Il cowboy che forgia una katana

Kill Bill Katana

Per quanto il mito dell’invincibile spada giapponese permei ad ogni strato la struttura dell’immaginario popolare moderno, dal cinema ai cartoni animati, dalla letteratura ai videogiochi, sono eccezionalmente poche le volte in cui venga spiegata la ragione effettiva della sua presunta superiorità, e ancora meno quelle in cui l’autore si preoccupi di descriverci nei dettagli il metodo alla base di una simile tecnologia. Persino nel film di Tarantino Kill Bill, trionfo metareferenziale d’estetica Pop e icone preternazionali che si scontrano tra loro, uno dei momenti culmine della vicenda, quello in cui “la sposa” Uma Thurman, nel suo percorso di vendetta, ottiene dal più grande fabbro okinawese l’unica arma che avrebbe mai potuto permettergli di sopraffare gli avversari, si risolve in due o tre scene dall’estrema concisione, riassumibili in mi serve una spada/ho giurato di non farne più nessuna/devo uccidere Bill, il tuo malefico vecchio studente!/Ah, allora ok, passa (dopo)domani. E quell’uomo anonimo, denominato con l’appellativo anacronistico di Hattori Hanzo (storicamente sarebbe stato il nome del capo delle spie del clan Tokugawa, vissuto negli anni topici dal 1541 al 1596) si ripresenta sulla scena con l’epico implemento già fatto e formato, lasciando noi gli spettatori, forse illusi dall’attenzione ai dettagli mostrata fino a quel punto della storia, a bocca asciutta nella più interessante delle questioni: come nasce, esattamente, un’arma leggendaria giapponese? Il fatto è che si tratta di una lunga storia. Talmente stratificata e complessa, che spesso anche la documentaristica di genere tende a glissare sui primi fondamentali passaggi del processo, per soffermarsi quindi su questioni secondarie come l’assemblaggio tra le parti, la cura artistica da gioielliere che spesso viene infusa in componenti secondarie quali la guardia (tsuba) il fermo metallico della stessa (fuchi) ed il pomello di chiusura dell’impugnatura (kashira). Ma persino tutto questo, nella realtà dei fatti, conterebbe veramente poco nella costruzione di quel mito: un’arma, per quanto esteticamente appagante, non sarà mai davvero bella, se non svolge il suo compito con ferrea ed adeguata spietatezza. E questo, Kerry Stagmer lo sa bene. L’uomo chiamato, a partire dalla fine del 2014, a sostituire il precedente protagonista Tony Swatton nella serie di YouTube dall’eccezionale successo Man at Arms, in cui veri e propri fabbri dei nostri tempi, il cui lavoro principale è diretto soprattutto all’àmbito dell’industria cinematografica, s’industriano nel dar soddisfazione alle richieste di un pubblico di vari appassionati dell’arma bianca (chi può non esserlo, in questa epoca di supereroi?) che suggeriscono con entusiasmo la diavoleria da costruire per ciascuna settimana. Gli artigli di Wolverine, sciabole magiche, l’attrezzatura ispirata a Batman di ogni sorta di eroe ludico e animato. Talvolta, addirittura creazioni originali ed ironiche, pensate per tradurre in freddo acciaio l’estetica di personaggi particolarmente amati per le ragioni più diverse, come la protezione cornuta creata per la testa di un ipotetico cavallino a partire dall’estetica dei My Little Pony, un lezioso e sdolcinato cartoon per ragazzine.
Ma c’è un momento, un attimo della verità, in cui qualsiasi creativo smette di seguire le strade fin troppo battute, si eleva dagli stereotipi e produce qualche cosa, la singola straordinaria cosa, che aveva sognato fin dall’inizio della sua carriera. Si potrebbe discutere sul fatto che nella storia artistica del regista Tarantino, tale punto di svolta sia sopraggiunto proprio con il capitolo film della bilogia citata in apertura (2003) primo della sua produzione in cui la trama, da mero accessorio dal susseguirsi situazioni assurde da lui immaginate, diventava un motore che fa muovere l’intero impianto della regia, basata sullo schema classico dell’action-thriller d’arti marziali. Un impresa ripetuta negli anni successivi, in effetti, per i film di guerra (Bastardi senza gloria – 2009) e il genere western (Django Unchained – 2012). Mentre è certo di contro che nella storia dell’intero canale Man at Arms non c’era mai stato nulla di paragonabile a questa ultima puntata, dedicata proprio all’arma ineccepibile di quel cult movie artificialmente costruito, l’excalibur post-litteram di colei che viene suggestivamente chiamata dall’antagonista, nel momento culmine del primo film: “La sciocca ragazza caucasica che gioca con le spade giapponesi.”
E la differenza di questa proposta si nota già dalla lunghezza del video, ammontante a circa il doppio di un normale episodio della serie, per un totale di quasi 19 clamorosi minuti. Un’eternità, nel panorama iper-attivo di YouTube, in cui la durata dell’attenzione media di uno spettatore si misura in decine di secondi, quando non addirittura decimi di un simile tempo, in una vera e propria traslazione del concetto iper-breve di poesia Haiku (5-7-5 sillabe) all’interno del mondo dell’intrattenimento in full motion video moderno. Quando questo è un vero e proprio sonetto, anzi una novella, di quello che avrebbe comportato l’effettivo processo costruttivo dell’originale produttore di questa katana. Ripercorriamolo assieme.

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L’esperimento della Coca Cola e il piombo fuso

Taofledermaus

“Buongiorno, parlo con Jeff di Taofledermaus, il canale di YouTube con più di 480.000 iscritti? Si, piacere di conoscerti. Apprezziamo molto il tuo lavoro, al punto che vorremmo chiederti un favore. Potresti recensire per noi l’ultimo modello di fornelletto da campeggio a gas con accensione piezoelettrica, nome in codice dPower? Naturalmente, ti invieremmo a casa gratuitamente il prodotto, ed inoltre potrai inserire un link sponsorizzato verso Amazon nella descrizione al video…” Certo, su Internet non c’è una grande soluzione di continuità. Aziende che mettono in commercio dei prodotti non specifici, come chi produce simili ausili per la vita all’aria aperta, difficilmente si preoccupano di pubblicizzarli tramite canali ad alta specificità: monopattini compaiono negli spezzoni dedicati a una città, cappellini il marchio in bella vista sponsorizzano le performance di esperti videogiocatori. Però sarebbe lecito aspettarsi in ciascun caso, ecco, almeno un certo grado di attinenza. Ed ecco un individuo, proveniente dalla California assieme alla sua equipe non molto meglio definita, che ha costruito la sua fama non tanto sul mettere in mostra oggetti tecnologici, quanto piuttosto nella pratica di strani esperimenti coi metalli, costruzioni ed invenzioni dall’alto grado d’interesse, sia scientifico che d’intrattenimento. Dare in mano a un simile visionario un oggettino in grado di produrre il fuoco, nella sostanza, significa porre le basi per l’ennesimo capitolo di una complessa saga. Sembra quasi di sentire le rotelle che giravano, quel giorno, mentre si aggirava nella sua officina alla ricerca di un’idea. Vediamo un po’ che c’è: la mia vecchia padella in ghisa! Un’avanzo dei pallini usati l’altro giorno per andare a caccia! Una lattina, rimasta per semplice distrazione fuori il frigorifero, nell’estate riarsa della Baja…E chi se la berrebbe mai, adesso. Per fortuna che c’è un uso alternativo, anzi, un prurito intellettivo da alleviare finalmente, dopo tanti anni di cogitazione. Che succede ad una bibita frizzante gettata dentro a un mini-crogiolo da 327 gradi centigradi? Manterrà il gusto fresco dell’estate ricca di opportunità?
Si tratta di un approccio, un po’ come gli altri impiegati di frequente dallo stesso autore, più che altro pseudoscientifico, mirato alla dimostrazione sperimentale di un principio non spesso messo alla prova, con metodi analoghi a quelli della trasmissione televisiva dei Mythbusters. Ed in effetti, proprio come in un episodio di quest’ultima, lui parte da un preconcetto già acquisito, quello che “ci si aspetterebbe” in tali circostanze, almeno a suo dire: l’evaporazione del contenuto d’acqua, come nell’estrazione del sale marino, con un conseguente accumulo di un residuo zuccherino, che riscaldato a un tale punto avrebbe subito preso fuoco. L’ennesima vampata verso il successo, soltanto che…Non proprio. Perché la realtà, come spesso capita, finisce per superare la fantasia, mentre le prime gocce timidamente fatte galleggiare sulla superficie ribollente, piuttosto che sparire la sovrastano con fiera leggerezza. Ed anzi iniziano, persino, a scivolare da una parte all’altra, come dei piccoli hovercraft marroni. La ragione di un tale fenomeno, su cui Jeff non si sofferma granché nella spiegazione, è l’effetto cosiddetto Leidenfrost, dal nome del fisico tedesco che lo trattò, per primo, in un suo saggio del 1756. Ciò che succede, in sostanza, è che il liquido inizia, si, ad evaporare, ma lo fa prima nella sua parte direttamente a contatto con quella superficie particolarmente calda, e ad una velocità tale che gli strati sovrapposti, ancora sottoposti all’attrazione della forza gravitazionale, finiscono per fargli da barriera invalicabile. Si genera quindi una sorta di scontro tra queste tendenze contrapposte, verso l’alto e il basso, che prolunga notevolmente la sussistenza di un tale equilibrio, facendo correre la goccia per lunghi minuti in tale imprevista condizione. Ma il bello viene dopo: all’aggiunta rapida dell’intero contenuto residuo della lattina, con un certo grado d’imprudenza che non può essere che enfatizzato dall’assenza di qualsivoglia protezione a vantaggio del protagonista, si fosse anche trattato solo di semplici guanti. Va considerato che il metallo fuso che riceva un improvviso apporto liquido, talvolta, lo ingloba sotto la sua superficie, per poi scaldarlo fino al punto dell’ebollizione. Il vapore risultante, quindi, si accumula ed esplode all’improvviso, scaraventando globuli metalliferi e bollenti in giro per l’ambiente circostante. Inutile dirlo, un simile fenomeno è sempre proporzionato alle quantità e temperature di contesto. Nel caso di questo esperimento, l’effetto massimo sarebbe stato qualche ustione qui e là: certo, comunque, che…Ma non soffermiamoci troppo sul “poteva succedere” quando il bello già si sta verificando: la Coca Cola, soltanto in parte evaporata, raffredda rapidamente il piombo, facendogli compiere i primi passi verso il ritorno ad uno stato solido. Una volta spento il fornelletto, il processo si è compiuto: dove prima c’erano i pallini, uno strano piatto bitorzoluto, la sostanziale impronta geometrica della padella, resa ruvida dal modo troppo enfatico con cui è stato versato il liquido di tempratura. Secondo alcune teorie fra i commenti, inoltre, gli acidi contenuti nella Coca Cola avrebbero donato allo strano oggetto una lucidità maggiore del normale, mentre lui, con gran soddisfazione, lo mette nell’acqua per finire di raffreddarlo, poi lo espone ai nostri occhi appassionati: “Non sembra anche a voi la Notte Stellata di Vincent van Gogh?” Non sembra anche a voi…

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L’artista inglese degli tsuba, le protezioni per katana

Tsuba

Imitare non è semplice. Fra tutte le applicazioni dell’arte, soprattutto se in tre dimensioni, non c’è nulla di più impegnativo che porsi a rapporto con l’opera di un maestro, con l’obiettivo dichiarato di produrre un qualche cosa che sia pari ad essa, o per lo meno degno di essergli accostato. Soprattutto poi, se quell’oggetto viene da una tradizione specifica e rigorosamente chiusa ad influenze esterne, come quella in cui s’impegna con profitto Ford Hallam, l’unico scultore europeo ad aver ricevuto prestigiosi riconoscimenti nei cataloghi e nelle riviste di metallurgia tradizionale giapponese. Al punto di trovarsi, tra il Giugno e l’Ottobre del 2009, in una situazione al tempo stesso invidiabile e spaventosa: il dover supplire, con la sua capacità manuale, alla mancanza lungamente lamentata di uno tsuba per la più lunga delle due spade realizzate nel diciannovesimo secolo da un artista della prefettura di Mito, Hagia Katsuhira. Con sopra la più inaspettata delle figure: una cupa e splendida pantera in agguato… Si dice che una volta, il rinomato incisore Katsushika Hokusai avesse dipinto l’immagine di un nume tutelare buddhista nello spazio di un giardino pubblico, in dimensioni tanto estese da permettere a un uomo a cavallo di attraversare la sua bocca o di consumare un pasto nello spazio del suo occhio. Ma se i precetti dello Zen dicono: “Incontra il Buddha per strada, quindi uccidilo” non c’è  tanto da meravigliarsi, nel ritrovare lo splendore del mondo naturale addirittura qui, sopra un elemento costruito a margine del conflitto tra gli umani.
Nel nostro medioevo, l’elemento preferito per condurre lo stemma di una famiglia nobiliare fin dentro al campo di battaglia era senz’alcun dubbio lo scudo. Per ragioni pratiche, le dimensioni, la forma, la varietà di materiali e lavorazioni utilizzabili, oltre che simboliche, connesse al concetto del sangue degli antenati che rinasce in forma inanimata, con lo scopo di deviare i colpi del nemico. Ma come affrontava la stessa questione un samurai, guerriero del Giappone feudale resistito, senza alcuna profonda variazione concettuale, per oltre mille anni di confronti tra i daimyō del clan e i loro servitori in armi? L’individuo che, nato nella remota epoca Nara (710-784) come guerriero armato d’arco, lancia, falcione e/o grande mazza in legno (kanabo) ebbe ad evolversi, attraverso il successivo periodo della capitale spostata a Kamakura, nel prototipo del perfetto spadaccino, dedito all’ineccepibile impiego di quelle che erano e sempre rimasero elaborazioni di pesanti sciabola da cavalleria. La nihonto (spada giapponese) ha molte forme: può essere soltanto lievemente curva e portata con la lama verso il basso (tachi) oppure più corta e gibbosa (katana) o ancora la versione per così dire portatile della stessa cosa (wakizashi) queste ultime due spade, tradizionalmente, agganciate assieme alla cintura dei guerrieri per l’intera epoca classica e fin quasi alla modernità. Poi ci sono le esagerazioni, come la spaventevole nodachi a due mani, fino ad un 1,8 metri di metallo attentamente ribattuto, comparabile per imponenza a una zweihander del Sacro Romano Impero. Ma per tutte queste innovazioni tecniche, le prime e più significative espressioni guerresche di un Giappone non più legato alla Cina, bensì piuttosto in netta contrapposizione culturale con l’intero continente asiatico, qui non si ebbe mai occasione di scendere in campo con gli stemmi stretti saldamente in una mano, in mezzo a una costellazione di piastre metalliche ben rivettate. Non è difficile trovare un collegamento tra la cultura marziale di questo paese e la completa mancanza di scudi, per lo meno nella tradizione celebrata dagli storici e poeti coévi: il samurai ideale dovrebbe essere un devoto seguace, in egual misura, del suo signore e del principio della morte in quanto in tale. La sua eventuale sconfitta, in mezzo frecce volanti e strali di metallo, altro non sarebbe che l’ottima occasione per raggiungere l’Empireo dei defunti, come dio postumo della guerra (Aragami). Quindi perché proteggersi? A che scopo ritrarsi dietro un pezzo di legno o metallo, come usavano fare i “deprecabili barbari” del sud? E la realtà potrebbe includere, in qualche misura, tale linea di pensiero. Però va anche considerato come la tecnica necessaria per usare efficacemente nel contempo spada e scudo non sia affatto naturale, e richieda una destrezza niente affatto trascurabile da parte del guerriero. Vederla usata, a tutti i livelli e gli strati della guerra occidentale, non prova assolutamente nulla: nella guerra, come nella scienza, c’è sempre un qualcuno che scoprendo un metodo, configura i limiti dell’altrui possibilismo. Mentre più semplice, nonché naturale, diventa affidarsi a una guardia in rame dal diametro di 5, 8 cm o poco di meno, del tutto sufficiente per difendersi in determinate condizioni. E per la questione esteriore…Ecco, qualcosa si può fare. Qualcosa che.

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È il fuoco elettrico che fa l’acciaio

Steel Arc Furnace

L’azione tipica di un drone è ormai davvero chiara agli occhi, come alle orecchie, di chi sperimenti quotidianamente i video del suo sfarfallare: sollevarsi gradualmente, sorvegliare un’area, producendo un suono che sarebbe un po’ come il verso di una zanzara, almeno se quest’ultima pesasse un paio di 600 grammi e non avesse quindi l’obbligo di mantenere un velo di silenzio. Quanto spesso, nell’ultima ripresa aerea di una valle verdeggiante, di una spiaggia assolata, delle pecore in Nuova Zelanda che vagheggiano sui prati sconfinati, l’unico aspetto auditivo che ci viene riservato è il galoppare di una dolce musica di sottofondo, rilassante quanto vagamente…Incolore. Perché chiaramente, l’alternativa sarebbe: ZZZZzzzzZZZZzzzzZZZZ […] Bello si, però decisamente inappropriato. Chissà che non sia stata proprio questa la ragione teorica dell’originale scelta della HEIGHT TECH GmbH & Co. KG, azienda tedesca produttrice di esacotteri con agganci per montare videocamere professionali, che aveva deciso di mostrare il proprio ultimo prodotto non nei soliti contesti naturali, bensì all’interno della cosa più vicina agli Inferi si questa Terra: la sala principale di un forno elettrico a fusione, dove si separano gli uomini veri dagli stipendiati, così come le scorie ferrose dal metallo carbonifero, linfa vitale dell’industria odierna. Fuoco, scintille e un gran rimbombo clamoroso, eclatante, marasma della sordità incipiente. Ecco forse, ripensandoci, saranno meglio le note di un crescendo armonico tradizionale. E poi, ci sono da considerare le aspettative di genere. Agli effetti sonori, pensateci voi.
Perché forse, rassicurati dal concetto classico secondo cui l’elettricità artificiale sia condotta attraverso il metallo, ma non il legno o gli altri materiali, davvero non possiamo già renderci conto del fragore che risulta dall’arco elettrico di una fornace; se non grazie a un parallelo prettamente metereologico: vedi quel fulmine con lampo e tuono. Tre fenomeni diversi eppure strettamente collegati. In effetti, risultanti dalla stessa contingenza naturale: l’elettricità accumulata negli strati elettrici dell’atmosfera che ad un certo punto tràcima dal suo vaso (di Pandora) e corre con sonoro botto fino al suolo, distruggendo ciò che trova lungo il suo percorso (aerei, alberi, persone, ovini, bovini…) Ciò detto va considerato come, dopo tutto, persino la folgore di Zeus non sia che una scintilla, benché grande quanto il vasto cielo. Questo perché consta si, di un potenziale elettrico tale da ionizzare addirittura 2 Km di pura aria, rendendola conduttiva, ma dura solo una manciata d’attimi immanenti. Mentre un arco artificialmente prodotto vedi la fornace, quello può prolungarsi all’infinito. O almeno finché la rete elettrica locale sarà in grado di rifornire il suo trasformatore certificato per un massimo di 60,000,000 volt-amperes. Il quale tempo tecnico, in effetti, è molto meno lungo dell’eterno incedere delle stagioni nonché, niente affatto stranamente, limitato alle ore buie, quando le compagnie elettriche alzano le soglie di consumo, abbassando parimenti le tariffe offerte ai loro clienti preferiti.
Il grande drone sorvolava, quindi, questa sala illuminata dalle fiamme di un processo tanto eccezionale, eppure stranamente quotidiano in molti dei paesi più industrializzati al mondo, incluso il nostro. Se uno qualunque degli operatori, distratto dal suo delicato compito di giornata, avesse guardato verso l’alto per un singolo momento, avrebbe visto questa vespa ingegneristica guidata da remoto, con un moto significativo di sorpresa! L’oggetto del telecomando era diventato, per la prima volta dalla sua costruzione, totalmente stealth: chi lo sente sopra il suono di un piccolo tuono, però lungo dal tramonto all’alba, punteggiato dalla sferragliante aggiunta di rottami da fluidificare verso il passo di rinascite future….

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