Il genetista che voleva creare la volpe super-addomesticata

Prendi due parti d’amore, 30 grammi d’empatia. Aggiungi un pizzico di comprensione e cuoci a fuoco lento nella pentola dell’amicizia: rendere mansueto un animale, può essere… Facile? Talvolta. Esistono creature dalle più svariate indoli, più o meno inclini ad accettare il cibo dalla mano glabra, di colui che domina sugli elementi e il territorio che condividiamo con milioni di altre specie. Dai più diversi gradi di adattabilità ed intelligenza. Poiché i ricordi individuali, quella parte fondamentale di ciò che compone l’esperienza di vita di una “persona” più o meno pelosa, hanno un ruolo primario nella formazione del suo carattere, e il complesso sistema di cause ed effetti che trasformano persino un leone nell’amico del suo guardiano allo zoo. Finché un giorno, qualcosa d’inusitato non scatta nella mente del grosso carnivoro, riportandolo per pochi attimi alla logica dei propri antenati. Ed allora con un balzo rapido in avanti e allunga i possenti artigli verso l’uomo che si era imprudentemente voltato di spalle, con il chiaro intento di ferirlo, ucciderlo e mangiarlo. Dopo tutto questo fanno i leoni, giusto? Prendi una creatura inusuale, quanto relativamente facile da gestire come una lontra e trattala esattamente come fosse un cane. Essa imparerà, attraverso un periodo lungo parecchi anni, a comprenderti ed assecondare il tuo volere. Ma non cercherà mai d’interpretare realmente i tuoi sentimenti, alla stessa maniera in cui Fido tende naturalmente a fare. Già, naturalmente: che cosa significa questa parola? Ve ne sono almeno due interpretazioni. Quella che sottintende l’assenza di manipolazioni da parte degli esseri umani ed un’altra, differente ma non del tutto, in cui diviene il sinonimo funzionale dell’espressione “per nascita”. Ovvero prende in considerazione soltanto il percorso di un singolo esemplare, piuttosto che la sua intera discendenza. Provate a prendere un leone e tiratelo su nel vostro giardino alla stregua di un pastore maremmano. POTREBBE anche andarvi bene. Qualora il vostro amico dovesse essere tanto fortunato da riuscire ad accoppiarsi e generare una prole, tuttavia, i suoi cuccioli saranno nuovamente animali selvatici. E il percorso ricomincerà da capo.
Mentre sappiamo bene che questo non succede coi figli di un cane, cavallo, maiale o in misura minore, il gatto per così dire “di casa”. Ci sono creature che possono adattarsi completamente a una vita subordinata all’animale uomo; un tempo si riteneva perché maggiormente portati, in virtù delle loro caratteristiche inerenti, a modificare il loro stile di vita ricambiando sinceramente l’affetto e l’aiuto ricevuti nel corso della propria esistenza. Poi venne la ricerca preliminare di un scienziato russo di nome Dmitry Belyayev, condotta poco prima della metà del secolo scorso, il quale aveva notato una sorta di filo conduttore. In tutte le razze addomesticate, indipendentemente dalla specie di appartenenza, tendevano a presentarsi alcune caratteristiche comuni: le orecchie più grandi e flosce, il pelo a macchie bianche e nere, la coda arricciata, l’emissione di versi striduli e mugolii. Quasi come se questa capacità di realizzare completamente il proprio potenziale in cattività fosse, in realtà, il frutto di una specifica sequenza di geni, potenzialmente manifesti nell’intera classe dei mammiferi e anche al di fuori di essa. Ora se una simile teoria fosse stata elaborata al giorno d’oggi, probabilmente lo scienziato avrebbe prodotto uno studio degno di catturare l’attenzione degli etologi e suscitare una proficua disquisizione su scala internazionale. Ma poiché a quei tempi, in Unione Sovietica vigeva la dottrina anti-scientifica del Lyseoncoismo, estremamente contraria al sistema della selezione naturale teorizzato per la prima volta da Charles Darwin, gli scritti di questo suo futuro collega furono immediatamente messi al bando, mentre per punirlo, fu rimosso dal suo incarico a capo della Divisione Animali da Pelliccia di Mosca e inviato nella remota Novosibirsk, presso la divisione locale dell’Accademia Scientifica Siberiana. E questo fu per lui una relativa fortuna, considerata la fine che attendeva in quegli anni tutti gli aperti oppositori del sistema di governo. Ciò che potrebbe sorprendere, tuttavia, è che costui non si perdette assolutamente d’animo, ma piuttosto, sfruttando la maggiore indipendenza guadagnata in un luogo tanto distante dal potere centrale, continuò le sue ricerche, trovando un modo per dimostrare al mondo, finalmente, il ruolo del patrimonio genetico nella creazione di nuovi alleati a quattro zampe per l’uomo. Decidendo di rivolgere la sua piena attenzione per il resto della vita al specie Vulpes vulpes, comunemente detta volpe rossa comune. Interessandosi secondo il suo progetto di copertura soltanto alla morfologia di questi animali, Belyayev inviò quindi i suoi aiutanti in tutti gli allevamenti più vicini dediti allo sfruttamento del prezioso pelo prodotto, suo malgrado, dal più sfuggente e scaltro tra i canidi d’Eurasia. Per acquistare dopo una lunga analisi, uno sopo l’altro, tutti gli esemplari che gli sembravano in qualche modo tollerare o accettare la presenza dell’uomo. Dopo aver posto in posizione le sue pedine, a questo punto, il celebre scienziato iniziò a farle accoppiare.

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L’antico splendore metallico del cavallo d’oro

Dal punto di vista dello sviluppo tecnologico di un paese, vi sono vantaggi inerenti nel tipo di risorse disponibili all’interno dei confini del suo territorio: minerarie, per la costituzione di un particolare approccio all’ingegneria; idriche, nel campo dell’agricoltura e successivamente, la generazione d’energia. Ma ci fu più di un popolo, nel mondo antico, il cui destino fu sempre indissolubilmente legato a quello di una specifica razza di cavalli. Una faccenda che entrò a pieno titolo nella storia, secondo quanto ricordato dal grande narratore Erodoto, attorno alla fine del quinto secolo a.C, quando re Dario il Grande, durante la sua prima invasione della Grecia, si presentò alla testa di un esercito di 100.000 lancieri e “10 cavalli sacri, che accompagnavano il suo carro togliendo il fiato a coloro che avevano l’occasione di vederli”. Essi erano, per quanto fu chiaramente riportato, equini provenienti dalla città di Nicea, la città tra i monti Zagros oggi nota come İznik, la cui leggenda diventò un filo conduttore dei molti secoli a venire. Si diceva che lo stesso grande re di Persia fosse salito al potere quando l’imperatore achemenide Cambise II era caduto da uno di questi cavalli, proprio mentre il suo nitriva nella direzione dell’alba. Quando successivamente, nel 481, l’odiato Serse prese possesso della Tessaglia, lo fece in sella ad uno di queste magnifiche creature, che notoriamente fece gareggiare con le rinomate cavalle di quella regione, vincendo. Nel 479 a.C, poco prima della gloriosa vittoria di Platea, gli ateniesi elaborarono un piano specifico per uccidere il cavallo del generale nemico Mardonio, a tal punto era temuta la sua capacità di condurre una carica in battaglia. Mentre oltre un secolo dopo, all’inversione dell’intera tendenza del flusso delle civiltà, quando Alessandro Magno avrebbe infine invaso le terre dello sconosciuto Oriente, l’avrebbe fatto in sella ad uno di questi stessi animali, quel Bucefalo tradizionalmente rappresentato nel colore marrone chiaro che oggi sappiamo provenire da una combinazione dei due tratti genetici definiti Isabella e Palomino, rispettivamente ocra chiaro ed ocra dorato.
Ma non prima che detta linea ereditaria, per un tramite che il mondo ha sostanzialmente dimenticato, giungesse fino in Turchia, nella regione circostante le oasi a nord della catena montuosa Kopet Dag, nota come Akhal. Dove vivevano, da tempo immemore, le genti che sarebbero diventate note col nome di Teké, andando a costituire la principale tra le cinque tribù turcomanne. Ora, se è possibile affermare che la gente si adatta a ciò che il fato gli ha concesso per farsi strada in mezzo alla folla dei popoli confinanti, questo è del resto vero anche per i loro animali. Ed è così che quella razza, custodita e tenuta in massima considerazione da tutti coloro che ebbero la fortuna di possederla, venne qui allevata per lungo tempo, cambiando progressivamente attraverso i secoli a venire. Il cavallo di Nicea si trova, da un punto di vista della discendenza, alla base dell’intera genìa dei cosiddetti equini a sangue caldo, inclusivi del cavallo Arabo, quello Berbero, il Lusitano, ed anche il Turcomanno, cambiò significativamente in base a chi l’aveva adottato. Affinché potesse dare il suo massimo anche nelle terre dell’odierna Turchia, esso si guadagnò progressivamente degli zoccoli più sottili, perfetti per avanzare sul terreno roccioso, ed una schiena lunga per i lunghi viaggi, poiché a differenza dei Beduini, queste genti non possedevano la capacità di ammaestrare il cammello, ed utilizzavano quindi la stessa cavalcatura in guerra ed attraverso le loro peregrinazioni nella vastità del deserto. L’Akhal-Teké, come divenne noto all’incirca verso la fine del Medioevo, era per questo uno dei cavalli più resistenti che il mondo avesse mai conosciuto, naturalmente agile, snello e leggiadro nei movimenti, soprattutto in forza della selezione che ne era stata fatta al servizio di molte generazioni dei predoni locali, che sfruttavano principalmente l’arco, al contrario dei Persiani specializzati nelle cariche di cavalleria con la lancia. La cultura che nacque dietro all’allevamento di simili bestie, quindi, assunse gradualmente un che di mistico, conducendo alla soluzione, certamente innovativa per l’epoca, di tramandare di padre in figlio informazioni sulla linea di sangue dell’uno o dell’altro stallone e delle loro compagne. Era nato, attraverso soluzioni per lo più orali, il primo vero allevamento selettivo nella storia dell’uomo.

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Le distanti origini del gatto nuotatore

All’ombra dell’antico castello, fra gli edifici sfoggianti esempi storici di architettura ottomana, dove sorgevano un tempo le vestigia di Urartu, capitale di un impero, entrò in scena Vankedisi, un ulteriore prodotto del gene turco, che aveva donato ai gatti provenienti dal Mediterraneo qualcosa che non avevano mai avuto prima: un folto pelo, candido e setoso, per proteggersi dai gelidi inverni di queste regioni. È una strana commistione di fattori, poiché si tende a pensare che gli animali debbano per forza essere: A – selvaggi, oppure B – un prodotto della selezione umana. Eppure in una simile regione, situata in corrispondenza delle coste orientali del Mar Nero, esiste questa insolita via di mezzo, per cui il più rappresentativo felino sopravvive non come proprietà delle famiglie di allevatori, bensì in qualità di loro vicino, evolutosi liberamente attraverso le generazioni. Esiste il termine inglese landrace, per cui non c’è un’esatta traduzione italiana (benché a volte venga impiegato il composto “ecotipo”) concepito per riferirsi a una creatura, sia animale che vegetale, i cui tratti specifici e razziali derivano da uno specifico ambiente di provenienza. E ci sarebbe ben poco a differenziare il gatto della città di Van dal suo simile situato 1.000 miglia ad occidente, il gatto d’angora della città di Ankara, se non fosse per una particolare presenza nella sua regione: un lago salino di 12.500 chilometri quadrati. Ora non è chiaro, esattamente, quando questo piccolo mammifero abbia iniziato a visitare le assolate coste di un simile bacino. Eppure attraverso i secoli, e sia chiaro che ne sono passati parecchi, il suo manto ha acquisito una speciale dote idrorepellente, diventando privo del sottopelo, mentre i muscoli delle zampe si facevano più forti e resistenti. Il gatto era diventato perfetto per tuffarsi, ed inoltrarsi tra i flutti alla ricerca di cibo, soddisfazione, fresco estivo…
Le prime attestazioni archeologiche relative al gatto di Van sono datate attorno al 75 d.C, quando questa regione diventò l’estremo confine orientale del grande Impero Romano. E gli ufficiali delle legioni, colpiti dagli scattanti cacciatori di topolini ed uccelli, pagarono per farseli raffigurare sugli scudi. La razza diventò quindi altamente rinomata e caratteristica di questi luoghi, prosperando virtualmente indisturbata fino al XV secolo, quando una serie di fiere commerciali diffusero la sua fama in tutto il Vicino Oriente. A qualche astuto diplomatico, dunque, venne in mente di inviare il gatto in dono alle corti europee, così come anticamente era stato fatto col gatto d’angora verso il regno di Persia, dando origine indirettamente ad un’altra delle razze più celebri dell’attuale panorama felino. Nel giro di 100 anni presso i nostri dintorni culturali, il Van diventò il gatto dei potenti, dei nobili e dei re, che ne tenevano sempre uno nei loro giardini, per costituire oggetto d’invidia ad opera dei loro pari. Nel 1600 il famoso astronomo, botanico e viaggiatore Fabri de Peiresc ne riportò una certa quantità in Francia, dove tra i clienti del suo allevamento poté annoverare lo stesso Luigi XIII e il cardinale Richelieu. Con le successive importazioni del gatto Persiano, tuttavia, tutti i promotori del gatto di Van passarono all’alternativa più popolare, causando la progressiva scomparsa della razza dallo scenario d’Occidente.
Il gatto di Van, nella sua forma originale, è quasi sempre completamente bianco, benché non presenti affatto il gene della sordità, diffuso altrove fra questa variante cromatica dell’animale. Uno dei suoi punti di fascino maggiore sono gli occhi, ambra o turchese, ma ancor più spesso, uno ambra e l’altro turchese, creando un contrasto che sembra mirare al profondo dell’animo e dell’empatia umana. La visione di questi gatti è da sempre così affascinante per i visitatori dell’area geografica che anche storicamente, pare fosse diffusa l’abitudine di prenderne uno e riportarlo con se a casa. Secondo un documentario della BBC del 1991 ma che raccontava anche esperienze pregresse, simili casi si verificarono ancora in epoca moderna, con l’inevitabile conseguenza, altamente spiacevole, di stare effettivamente sottraendo l’animale al suo padrone, che come da prassi turca lo lasciava girare libero di cacciare sulle strade circostanti la sua abitazione. Quindi nel 1955, questa razza fu ufficialmente “riscoperta” dagli europei, finendo però stranamente, per diventare qualcosa di radicalmente diverso.

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L’ascesa e il declino del cane più caro al mondo

Un milione e mezzo di dollari. Non credo che li spendereste per un animale domestico. Del resto, selvaggio non è forse migliore? Che cosa avrebbe mai da guadagnare, un essere a quattro zampe prodotto dall’evoluzione, nel venire incapsulato e condizionato dalle norme dell’umana società? Prototipica è l’immagine, talvolta utilizzata a scopo esemplificativo, del nostro amico cane che fronteggia il suo antenato, il lupo. Candido e tremante, il primo, cupo e minaccioso, gli occhi rossi dalla furia l’altro. Con denti acuminati dal consumo di carne e fresca e talvolta pulsante, laddove Fido è invece abituato a sgranocchiare croccantini e bocconcini e accetterebbe pure, Dio non voglia, venefici (per lui) cioccolatini! Per non parlare dei muscoli e la costruzione fisica, induriti nella bestia dal bisogno di correre col branco fra la neve e in mezzo ai boschi della taiga, ricercando il cibo per se stessi e i cuccioli in un territorio straordinariamente ostile. Un confronto molto facile da ponderare, questo, se si usano 9 su 10 compagni domestici di quest’epoca moderna e urbanizzata. Ma che sarebbe risultato assai diverso, all’epoca dei nostri antenati. Ritornando con la mente all’Era Classica, da Occidente a Oriente, quale pensate sia stata la prima funzione del cane… Se non proprio, quanto segue: spaventare, soverchiare e annichilire il lupo, per garantire la sopravvivenza del bestiame maggiormente vulnerabile in possesso dei padroni. Si dice che il principale cane tibetano sia in qualche maniera simile all’aspetto primordiale della sua genìa, poiché “mastino” o “molosso” è la forma che sarebbe stata giudicata ideale all’epoca della prima selezione artificiale effettuata dall’uomo: una creatura così formidabile, e possente, che nessun animale del suo ambiente d’impiego mai potuto contrastarla in un combattimento alla pari. Superiore, addirittura, al lupo. Per questo la chiamavano Drog-khyi, nel suo paese sopra il tetto del mondo, che significa “cane da tenere legato” in maniera analoga all’antico idioma inglese bandog, usato per gli incroci di razze finalizzate a produrre il più feroce guardiano dell’uscio e del giardino di frontiera americano. Ma che in Himalaya invece, per una endemica limitazione del pool genetico, sarebbe risultato sufficientemente conforme ad una serie di particolari caratteristiche da essere inserito nella FCI (Fédération cynologique internationale) come razza a tutti gli effetti, e nello specifico, una delle più grosse e forti del mondo. Fino a 83 cm al garrese, e 72 Kg di muscoli pelosi, in grado di rappresentare il più prezioso tesoro vivente di una famiglia di pastori o l’intera comunità di un villaggio isolato. Esistevano a tal proposito due varietà del cane, spesso prodotte nella stessa cucciolata e per questo non distinte dalla classificazione occidentale: Do-khyi, il cane “nomade” più scattante e leggero, Vs. Tsang-khyi, il “cane da monastero” un vero e proprio gigante in grado di fare praticamente qualsiasi cosa, tranne muoversi alla velocità del tuono. Persino il suo latrato sapeva risultare particolarmente spaventoso e potente, al punto da gettare lo sconforto nel cuore di un qualsivoglia ladro. Poiché la notte, normalmente, il “cane legato” veniva invece sciolto e lasciato libero di vagare tra l’oscurità, come uno spettro simile a un leone di Foo.
Quello che tuttavia non si sarebbero mai immaginati, neppure i suoi allevatori con una lunga e articolata tradizione generazionale, era che un intero paese estero potesse autodichiararsi all’improvviso “pazzo per il Drog-khyi”, dimostrando di essere disposto a fare pressoché qualsiasi cosa, pur di accaparrarsene un esemplare da esposizione. E con paese intendo, ovviamente, per lo più la classe dirigente, dei cosiddetti nuovi ricchi della Cina, nel cui ambiente ogni bene insolito, non importa quanto specifico nel suo impiego prefissato, può istantaneamente trasformarsi nel simbolo del proprio status e il sangue stesso di una nuova moda, nella quale investire molti letterali milioni di yuan. Dal che si arriva a questo video del 2014 della testata Vice, in cui un inviato percorreva, ad occhi spalancati, le auguste sale dell’annuale fiera nazionale dei mastini tibetani di Yidu, nello Hubei, informandosi per quanto possibile sui pregi e il costo fuori scala di questa nobile ed antica razza. Ed in effetti sembrava, in quel preciso momento storico, che il mastino tibetano potesse solamente continuare a salire. Ma le alterne strade del fato, a quanto pare, gli riservavano il più crudele dei voltagabbana…

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