Molti sono i modi per intrattenere un gruppo di soldati impegnati in una difficile campagna in terra straniera, laddove le alternative calano drasticamente quando ci si trova nel XVI secolo, al comando di un’armata composta quasi esclusivamente da samurai. Guerrieri dediti al rispetto di un sofisticato codice, che limita e profondamente condiziona le maniere in cui è possibile deviare dalla probità convenzionale, pur potendo compiere le azioni più efferate al servizio del proprio signore, inviato dal kampaku Hideyoshi (il “consigliere” dello Shōgun) a conquistare la penisola coreana. Sto parlando nella fattispecie di Shimazu Yoshihiro, secondo figlio di Takahira che almeno dal 1572, aveva assunto una posizione di preponderante importanza all’interno del suo clan. Dalla quale lavorando alacremente, e dando prova di notevoli capacità di comando, aveva contribuito all’unificazione dell’isola del Kyushu e successivamente si era trovato alla testa dei 7.000 soldati soprannominati “i demoni Shimazu” capaci di sconfiggere nel 1598 a Sacheon un’armata di 37.000 uomini al servizio dell’impero dei Ming. Imprese impegnative che lasciavano ben poco tempo all’intrattenimento, sebbene come ogni grande leader, egli comprendesse bene l’importanza di far riposare di tanto in tanto la spina dorsale del suo esercito, composta nonostante i presupposti da esseri umani con aspirazioni, interessi e talvolta famiglie in fiduciosa attesa dall’altra parte dello stretto mare. Ecco l’idea, dunque, che sarebbe passata alla storia di un particolare luogo strettamente legato al culto della sua personalità guerriera, consistente nell’adattamento a un pubblico adulto di un qualcosa di strettamente collegato all’esperienza delle giovani generazioni giapponese: il combattimento tra cosiddetti mushi (虫) ovvero insetti, ovvero piccole creature di diverso tipo, inclusive di svariate tipologie di artropodi e/o vermi di terra. Categoria entro la quale, dopo presumibile lunga disanima ed analisi delle possibili alternative, Yoshihiro o il proprio incaricato individuarono il possibile miglior rappresentante negli esemplari femmina della specie dei ragni Argiope amoena (絡新婦 – jorogumo, letteralmente “ragno prostituta”) creature dal diametro di 10-11 mm e l’addome dalla riconoscibile livrea aposematica gialla e nera, oltre all’abitudine di posizionarsi formando una lettera “X” sopra la loro ragnatela quasi perfettamente circolare. Carnivori decisamente aggressivi, all’interno del proprio ambiente, tanto che pur essendo privi dell’istinto a combattersi per avere priorità del territorio o in materia d’accoppiamento, risultano naturalmente inclini a comportarsi in maniera vicendevolmente ostile se s’incontrano, col semplice obiettivo (spesso inconcludente) di riuscire a fagocitarsi a vicenda. Ottimo punto di partenza, in parole povere, per provvedere a metterne un paio alle contrapposte estremità di un ramo, permettendo di scommettere su quale riuscirà nel giro di pochi secondi a uscirne vincitore, generalmente finendo per scaraventare l’avversario nella rete di sicurezza sottostante. Un tipo di spettacolo, insomma, non particolarmente facile da dimenticare ancorché mai menzionato nelle cronache al di fuori del sopracitato contesto, attraverso il quale sembrerebbe aver approdato, almeno dagli anni ’50 dello scorso secolo, presso la ridente cittadina di Kajiki, nell’odierna prefettura di Kagoshima. Il solo ed unico luogo al mondo in cui si tiene regolarmente (Covid permettendo) l’annuale gran torneo del Kumo Gassen (クモ合戦 – Battaglia dei Ragni) finalizzata a rievocare questa antica usanza, su possibile analogia degli scontri tipicamente amati dai bambini tra i grossi coleotteri volanti, spesso individuati come possibile origine dell’idea dei Pokémon, tra cui non mancano di certo creature ispirate al reale mondo prototipico dei mushi in senso tradizionale. Tra cui questi particolari ragni, tra tutti, spiccano ampiamente in termini di eleganza e precisione dei movimenti…
ragni
L’insegnamento ecuadoregno del variopinto aracnide col dorso di tartaruga
C’era una volta un ragnetto salticida che si vantava di saltare più lontano di qualsiasi altro membro della sua classe, le otto zampe raccolte elegantemente sotto l’addome mentre si spostava da un ramo all’altro della foresta pluviale. E ogni volta che passava dalla dimora del suo distante cugino Encyosaccus dagli stravaganti e inutili puntini dorsali, non mancava di rivolgergli incalzanti parole di scherno: “Guarda come sei lento, con quel tuo dorso niente affatto aerodinamico. E coi tuoi occhi piccoli e poco sviluppati, non ci vedi praticamente nulla. Scommetto che in un giorno non potresti riuscire a prendere neanche quattro mosche di seguito. Puah-teh-tico!” Al che l’involontario e piccolo interlocutore, ruotando su se stesso come il cestello di una lavatrice, alzò deliberatamente il suo chelicero sinistro, rispondendo con voce sottile: “L’arroganza non ti fa onore, cugino. Anche il ragno più agile del mondo può essere battuto, sai?” un sottile strato di rugiada rifletteva la luce del sole, producendo riflessi conturbanti sopra il dorso dai colori di un’arancia “E chi potrebbe mai riuscire a farlo, un rigido e pesante araneide come uno di voialtri costruttori d’ingombranti ragnatele?” Al che il variopinto ragno tartaruga, dopo un attimo di profonda introspezione rispose “Sfida accettata, cugino. Domattina all’alba sopra il ramo mediano dell’albero di quina. Il katidide dalla forma di una foglia sarà il nostro giudice di gara.” Al sopraggiungere dell’ora predestinata, quindi, il ragnetto salticida decise che sarebbe arrivato un po’ in ritardo, per innervosire l’altro concorrente. D’altra parte sapeva molto bene che nessun cacciatore passivo come quel tipo alla moda avrebbe potuto rincorrere e ottenere risultati altrettanto degni di essere inseriti nel dorato albo dei catturatori di ditteri nell’aria umida e pesante del sottobosco. Ma nell’avvicinarsi deliberato al luogo predestinato, si accorse di qualcosa d’insolito. Le sue zampe posteriori, infatti, stavano iniziando a rimanere impigliate sotto lo sguardo attento di una distante ed amichevole coccinella. Progressivamente, un balzo dopo l’altro, i suoi movimenti diventarono sempre più complicati, mentre risaliva con la consueta leggiadria il tronco sdrucciolevole dell’albero di quina. Prima che potesse rendersi conto di quella che stava succedendo, tuttavia, una forma tozza e stravagante calò silenziosamente alle sue spalle, rivelando la sua vera natura niente affatto pacifica ed affrettandosi ad avvolgergli tutto attorno uno spesso strato di fili che coprivano la bocca, gli occhi e l’addome. “Ah, ah, ah. Ora di pranzo, mio caro cugino. I morti non parlano, non insultano e soprattutto rivelano ben presto tutto il gusto sopraffino delle proprie interiora risucchiate da un pratico foro nella parte esterna del proprio esoscheletro chitinoso.” Quindi poco prima che la preoccupante locuzione iniziasse ad essere dimostrata in senso pratico dal ragno mimetizzato, l’ormai non più tanto beffardo esponente del sottordine degli araneomorfi privi-di-ragnatela poté udire solamente l’accenno di un lieve e ripetuto frinire. Era il verso del katidide a forma di foglia, divertito dalle dispute letali tra alcuni dei suoi più piccoli e stereotipici nemici. Ah, l’avevo dimenticato. Il nemico del mio nemico può soltanto essere… CRUNCH!
L’imprevedibilità mimetica di un aracnide coperto da un migliaio di specchi
Oltre il fiume dei giganti, sopra i rami della grande quercia, il demonio della valle rifletteva in merito al motivo stesso della sua esistenza. In più di una maniera. Silenzioso, immobile, invisibile, attento, agile, minuscolo tra i fili… Da ogni punto di vista, tranne la preparazione a fare il suo dovere tra i complessi macchinari del mondo: percepire l’attimo della fatale vibrazione. Affinché ciò che transitava, diventasse momentaneamente immobile. Perfettamente stabile nel grande flusso dei momenti. Giusto il tempo necessario per avvicinarsi, e dare inizio alla sua opera perfettamente calibrata sulla base del bisogno. Poiché se un ragno di per se possiede quattro paia di zampe, certamente il paio più importante può essere soltanto il primo. Con cui avvolge rapido la mosca, la formica e il moscerino. Incapaci di capire l’ora ed il momento del pericolo, finché non è già tremendamente tardi per poter pensare ancora all’indomani. Ma il concetto stesso di questa creatura, intesa come l’olotipo o allegoria di un intero genere, denominato nel 1881 Thwaitesia dal barbuto zoologo Octavius Pickard-Cambridge, è che questi non conosce neanche la necessità di essere furtivo. In quanto possiede, nel suo stesso corpo, il principio e il metodo di un potentissimo segreto. Perché mimetizzarsi, quando si può riproporre il proprio stesso ambiente circostante agli occhi di colui che cerca la tua presenza? Perché nascondersi, quando si è capaci di cambiare in caso di necessità la forza e l’efficacia di una simile misura? Ed è proprio sotto questo aspetto, che l’eccezionale convenienza di un simile meccanismo emerge prepotente dall’anonimato di un catalogo antologico delle creature viventi. Ed è proprio in questa significativa ma poco studiata discendenza di artropodi predatori, fin da tempo immemore, che si tramanda il rarissimo segreto della riflettanza. Uno di quegli approcci alla soluzione di un problema tanto validi ed ingegnosi, come il fuoco, che noi siamo soliti affermare “Di sicuro, nulla più di questo può distinguere l’uomo dagli animali.” Ma non dovremmo certo sottovalutare ciò che nasce già specializzato in certi campi. Ed è stato equipaggiato, grazie al grande corso dell’evoluzione, per riuscire a regolare l’effettiva quantità di prede nel proprio legittimo bioma d’appartenenza.
Il che ci porta chiaramente al punto cardine della faccenda, così analizzato online, piuttosto che all’interno di aule polverose in qualche celebre università, direttamente nell’antico bosco a Singapore dall’esperto di macro-fotografia Nicky Bay, forse il primo ad osservare (e di sicuro a divulgare) una caratteristica notevole di questa vasta e variegata categoria di creature. All’interno del suo interessante articolo del 2013 Transformation of the Mirror Spider, corredato da una lunga serie di supporti visuali utili a dimostrare un significativo cambio di paradigma: la presa di coscienza che non soltanto un aracnide possa restituire la luce nella direzione di colui che osserva. Ma sia in grado di decidere di volta in volta se è il caso di farlo, ed in che misura…
Osservando le acute strategie di caccia del ragno triangolare australiano
Nella vita accelerata di una mosca, la bellezza può essere pericolosa, persino letale… Voglio dire, per un dittero anche la bruttezza può esserlo, o persino l’assenza di una percezione sensoriale di alcun tipo, accompagnata dall’assenza di particolare senso critico che si accompagna stesso alla natura assai rudimentale di un cervello che capisce più che altro dei concetti vaghi come “fame”, “sazietà”, “risposare” o “FUGA!”. Poiché non importa quanto possano essere allenati i propri sensi, non si può scappare da quello che non si è capaci di vedere, e/o individuare come fonte di pericolo, o/e sviare con un rapido balzo all’indietro, seguito dal ronzante tentativo di elevarsi al di là del problema. Cose che silenti giacciono sul bordo della foglia. Esseri dormienti, ma soltanto in apparenza, il cui senso stesso della vita si realizza nell’agire rapidi, ed inaspettati, chiudendosi come una pinza creata per tagliare il flusso di un massiccio acquedotto cittadino.
Placida, tranquilla, addirittura amena può essere una forma come quella del cerchio. Solida e coerente quella del quadrato. Ma è il triangolo, tra tutte, ad essere la più dinamica e aggressiva, spigolosa, intonsa di un pesante senso di minaccia di natura primordiale; quello espresso, a suo modo, dal genere australiano e delle isole limitrofe degli Arkys, un gruppo di ragni tessitori della famiglia Araneae che in un momento non specificato della loro esistenza pregressa devono essersi detti qualche cosa sulla falsariga di “Chi ha davvero tempo per fare questo?” Abbandonando l’abitudine di creare le tipiche appiccicose trappole di forma grossomodo circolare. Scegliendo in modo alternativo di affidarsi alla rapidità fulminea delle proprie zampe anteriori, capaci di chiudersi con una forza sufficiente a mantenere intrappolata un’ampia varietà di possibili prede. Predatori dunque di quel tipo aracnide alternativo, cui appartengono anche i cacciatori salticidi, ma tutt’ora inclini ad adottare l’originale tattica dei propri antichi predecessori ancor più tradizionalisti contemporanei: passività prima del movimento. Pazienza sopra l’avidità. Ben sapendo che qualcosa o qualcuno, presto o tardi, dovrà necessariamente passare di lì.
Creature non troppo studiate dal mondo scientifico, probabilmente per il semplice rapporto tra la quantità di aracnidi esistenti e il tempo disponibile all’interno dei laboratori, i ragni triangolari sono d’altronde particolarmente amati dai fotografi del continente d’Oceania, proprio per la loro abitudine a sostare immobili rendendo molto facile l’inquadratura, anche alle loro dimensioni assai ridotto che raramente superano gli 8-10 millimetri nella femmina, circa 6 nel maschio. Per non parlare dell’aspetto sostanzialmente identico tra i sessi per ciascuna singola specie, nonché straordinariamente variegato tra queste, in un tripudio di colori, forme e approcci molto personalizzati al concetto di mimetismo. Poiché non c’è agguato maggiormente inutile, di quello che persino una mosca potrebbe anticipare. Soltanto il suo concetto di chiarezza non è sempre, oppure necessariamente, identico a quello di un imponente bipede del mondo bipede dei Sapiens…