le oscure vastità dell’Oceano Pacifico. Chi ma risarcirà la foresta?
Gli anni passano, quindi, senza particolari eventi. Forme anonime nella vastità turbolenta, i salmoni vagano per i verdi pascoli d’alghe, catturando tutto ciò che gli capita a tiro. Al raggiungimento di un autunno che può essere il terzo (Salmone Rosa) il quinto (S. di Coho) il settimo (Chum salmon) l’ottavo (Sockeye) o il nono (Chinook) i pesci raggiungono la pubertà. È allora, secondo alcune teorie, che un particolare accumulo di ferro nel loro cranio si attiva, attivando un senso di localizzazione magnetica che gli permette di tornare verso la foce di provenienza. Ed è nel momento in cui i loro ricettori chimici percepiscono l’odore delle acque natie, che inizia la seconda trasformazione: è spaventosa a vedersi. I pesci aumentano la loro massa corporea come l’Incredibile Hulk, sostituendo le proprie fibre muscolari rosse con quelle bianche, più adatte a sforzi ed imprese disperate. Nei maschi, la parte anteriore della bocca sviluppa un uncino (il kype) mentre i loro denti crescono a dismisura. Alcune specie vedono svilupparsi un’impressionante gobba, dalla finalità incerta. Ed è in questa forma, che iniziano a risalire il fiume, verso il luogo in cui avverranno la deposizione e l’incontro nuziale.
Si tratta, naturalmente, di un grande sacrificio. Ciascuno di questi pesci comprende che al termine di questo viaggio, potrebbe non fare ritorno mai più. Benché tra le specie del Pacifico, ne esistano alcune in cui la femmina sopravvive allo sforzo, e ritornata fin giù al mare, può riprendersi gradualmente per vivere ancora quell’esperienza. Ma questo non è garantito, né essenzialmente realmente opportuno. Poiché lo scopo stesso del salmone, come animale semèlpare, è di riprodursi e morire. O venire ghermito dai predatori ancor prima di riuscire a farlo. Persino questo, è preferibile all’oblio marino. Per quale ragione, la natura l’ha concepito così? Non sarebbe stato meglio creare un essere in grado di riprodursi più volte nel corso della propria vita… Forse. Eppure, forse no. La ragione, o il merito di tutto questo va ricercata nell’azione collaterale di uno specifico, fondamentale animale: l’orso.

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Nulla sfugge a questa trappola per pesci cambogiani

Alcuni dei migliori pescatori del suo villaggio erano soliti affermare, con espressione compunta e schiena rigida per l’ovvietà: “Il mattino è l’ora giusta per catturarsi la cena. Chi si sveglia tardi, troverà soltanto la fame.” Ma Samang non era un pescatore, con tanto di barca, canna e largo cappello per farsi scudo dal Sole. Lui che apparteneva, piuttosto, alla classe sociale dei contadini, avrebbe messo in campo l’energia di un diverso tipo di antica sapienza, uscendo verso la parte finale di un pomeriggio di questo caldo inverno tropicale. La luce a 45° penetrava, almeno in parte, tra le foglie delle canne da zucchero e i pandani, piante tradizionalmente collocate ai margini della risaia. Sotto i suoi piedi nudi, franava e si spalmava il terreno cedevole del bund. Un… Argine, avremmo potuto chiamarlo, l’accumulo di terra oltre il quale iniziava lo spazio deputato alla coltivazione del più nobile dei cereali, stagionalmente sommerso in uno strato d’acqua per proteggere la pianta dai parassiti.E adesso, nel pieno della stagione secca verso la metà di febbraio, era il momento perfetto per fare la sua mossa: quando i semi migliori dell’area rurale sita ad est di del grande lago di Tonle Sap stavano per dare il loro prezioso raccolto, e la carpa di prato (koan ikan) era pronta a dare sfogo alla sua indole maggiormente esplorativa, finendo dritta nella rete d’inganni creata dalla mente fervida del suo principale nemico, l’uomo.
Raggiunto il punto desiderato, Samang smise di camminare e depose a terra la parte più pesante della sua attrezzatura, dall’alto grado di specificità: nella mano sinistra, portava infatti una busta di plastica riempita da 10 sezioni di un tronco di bambù, dal diametro di circa 25 cm, tagliati ad arte con la sega manuale conservata nella sua abitazione galleggiante lungo il corso del grande Mekong. Nella destra, aveva una pratica paletta di metallo, con cui senza particolari esitazioni si mise a scavare il friabile suolo del bund. Un poco alla volta, il suo progetto iniziò a prendere forma: non una piscina per lillipuziani, bensì una buca profonda all’incirca 45 cm, dai bordi perpendicolari e gli argini perfettamente ben compattati. Apparentemente soddisfatto del suo lavoro, passò quindi alla parte successiva del progetto: uno alla volta, inserì i tubi di origine vegetale nella barriera argillosa, avendo cura che fossero situati l’uno a ridosso dell’altro, come in una sorta d’insensato sistema d’irrigazione. Così che, da una parte, le condotte sfociassero sul fondo fangoso dei margini della risaia, e dall’altra finissero a strapiombo sulla fossetta da lui scavata. Per buona misura, il bambù non era perfettamente orizzontale, bensì inclinato in salita: questo per evitare l’allagamento, e conseguente inutilità della trappola da lui costruita. Dallo zainetto sulle sue spalle, quindi, il costruttore tirò fuori un recipiente con il coperchio, nel quale erano presenti alcuni granchi vivi ed un piccolo sasso appuntito. Usando il secondo sui primi, ne fece ben presto una pappa simile a un pureé, che venne disposta ad arte all’interno del bambù, sopra e tutto intorno all’ingresso della sua personale applicazione del simpel jebak, il “semplice trucco” tramandato in via diretta dal popolo degli Khmer. Per nascondere l’effetto del suo lavoro, quindi, Samang prese dei rami caduti attorno al teatro della sua opera, e li dispose con cura a fare da tetto alla piccola voragine che per lui, avrebbe sostituito il supermercato.
Le ore passano, verso l’ora del rosseggiante tramonto, mentre gli agricoltori e i pescatori del villaggio fanno ciascuno ritorno alla propria casa-barca, per un atteso convivio con la famiglia e il riposo meritato dei lavoratori. Mentre i loro occhi si chiudono, senza un suono, letterali dozzine di misteriose forme nerastre iniziano a strisciare dagli smunti rigagnoli dei torrenti. Sotto la luce riflessa di un Luna a metà, le bestie serpentiformi chiudono le loro branchie ed iniziano, finalmente, a respirare.

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L’intelligenza artificiale del drone anti-squalo

Immaginate uno scenario in cui qualcuno è stato incaricato di premere un pulsante. Non a intervalli regolari, come nel bunker del telefilm Lost, bensì con uno scopo e metodologia precisa: ogniqualvolta il pulsante viene premuto, una vita umana sarà salvata dall’assoluto baratro della dannazione. Questa persona, coperta di una simile assurda responsabilità, dovrà osservare la specifica comparsa di uno spettro affusolato nel mare. E soltanto al riconoscimento di tale diabolica essenza, intervenire. Per le prime settimane o mesi, volendo presumere di trovarci di fronte ad un individuo dall’alto tenore professionale ed equilibrato, tutto procederebbe speditamente. Ma dopo il primo inevitabile errore, costato la vita ad un innocente, il guardiaspiaggia inizierebbe ad irrigidirsi; il giorno a seguire, inizierebbe a premere il pulsante anche in momenti erronei, con conseguente dispendio d’interventi superflui di salvataggio; e dopo la prima serie di errori, inizierebbe a mancare la trascurare segni evidenti dello spettro, causando ulteriori incidenti. La sua vita, ancor più di quella delle vittime, diventerebbe un inferno. Qualcosa di simile è stato scoperto negli ultimi due anni dall’amministrazione regionale del NSW (Nuovo Galles del Sud, Australia) secondo luogo al mondo per vittime degli squali dopo la Florida, capitale mondiale dei bagnanti assaggiati “erroneamente” dal pesce carnivoro per assoluta eccellenza. Da quando, nel 2015, dando il via libera ad un progetto per ridurre simili casi nel luogo che ne ha visti ben 295 a partire dal 1990, di cui 122 fatali, il governo di Sydney ha stanziato i fondi per attivare il più sofisticato sistema multi-canale nella storia dei sette mari. Con reti a ridosso delle spiagge, boe di rilevamento, esche avvelenate, una app per le notifiche sul cellulare e droni, dozzine di droni, prodotti in parte dalla compagnia Little Ripper, con sede a Belrose, non più di 25 Km a nord della grande città di Sydney . La quale, avendo creato anche una scuola per l’addestramento e la preparazione sul campo degli addetti al pilotaggio e rilevamento, ha avuto modo di rilevare come l’accuratezza delle vedette a distanza fosse sorprendentemente bassa, nell’ordine del 20-30% di squali avvistati correttamente, senza fare confusione con delfini, balene o grossi pesci di vario tipo. Il che ha portato, negli ultimi tempi, alla ricerca di una soluzione alternativa: e se fossero i computer ad occuparsi di questa mansione?
Fa il suo ingresso in scena, a questo punto della tragedia, il team di ricerca del Prof. Michael Blumenstein, direttore della scuola di software nel dipartimento di scienze informatiche dell’Università Tecnologica di Sydney. Figura attiva nel campo dell’intelligenza artificiale, ma sopratutto, nell’ultima nuova branca di questo ambito, le reti neurali. Coadiuvato tra gli altri da un’altro ricercatore di origini indiane, il Dr. Dr Nabin Sharma, già produttore di algoritmi simili per il riconoscimento delle grafie orientali.  Fino a poco tempo fa, eravamo abituati a considerare lo strumento delle entità frutto della programmazione umana come ottimo per gestire i numeri, mediano con le parole, e pessimo per quanto concerneva l’interpretazione delle vere e proprie immagini, attività totalmente ingestibile senza possedere la preziosa fiamma del ragionamento autonomo, puro appannaggio del regno animale. Questa situazione, con gli ultimi progressi nella rapidità di calcolo e lo spazio d’immagazzinamento dati, è stata negli ultimi tempi notevolmente mitigata. E questo soprattutto grazie alla metodologia dell’apprendimento profondo, codificata nella prima volta nel 2006, ad opera degli scienziati Hinton e Salakhutdinov, che hanno scoperto come l’intelligenza artificiale potesse essere suddivisa in strati, e ciascuno di essi addestrato come una macchina stocastica di Boltzmann priva di supervisione. Il che significava, in parole povere, sottoporgli come possibile scenario di utilizzo una quantità spropositata di interpretazioni dello stesso soggetto, concetto o immagine, finché il computer non diventasse in grado di riconoscerlo ed interpretarlo in totale autonomi. In quello che si potrebbe definire, non senza un certo timore reverenziale, la vera scintilla della vita creata in laboratorio. Macchine che possono salvarci oppure distruggerci, dunque, come profetizza più di qualcuno, ma che soprattutto nel frattempo, possono agire per semplificarci notevolmente la vita. Ed in qualche caso risparmiarci l’incontro con belve feroci del più mordente tipo…

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Il pesce che si fonde alla sua compagna per procreare

Nelle profonde oscurità oceaniche, per una vita  ti ho cercato. Due, tre, quattro settimane. Tu sei la mia alba ed il mio tramonto, la mia Luna, casa ed avventura. So bene che se riesco finalmente a trovarti, la mia vita cambierà radicalmente: niente più nuotare liberi, nessuna ebbrezza della caccia. Tu sarai per me l’apoteosi e una prigione, al tempo stesso, l’Alfa e l’Omega della mia insignificante vita. Ma se l’immensità di questo ambiente, le grandi distanze ed il vertiginoso senso della solitudine, alla fine, avranno la meglio sulla mia ricerca, allora morirò di fame, lentamente. Pensando a te. Questo è il senso dell’amore per “noi”. Che cosa siamo? In Italia ci chiamerebbero, con esibizione d’antonomasia, la rana pescatrice, benché in effetti quel particolare tipo di pesce abissale sia bentonico, ovvero abituato a vivere in prossimità dei fondali e per questo appiattito verticalmente, mentre noi che pratichiamo questa specifica modalità di accoppiamento siamo i veri diavoli del nulla, gli abitatori dei grandi spazi vuoti tra i 1.000 ed i 2.000 metri di profondità. Scientificamente: i Ceratiidae, ma anche qualche specie di Melanocetidae. Quasi mai, i Lophiidae delle più spericolate tavole ittiche europee. In inglese, ci chiamano anglerfish, con riferimento alla lenza luminosa che impieghiamo, assai frequentemente, per attrarre a noi le piccole prede da cui siamo chiamati a trarre nutrimento. Perché quaggiù nell’infernale vuoto, il cibo è scarso per definizione, richiedendo uno sforzo continuo per mantenersi in vita. Così l’evoluzione ha dotato le nostre femmine, ma non noi maschi, di una pinna dorsale modificata, in cui il primo raggio cartilagineo presenta una serie di pori, all’interno dei quali vivono batteri bioluminescenti. Ma questo non è il solo caso di interrelazione simbiotica tra lei ed altre creature. Esseri come il qui presente pseudo-parassita, che dovrà fare il possibile per dare un morso alla sua pelle. E in un abile colpo di mano, diventare tutt’uno con lei.
È un fatto relativamente poco noto che questa intera categoria di pesci abissali (oltre 200 con distribuzione in tutti gli  oceani della terra) presenti il più marcato dimorfismo sessuale dell’intero regno animale. Il che vuol dire che mentre lei, a seconda della specie, può arrivare a misurare fino a un metro di lunghezza, raramente lui supera i 3-4 cm dalla testa alla coda. Come può avvenire, dunque, la fecondazione? Se non grazie alla straordinaria furbizia e capacità strategica della natura… Dal momento stesso della nascita, lui dispone infatti di un olfatto straordinariamente sviluppato. Seguendo la direzione delle sue spropositate nari, le più grandi in proporzione alle dimensioni del cranio, cerca attentamente finché non gli riesce di trovarla, possibilmente, girata da un’altra parte. Questo perché un anglerfish è perennemente affamato, e mangerebbe pressoché qualsiasi cosa prima ancora di aver capito la sua effettiva natura. La segretezza è importante perché non deve esserci una battaglia. Bensì soltanto lui che, avvicinatosi a sufficienza di soppiatto, trovi un punto da mordere per fare come il pitbull col postino, che stringe quella caviglia per non lasciarla andare mai più. E quindi secerne una saliva contenente l’enzima digestivo, che dissolve la sua mascella e il preciso punto di congiunzione, creando i presupposti per l’orribile ibrido uomo-cane. Ma tralasciando una simile visione degna dell’isola del Dr. Moreau, e ritornando quindi a noi, ovvero a me & Lei, tutto quello che noi chiediamo da una simile contingenza è l’opportunità di realizzare la fecondazione.
L’esigenza di un simile complesso rituale, che tra l’altro sembra diminuire la probabilità di sopravvivenza del maschio, è in realtà giustificato dal medesimo fattore sopracitato: la mancanza di sufficienti forme di cibo nell’habitat circostante. Per questo lui mangia pochissimo, o persino non mangia affatto. Un po’ come la farfalla ormai pronta a spiccare il volo e non guardarsi indietro mai più.

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